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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 19/09/2014 Scarica PDF

I presupposti soggettivi di fallibilità ex art. 1 l.f. alla luce delle più recenti interpretazioni giurisprudenziali

Giuseppe Bersani, Magistrato


Abstract

Con il D. Lgs. n. 5/06 il legislatore ha riformulato i presupposti per la dichiarazione di fallimento al fine di riservare una procedura lunga e costosa come quella fallimentare solo alle situazioni particolarmente rilevanti da un puto di vista economico – patrimoniale.

Successivamente con il decreto “correttivo” n. 169/07 il Legislatore ha previsto nuovi criteri di fallibilità, i quali sono stati – negli anni successivi – oggetto di dibattiti dottrinali e giurisprudenziali al fine di pervenire a conclusioni il più possibile certe in ordine alla loro sussistenza e verifica nell’ambito dell’udienza prefallimentare.

Vengono di seguito indicate le principali problematiche e le soluzioni elaborate in giurisprudenza sulle tematiche di maggiore frequenza e rilevanza in ordine alla sussistenza dei presupposti oggettivi di fallibilità

 

1. Generalità e ragioni della riforma fallimentare del 2006 e del “correttivo” del 2007

Come è noto a tutti gli operatori del settore fallimentare il Legislatore della riforma mediante il D. Lgs. n. 5/06 aveva riformulato i presupposti per la dichiarazione di fallimento al fine di riservare una procedura lunga e costosa come quella fallimentare solo alle situazioni particolarmente rilevanti da un punto di vista economico – patrimoniale.

La più rilevante novità dell’intervento legislativo del 2006 era costituita dal fatto che era stato sostituito il criterio di elaborazione giurisprudenziale del “piccolo imprenditore” alla sussistenza di due requisiti costituiti dal superamento delle soglie degli “investimenti effettuati” e dei “ricavi lordi” conseguiti dall’imprenditore.

I criteri indicati dal legislatore nella riforma del 2006 sono stati considerati eccessivamente restrittivi, tanto che in alcuni Uffici giudiziari si era registrata una diminuzione fino al 40% dei fallimenti dichiarati, ed il Legislatore è tornato sui suoi passi con il “decreto correttivo” n. 169/07, prevedendo criteri soggettivi ed oggettivi di fallibilità in parte diversi ed in parte nuovi.

Con la nuova formulazione dell’art. 1 l.f. la “non fallibilità” dell’imprenditore commerciale viene ancorata alla insussistenza non solo di uno due requisiti previsti a seguito della riforma del 2006, (che comunque vengono meglio precisati: attivo patrimoniale, da una parte, e ricavi lordi annui, dall’altra), ma anche del nuovo parametro costituito dalla esposizione debitoria complessiva - comprensiva, sia dei debiti scaduti, che di quelli non scaduti - non superiore a cinquecentomila euro.[1]

Il parametro alquanto vago e di incerta definizione dell’ammontare degli “investimenti effettuati” è stato sostituito con quello dell’”attivo patrimoniale”, il quale consente di far riferimento alla precisa elencazione contenuta nell’art. 2424 c. c.

E’ stato inoltre precisato che, l’ ”attivo patrimoniale complessivo” annuo non superiore ad euro trecentomila da prendere in considerazione è soltanto quello relativo agli ultimi tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento.

L’indicazione degli ultimi tre esercizi anteriori alla presentazione del ricorso consente di delimitare con certezza il campo di indagine, evitando difformità di prassi applicative, peraltro in coerenza con la disposizione dell’articolo 14, che fa obbligo al debitore che chiede il proprio fallimento di depositare presso la cancelleria “le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti”.[2]

Anche il criterio dei “ricavi lordi” è stato opportunamente precisato e reso più rigido, in quanto, una volta eliminato il concetto di “media dei ricavi degli ultimi tre esercizi”, si richiede che, in nessuno dei tre esercizi precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, l’imprenditore abbia realizzato ricavi lordi annui superiore ad euro duecentomila.

Alla luce di tali modifiche parte della giurisprudenza[3] ha ribadito come la nozione civilistica di “piccolo imprenditore” deve considerarsi completamente superata, ai fini della fallibilità, dai criteri quantitativi e qualitativi dell’art. 1, comma 2, l.fall.: in particolare si è affermato[4] che il novellato art. 1 l.fall. ha soppiantano i criteri qualitativi dell’art. 2083 c.c.

A tale primo criterio interpretativo, che a nostro giudizio appare da preferire, si è contrapposta la soluzione proposta da parte di altra giurisprudenza di merito la quale ha evidenziato come costituirebbe onere degli imprenditori medio-grandi dimostrare di non aver superato alcuna delle soglie di legge, mentre per i piccoli imprenditori costituirebbe onere dei creditori dimostrare l’insussistenza dei requisiti qualitativi previsti dalla norma codicistica.[5]

La giurisprudenza di legittimità[6] ha peraltro statuito che il regime concorsuale riformato ha tratteggiato la figura dell’‘‘imprenditore fallibile’’ con riferimento esclusivo a parametri soggettivi di tipo quantitativo, i quali prescindono del tutto da quello, canonizzato nel regime civilistico, della prevalenza del lavoro personale rispetto all’organizzazione aziendale fondata sul capitale e sull’altrui lavoro.


2. La rilevanza del dato contabile

Con specifico riferimento ai parametri di riferimento dell’art. 1 l.fall. sopra richiamati, va subito evidenziato come gli stessi hanno tutti carattere contabile e sono desumibili, in linea generale, dall’esame delle scritture obbligatorie per gli imprenditori commerciali collettivi e dall’inventario annuale che si chiude con il bilancio per gli imprenditori individuali; la necessaria verifica del dato contabile ha portato la giurisprudenza a ritenere irrilevante – ai fini della fallibilità - il dato formale dell’iscrizione al registro delle imprese.[7] In giurisprudenza si è evidenziato come i bilanci degli ultimi tre esercizi, ancorche´ privi di efficacia di prova legale, costituiscono la base documentale imprescindibile della dimostrazione dell’insussistenza dei presupposti (che il debitore ha l’onere di fornire) per sottrarsi alla dichiarazione di fallimento, in particolare quando siano stati redatti conformemente alle disposizioni di legge in materia e non siano stati oggetto di impugnativa per violazione delle disposizioni stesse; da ciò deriva che il debitore può contestare i dati dei propri bilanci purche´ la prova della non fallibilità possa desumersi da documenti altrettanto significativi o nel senso di verificare la correttezza e veridicita` del dato contabile apparente, al di la` delle regole codicistiche.[8]

Sempre da parte della giurisprudenza di merito[9] si è poi ribadito che i dati contabili dell’impresa insolvente non assumono valore di prova legale ne´ introducono una limitazione all’assunzione e valutazione delle prove nel corso dell’istruttoria prefallimentare, all’esito della quale e` possibile procedere ad una loro rettifica ed integrazione, essendo scopo della norma quello di accertare le dimensioni reali ed effettive dell’impresa ritenuta insolvente.

Da parte del Tribunale di Udine[10] si è poi sottolineato che la valutazione dell’ammontare dell’attivo patrimoniale, in quanto mirante a far emergere la realta` economica dell’impresa, deve prescindere dalla formale applicazione dei principi contabili e della normativa in tema di redazione dei bilanci ogni qualvolta il loro rigoroso rispetto venga a determinare una divergenza tra il dato ‘‘formale’’ contabile e la reale dimensione dell’impresa.

Il dato contabile può pertanto essere disatteso quanto lo stesso sia frutto - per qualsiasi ragione – di irregolari annotazioni contabili: si è a questo proposito affermato che pur quando nella contabilità aziendale appaia superato il parametro previsto dall'art. 1 della legge fallimentare in relazione all'ammontare dell'attivo patrimoniale, ma questo sia il frutto di un'erronea contabilizzazione degli importi relativi alla voce "titolare c/prelievi", il ricorso per dichiarazione di fallimento deve essere respinto in quanto ciò che rileva sono le risultanze sostanziali della contabilità. [11]

 

3. La determinazione dell’attivo patrimoniale

Da parte della dottrina[12] è stata valutata positivamente la scelta normativa del “correttivo” di far riferimento all’attivo patrimoniale rispetto alla nozione di “capitale investito” introdotta inizialmente con il D.Lgs. n. 5/06, sottolineando come, in tal modo, si è consentito “l’ancoraggio ad un dato contabile certo, con un significato giuridico preciso”.

Per ‘‘attivo patrimoniale’’ si intende quella parte di patrimonio indicata nel bilancio disciplinata dagli artt. 2424 e 2425 c.c. per le società di capitali e quella parte dell’inventario redatto all’inizio di ogni esercizio e contenente l’indicazione delle attivita` ai sensi dell’art. 2217 c.c. per gli imprenditori individuali e le societa` di persone.

Con riferimento a tale concetto, la giurisprudenza di merito si e` mostrata molto sensibile alla necessita` di valorizzare il dato contabile sostanziale, in linea con l’evoluzione normativa; si è pertanto affermato che - con riferimento alle societa` di capitali - occorrerà fare riferimento al complesso delle voci dell’art. 2424 c.c. e quindi alle immobilizzazioni, all’attivo circolante, ai ratei ed ai risconti.[13]

Nel caso degli imprenditori non tenuti alla redazione del bilancio, invece, si e` statuito che tra le poste attive della situazione patrimoniale andranno sicuramente ricomprese anche le rimanenze di magazzino, mentre nel passivo devono essere computati i debiti contratti per l’acquisto degli stessi beni.[14]

Con particolare riferimento ai beni ai beni oggetto di contratti di leasing si è precisato come gli stessi dovranno senz’altro essere inclusi nell’attivo patrimoniale, evidenziando come - in caso contrario - si determinerebbe un’ingiusta discriminazione nei confronti di quegli imprenditori che abbiano utilizzato beni del tutto analoghi, ricorrendo pero` alle tradizionali forme di indebitamento.[15]

Ulteriore problema affrontato dalla giurisprudenza è stato quello relativo alla valutazione da attribuire ai beni immobili, individuando quello del “costo storico” al netto degli ammortamenti.[16]

Tale orientamento è stato ribadito in altra occasione, precisando che nell'ambito del procedimento per dichiarazione di fallimento, al fine di verificare l'esistenza dello stato di insolvenza dell'impresa, il valore delle immobilizzazioni materiali da prendere in considerazione deve essere quello determinato secondo il criterio di cui all'articolo 2426, comma 1, n. 1 c.c. del costo di acquisto o di produzione e non quello del valore di mercato.[17]

Il criterio indicato ha ottenuto l’avallo della giurisprudenza di legittimità secondo cui per gli immobili, iscritti tra le poste attive dello stato patrimoniale, opera - al pari che per ogni altra immobilizzazione materiale - il criterio di apprezzamento del loro costo storico al netto degli ammortamenti, quale risultante dal bilancio di esercizio, ai sensi dell’art. 2426, numeri 1 e 2, c.c., e non il criterio del valore di mercato al momento del giudizio.

Da parte di altra giurisprudenza[18] al fine di determinare l’”attivo patrimoniale” si è fatto riferimento ai “criteri di funzionamento”, affermando che per quanto riguarda gli imprenditori collettivi obbligati a redigere e depositare il bilancio di esercizio, l'attivo di cui alla lettera a) dell'articolo 1, comma 2, legge fallimentare, è quello delle voci di cui all'articolo 2424, lettere a), b), c) e d), appostate in conformità ai criteri di valutazione previsti dal successivo articolo 2426 c.c.

Da parte del Tribunale di Novara si è inoltre precisato che “... ai fini del raggiungimento della soglia dimensionale in questione, rilevano, quindi, le immobilizzazioni materiali, immateriali e finanziarie (articolo 2424 c.c., sezione attivo, voci di BI, BII e BIII); i beni acquisiti con leasing traslativo (i cui valori sono ricavabili dai conti d'ordine); l'attivo circolante, al netto delle imposte rettificative (rimanenze, crediti, attività finanziarie non costituenti immobilizzazioni, escluse le azioni proprie); le disponibilità liquide. Per la valutazione delle voci sopra indicate appare corretto far riferimento a criteri di funzionamento e non a criteri di liquidazione. La necessità di utilizzare criteri dimensionali effettivi e non meramente contabili – cui appare ispirarsi la giurisprudenza sopra citata - è stata, al contrario, evidenziata, da parte del Tribunale di Udine[19], precisando come, ai fini della valutazione della sussistenza dei presupposti soggettivi per la dichiarazione di fallimento (tra cui quello relativo all'ammontare dell'attivo patrimoniale degli ultimi tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento), appare conforme alla "ratio" della legge, che li ha introdotti in funzione di una valutazione della dimensione dell'impresa, operare una verifica che tenga conto dell'effettivo "attivo patrimoniale" quale espressione della reale dimensione dell'impresa stessa, evidenziando quindi come “.. tale accertamento pertanto, per rispecchiare la realtà di un'impresa, deve poter prescindere dalla formale applicazione dei principi contabili e della normativa in tema di redazione di bilanci ogni qual volta la loro rigorosa applicazione possa comportare una divergenza tra il dato "formale" contabile, e la realtà economica dell'impresa”.

Riteniamo preferibile l’interpretazione di tipo “contabile”, da cui deriva che il valore del capitale investito sarà costituito dal valore dei beni risultanti dal bilancio, detratto il fondo di ammortamento relativo.

 Si tratta di una soluzione opinabile che, tuttavia, presenta il vantaggio della certezza e della rapidità, rendendosi necessaria – in caso di adesione alla soluzione che valuta i beni impiegati nell’azienda secondo il loro “valore effettivo o di mercato” – una consulenza al fine di effettuare una valutazione di mercato dei principali beni aziendali. E’ evidente che tale ultima soluzione sarebbe impraticabile – o praticabile con grandi difficoltà - sacrificando i tempi della proceduta prefallimentare che il Legislatore della riforma ha voluto accelerare - in caso di richiesta di fallimento di società che impiegano numerosi beni sottoposti a svalutazioni periodiche, spesso difficilmente quantificabili, ma tuttavia ancora utilizzabili nel processo produttivo. [20]

Relativamente all’individuazione dell’”attivo patrimoniale” qualora venga richiesto il fallimento di una impresa individuale, da parte della giurisprudenza[21] si è optato per la soluzione che comporta la confusione in un unico patrimonio dei rapporti giuridici inerenti l'esercizio dell'impresa e di quelli personali dell'imprenditore, con la conseguenza che l'imprenditore diviene fallibile anche in ragione di debiti personali, atteso che tutti i crediti e i debiti faranno unitariamente ed inscindibilmente capo all'unico debitore, il quale risponde di essi con tutto il suo patrimonio ex art. 2740, c.c., senza alcuna differenza in ordine alla natura dei debiti stessi.

 

4. La determinazione dei ricavi lordi

Al fine della determinazione concreta del concetto di “ricavi lordi” non si può prescindere dall’apporto giurisprudenziale, ove si è precisato[22] che occorre fare riferimento, come per l’attivo patrimoniale, alle corrispondenti indicazioni fornite dalla disciplina codicistica di bilancio e in particolare alle voci dell’articolo 2425 c.c. A1, 2, 3 e 5 (con l’avvertenza che i valori delle voci 2 e 3, se negativi, vanno detratti), C15 e C16, E20 (plusvalenze da alienazione di immobilizzazioni), mentre vanno escluse dal computo le voci A4 (incrementi delle immobilizzazioni per lavori interni) e D18 (rivalutazioni).

Da parte della giurisprudenza di legittimità[23] si è poi precisato i ricavi lordi vanno considerati sulla base degli atti a disposizione, a prescindere dalle allegazioni del debitore.

La problematica dell’esatta individuazione del dato contabile è stata esaminata sotto altri molteplici aspetti da parte della giurisprudenza di merito: si è evidenziato[24] come nel caso di imprese in contabilita` semplificata, il dato di riferimento sarà costituito dalla dichiarazione dei redditi e piu` precisamente si è fatto riferimento alla nozione dell’art. 85 T.U.I.R. In altra occasione[25] si è poi evidenziato come, i ricavi lordi dovranno essere calcolati al lordo dell’I.V.A.

Nel caso di esercizio avente durata inferiore all’anno da parte della giurisprudenza si è affermato che il parametro previsto dall'articolo 1, legge fallimentare, dei ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo superiore ad euro duecentomila costituisce un dato di flusso assunto dal legislatore con riferimento al periodo annuale normalmente pari alla durata dell'esercizio sociale, con la conseguenza che in tale fattispecie i ricavi conseguiti in detto periodo dovranno essere ragguagliati all’anno. [26]

In giurisprudenza[27] si è affermato che i ricavi lordi devono essere valutati al netto di sconti, abbuoni, premi ed imposte direttamente connesse alla vendita dei prodotti ed alla prestazione di servizi, ma al lordo di altri costi imputabili all’attività, quali costi di trasporto e di assicurazione.

Inoltre, in considerazione del fatto che l’art. 1, comma 2, lett. b), l.fall. impone di prendere in considerazione i ricavi annui lordi ‘‘in qualunque modo risulti’’ si è affermato che tra i ricavi occorrerà tener conto anche di quelli non annotati nelle scritture contabili, ma accertati dall’amministrazione finanziaria anche in modo non definitivo, o quelli emersi dalle indagini effettuate dalla Guardia di Finanza.[28]

Si è pertanto precisato[29] che fra i ricavi lordi andranno ricompresi anche quelli “in nero” al fine di evitare effetti paradossalmente premiali per gli evasori fiscali.

La Corte di Cassazione[30] ha fornito un importante contributo al fine di individuare con esattezza il concetto di “ricavi lordi”, precisando che per l'individuazione dei "ricavi lordi", che vanno considerati ricavi in senso tecnico, occorre fare riferimento alle voci n. 1 ("ricavi delle vendite e delle prestazioni") e n. 5 ("altri ricavi e proventi") dello schema obbligatorio di conto economico previsto dall'art. 2425, lett. A, c.c.”

Da parte dei giudici di legittimità si è poi evidenziato come non possono farsi rientrare in tale nozione le voci dalla n. 2 alla n. 4 del menzionato schema e, in particolare, le variazioni delle rimanenze, “… le quali rappresentano dei costi comuni a più esercizi, che vengono sospesi, in conformità del principio di competenza economica di cui all'art. 2423 bis c.c., per essere rinviati ai successivi esercizi, in cui si conseguiranno i relativi ricavi.

 

5. La quantificazione dei debiti complessivi anche non scaduti

L’art.1, comma 2, lett. c), l.fall., prende in considerazione, come terzo elemento alternativo alla cui ricorrenza (alternativa) deve essere dichiarato il fallimento, la valutazione dell’esposizione complessiva dell’imprenditore, anche con riguardo ai debiti non scaduti, trattandosi di un requisito assunto dal legislatore del decreto “correttivo” quale indice dimensionale dell’impresa.

 In tale contesto dovranno essere considerati, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, anche i debiti condizionati, così come quelli derivanti dalla prestazione di garanzie che presuppongono la preventiva escussione del debitore[31], nonché i debiti contestati,[32] in quanto la contestazione non ne impedisce l’inclusione nel computo dell’indebitamento complessivo e non si sottrae alla valutazione del giudice chiamato a decidere sull’apertura della procedura concorsuale anche se la relativa pronuncia non pregiudica l’esito della controversia volta all’accertamento di quel credito.

Secondo la giurisprudenza deve – inoltre - ritenersi indifferente la natura civile o commerciale del debito[33], in quanto, ai fini dell’accertamento dello stato d’insolvenza, occorrerà tener conto solo del complesso delle obbligazioni gia` scadute al tempo della dichiarazione di fallimento che si possono ritenere ragionevolmente certe.[34]

 

6. L’individuazione del momento in cui rileva la sussistenza dei presupposti di fallibilità

Da parte della giurisprudenza[35] [36] sono state fornite precise indicazioni anche con riferimento al momento da cui retroagisce il triennio cui fare riferimento per la sussistenza dei presupposti di fallibilità sopra esaminati, precisando che tale valutazione andrà riferita al momento della declaratoria di fallimento, poiché è entro l’udienza prefallimentare che il debitore deve presentare tutta la documentazione attestante la propria situazione patrimoniale e finanziaria.

In tal senso si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità[37] affermando che nel giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento hanno rilevanza solo i fatti esistenti al momento della stessa e non i fatti sopravvenuti, dal momento che la pronuncia di revoca del fallimento presuppone che venga acquisita la prova che i presupposti per l’apertura della procedura non sussistevano già nel momento in cui la stessa fu aperta.

 

7. L’individuazione del periodo di riferimento per la sussistenza dei presupposti di fallibilità: il triennio precedente la presentazione del ricorso di fallimento

Il periodo di riferimento in cui deve verificarsi il superamento dei limiti dimensionali sopra esaminati è costituito – come già evidenziato - dal triennio precedente l’istanza di fallimento e va riferito agli anni commerciali della gestione economica e non agli anni solari,[38] con decorrenza dalla presentazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento.[39]

Il concetto di “capitale investito” pertanto dovrà essere inteso non facendo riferimento al totale di quelli effettuati nel corso degli anni dall’imprenditore, bensì solo all’attivo degli ultimi tre esercizi in ui rileverà il superamento del limite anche per un solo esercizio.[40]

Si è ancora sottolineato che la locuzione "tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento" che all'art. 1, legge fallimentare, ha sostituito l'espressione "ultimi tre anni" in forza del decreto correttivo numero 169 del 2007, deve essere interpretata nel senso che devono essere presi in considerazione i tre esercizi precedenti già conclusi prima dell'anno di presentazione dell'istanza di fallimento. Questa impostazione consente di prendere in esame esercizi chiusi ed evita di porre in essere una complessa attività istruttoria, in conformità con la volontà del legislatore di semplificare l'accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento.[41]

Nello stesso senso si è ribadito[42] che i tre esercizi precedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento di cui all'articolo 1, legge fallimentare, sono quelli “chiusi”, cioè “conclusi” a detta data. A tale conclusione si perviene – secondo la citata giurisprudenza - alla luce di quanto disposto dall'articolo 14, legge fallimentare, il quale prescrive il deposito delle scritture contabili e fiscali obbligatorie per tre esercizi (chiusi) precedenti, nonché per intuitive esigenze di semplificazione, dovendosi altrimenti riclassificare i dati contabili per ricostruire un triennio che non coincide necessariamente con gli esercizi.

Come si è già anticipato, a nostro avviso appare corretta l’interpretazione secondo cui deve ritenersi integrato il requisito della fallibilita` anche con il superamento di uno solo dei limiti dimensionali relativamente ad un solo esercizio.[43]

A questo proposito si è precisato[44] la soglia dell’art. 1, comma 2, lett. b), l.fall. si riferisce ai ricavi lordi conseguiti in ciascun anno e non alla media dei ricavi dell’ultimo triennio di esercizio, confermando il fatto che il richiamo ai tre esercizi antecedenti è riferito all’esigenza di rendere quanto piu` possibile, oggettiva ed adeguata alla realta` dell’ultimo periodo la valutazione dimensionale dell’impresa, onde evitare che la media dei ricavi venga fittiziamente contenuta mediante operazioni puramente strumentali per eludere il fallimento e comunque non rispecchianti l’effettiva entita` dimensionale in ciascuno dei periodi gestionali presi a riferimento.[45]



[1] Cfr. per l’espressa indicazione di tali criteri alla luce delle interpretazioni giurisprudenziali, Ferro – Di Carlo, L’istruttoria prefallimentare, Milano, 2010; Capo, I presupposti del fallimento, in Trattato di diritto fallimentare, diretto da Buonocore e Bassi, vol. I, Padova, 2010, 63 ss.

[2] Cfr. Ferro – Di Carlo, op. cit. 245 ss.

[3] Cfr. cfr. Appello Torino, 22 giugno 2007, in Il Fallimento., 2007, 1237, secondo cui ai fini dell’individuazione dell’imprenditore soggetto a procedura concorsuale deve farsi esclusivo riferimento ai criteri dimensionali prescritti dal novellato art. 1, comma 2, l.fall., senza la necessita` di indagare ulteriormente se costui sia da considerare piccolo imprenditore alla stregua dei criteri previsti dall’art. 2083 c.c.

[4] Cfr. Trib. Firenze 20 maggio 2008, in Foro Tosc., 2009, 110.

[5] Cfr. Trib. Salerno 7 aprile 2008, in Il Fallimento, 2008, 939.

[6] Cfr. Cass., sentenza 28 maggio 2010, n. 13086, in Il Fallimento, 2010, 1261.

[7] Cfr. Trib. Milano 11 aprile 2011 , in www.ilcaso.it, secondo cui nessun rilievo ha il dato formale puro e semplice della attuale insussistenza dell’iscrizione come imprenditore individuale nel Registro delle imprese, giacché la qualità imprenditoriale si assume con l’esercizio effettuale di un’attività impresa, e la relativa sussistenza può essere provata con ogni mezzo, comprese le presunzioni (art. 2727, 2729 c.c.), come nel caso di qualunque quaestio facti il cui accertamento è rimesso al solo apprezzamento del giudice di merito e resta insindacabile in sede di legittimità.

[8] Cfr. App. Torino 4 marzo 2011, in Il Fallimento, 2011, 632.

[9] Cfr. Trib. Terni 4 luglio 2011, in Il Fallimento, 2011, 1427.

[10] Cfr. Trib. Udine 13 gennaio 2012, www.osservatorio-oci.org.

[11] Cfr. Trib. Udine 30 novembre 2012, in www.ilcaso.it

[12] Cfr. U. Macrì Art. 1 l. fall. Limiti dimensionali, soglie di fallibilità, questioni probatorie, in Il Fallimento, 2013, pag. 1002.

[13] Cfr. Cass. 29 ottobre 2010, n. 22146, in Il Fallimento, 2011, 438, Cass. 29 luglio 2009, n. 17553, in Giur. comm., 2010, I, 1701.

[14] Cfr. Cass. 29 luglio 2009, n. 17553, cit.

[15] Cfr. Trib. Terni 4 luglio 2011, in Il Fallimento, 2011, 1247 e www.osservatorio-oci.org. La conseguenza di tale interpretazione è che costituirà onere dell’imprenditore dimostrare che il valore di tali beni non debba essere considerato parte dell’attivo patrimoniale in ragione delle condizioni del loro utilizzo, del loro valore residuo e del prezzo finale di riscatto.

[16] Cfr. Appello L’Aquila, 22 febbraio 2012, in Il Fallimento, 2012, 742.

[17] Cfr. Trib. Benevento 8 aprile 2013, in www.ilcaso.it

[18] Cfr. Trib. Novara 3 novembre 2012, in www.ilcaso.it

[19] Cfr. Trib. Udine 13 gennaio 2012, in www.ilcaso.it

[20] Cfr. Trib. Piacenza, 7 dicembre 2007, in Il Fallimento, 2007, 591.

[21] Cfr. App. Torino 7 ottobre 2010, in www.ilcaso.it; nel caso concreto , la Corte d'Appello di Torino ha dichiarato infondata la censura di parte appellante, secondo cui quello verso la banca era debito personale, quale fideiussore di una società di capitali, di cui il reclamante fu il legale rappresentante e liquidatore, e, pertanto, non inerente all'attività imprenditoriale attuale. Si è ancora precisato che l'opzione per la contabilità semplificata viene effettuata dall'imprenditore a proprio rischio, posto che costituisce una “conclamata eccezione al principio generale valido sul piano civilistico e tributario dell'obbligatorietà delle scritture contabili - ha sicuramente efficacia sul piano tributario, ma è del tutto irrilevante su quello civilistico. Pertanto, l'impossibilità per l'imprenditore di assolvere all'onere di provare i fatti impeditivi di cui all'art. 1, legge fallimentare sulla base delle scritture contabili obbligatorie deriva da una sua scelta insindacabile”.

[22] Cfr. Trib. Novara 3 novembre 2012, cit.

[23] Cfr. Cass. 23 luglio 2010, n. 17281, in Il Fallimento, 2011, 447, con nota di P. Vella.

[24] Cfr. Trib. Piacenza 22 gennaio 2007, cit.

[25] Cfr. Trib. Imperia 29 novembre 2010, in www.osservatorio-oci.org.

[26] Cfr. Trib. Pordenone 4 novembre 2010, in www.ilcaso.it. Nel caso concreto il Tribunale aveva ritenuto la sussistenza del requisito in questione in presenza di ricavi lordi per euro 185.297,00 conseguiti in un periodo di 11 mesi.

[27] Cfr. Appello Torino 15 giugno 2010, in www.ilcaso.it

[28] Cfr. App. L’Aquila 22 febbraio 2012, cit., nonché Trib. Udine 19 maggio 2011, in www.ilcaso.it secondo cui “I ricavi lordi possono risultare, oltre che dai documenti e dalle registrazioni contabili, fiscali e di bilancio (ove presenti) dell'impresa, anche da altri elementi rappresentati dagli accertamenti induttivi condotti dall'amministrazione finanziaria, anche se non definitivi, o dai dati extracontabili desumibili dalle indagini effettuate dalla Guardia di Finanza, pure se non ancora tradottesi in accertamenti definitivi dell'Agenzia delle Entrate”.

[29] Cfr. in tal senso F. Commisso, osservazioni a Cassazione Civile, Sez. I, 27 dicembre 2013, n. 28667, in Il Fallimento, 2014, pag. 777.

[30] Cfr. Cassazione Civile, Sez. I, 27 dicembre 2013, n. 28667, in Il Fallimento, 2014, pag. 776 ss.

[31] Cfr. in tal senso Cass. 4 maggio 2011, n. 9760, in Il Fallimento, 2012, 231; Trib. Novara, 3 novembre 2012, in www.ilcaso.it

[32] Cfr. Cass. 2 dicembre 2011, n. 25870.

[33] Cfr. Cass. 4 giugno 2012, n. 8930.

[34] Cfr. App. Brescia 9 luglio 2010, in www.ilcaso.it

[35] Cfr. App. Venezia – sez. I – 25 ottobre 2012 n. 2327, in ww.ilfallimentarista.it, 25 novembre 2013, con commento di E. Genero Le soglie di fallibilità: sussistenza e momento di valutazione. Da parte dei giudici veneziani si evidenzia come soltanto una circostanza sopravvenuta potrebbe avere l’efficacia di revocare la sentenza di fallimento, ossia il pagamento integrale dei creditori.

[38] Cfr. Cass. 3 dicembre 2010, n. 24630, in Il Fallimento, 2011, 955.

[39] Cfr. App. Torino 16 maggio 2007, in Il Fallimento, 2007, 843 e Trib. Mantova 30 agosto 2007, in www.ilcaso.it

[40] Cass. 23 marzo 2012, n. 4738.

[41] Cfr. Trib. Sulmona 18 novembre 2010, in www.ilcaso.it; nonché Trib. Sulmona 20 maggio 2010, in Il Fallimento., 2010, 997.

[42] Cfr. Trib. Novara 3 novembre 2012, in www.ilcaso.it.

[43] Cfr. Trib. Imperia 29 novembre 2010, cit.

[44] Cfr. App. Torino, 15 giugno 2010, in www.ilcaso.it.

[45] Cfr. U. Macrì, op. cit. pag. 1007.



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