Societario


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 19/09/2014 Scarica PDF

L'agenzia delle entrate non ha il potere di muovere l'accusa di esterovestizione qualora la società non residente sia effettivamente radicata in un altro paese comunitario

Antonio Panizzolo, Alice Paccagnella, Alessandro Grassetto, .


1. Il principio comunitario della libertà di stabilimento si pone come un limite invalicabile per le contestazioni in materia di esterovestizione

Non vi può essere esterovestizione societaria in presenza di un insediamento produttivo effettivo in un altro Paese comunitario, giacché il fenomeno dell’esterovestizione sussiste esclusivamente in presenza di una costruzione meramente artificiosa. Questo è il principio ribadito, di recente, dalla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Verona, n.  327/2014 del 21 luglio 2014.

Nella fattispecie sottoposta ai Giudici tributari, l’Agenzia delle Entrate ha riqualificato come soggetto passivo italiano una società slovacca appartenente ad un gruppo societario comunitario con capogruppo in Italia, valorizzando il criterio del collegamento della sede dell’amministrazione in base all’art. 73, comma 3, TUIR.

L’Agenzia delle Entrate, in particolare, non ha mai messo in discussione che la società estera fosse effettivamente insediata al di fuori dell’Italia; al contrario, dava per scontato che essa fosse realmente strutturata, avesse un’organizzazione di mezzi e di persone ed esercitasse in concreto l’attività di impresa in Slovacchia. Ciononostante, a suo modo di vedere, sussistevano alcuni indizi, quali la residenza in Italia degli amministratori e la presenza di documentazione della controllata presso la sede della capogruppo italiana, che sarebbero stati sufficienti a dimostrare che la sede della direzione effettiva della società estera era in Italia e che, pertanto, i ricavi prodotti dalla stessa dovessero essere assoggettati alla tassazione nazionale ai fini IRES, IRAP ed IVA.

Tale interpretazione dell’art. 73, comma 3 del TUIR è stata perentoriamente censurata dai Giudici di prime cure, che l’hanno ritenuta in contrasto con la normativa comunitaria in materia di libertà di stabilimento.

Il Collegio ha ricordato che la libertà di stabilimento è un diritto riconosciuto dalla normativa comunitaria ai sensi degli artt. 43 e seguenti del Trattato della Comunità Europea (ora artt. 49 e ss. del TFUE)[1] e che tale diritto subisce una sola eccezione: ossia l’ipotesi in cui la società costituita all’estero rappresenti una costruzione meramente artificiosa, artefatta, al solo scopo di eludere l’imposta ordinariamente dovuta.

Sicché, se l’ordinamento circoscrive le restrizioni al diritto di stabilimento alle sole situazioni in cui sussistono pratiche abusive, allora è naturale giungere alla conclusione che non possa essere mossa la contestazione di esterovestizione in presenza di uno stabilimento produttivo effettivamente insediato in un altro Paese comunitario.

Nella sentenza, inoltre, viene precisato che tale impostazione è coerente con l’orientamento della giurisprudenza comunitaria e nazionale, giacché sia la Corte di Giustizia UE[2], sia la Corte di Cassazione[3] e sia le Commissioni Tributarie[4]inquadrano l’esterovestizione come un fenomeno di fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero o, il che è lo stesso, come un fenomeno di costruzione di puro artificio, finalizzato a sfruttare trattamenti fiscali più vantaggiosi rispetto a quelli nazionali.

Il principio di libertà di stabilimento, dunque, oltre ad essere un principio costitutivo fondamentale dell’Unione Europea, deve fungere anche da canone interpretativo di riferimento per un’applicazione equilibrata delle norme degli Stati membri che regolano la materia della residenza fiscale. In virtù di ciò, non potrebbe trovare spazio qualsiasi opzione ermeneutica dell’art. 73, comma 3, del Tuir che porti a disconoscere la residenza nel Paese in cui una società è effettivamente impiantata, in forza del concreto esercizio di un’attività imprenditoriale.

   

2. La sede della direzione effettiva, o place of effective management, è rinvenibile nel luogo ove la società effettivamente esercita l’attività d’impresa

Secondo l’impostazione dei Giudici veronesi, una società che effettivamente radica la propria attività produttiva in un altro Stato comunitario non pone in essere alcun comportamento elusivo od abusivo meritevole di essere represso dagli ordinamenti degli altri Stati dell’Unione Europea.

Ecco la ragione per la quale è in contrasto con il principio della libertà di stabilimento un’interpretazione dell’art. 73, comma 3, del TUIR che di fatto porti a disconoscere la residenza di un soggetto realmente impiantato in un altro Stato membro.

A ben vedere, tale conclusione poteva essere raggiunta anche senza scomodare il diritto alla libertà di stabilimento, muovendo, più semplicemente, dal concetto di “place of effective managment”, criterio elaborato nel modello di convenzione OCSE per la risoluzione dei conflitti di residenza delle persone giuridiche.

Il criterio di cui sopra è stato recepito in Italia come la sede della direzione effettiva[5], in linea con il significato del termine “management”, che afferisce per l’appunto alla direzione o gestione o governo effettivo di una struttura societaria.

Qui è il caso di sottolineare che se un’attività è effettivamente esercitata in un Paese, essa trova alimento anche dalle risorse presenti in quel Paese, dai dipendenti ai beni strumentali, dai finanziamenti alle forniture e così via.

E se trova alimento dalle risorse presenti in quel Paese, allora non può che dare vita ad atti di organizzazione e di impulso dell’attività imprenditoriale stabilmente localizzati proprio in quel Paese.

In altri termini, l’effettivo esercizio di un’attività imprenditoriale in un Paese determina giocoforza la localizzazione in quel Paese della sede dell’amministrazione, intesa come direzione effettiva dell’impresa.

Nella fattispecie oggetto della sentenza in commento, la società ricorrente è stata in grado di dimostrare che aveva una propria struttura radicata nel territorio slovacco e che si avvaleva delle risorse proprie di quel territorio (personale, uffici, beni strumentali, materiali di consumo, finanziamenti, consulenti e così via). La genuinità dell’iniziativa economica ha portato al compimento di molteplici atti di organizzazione e di impulso dell’attività imprenditoriale in Slovacchia, che non hanno e non avrebbero potuto avere alcun collegamento con il territorio italiano: ha portato, in altri termini, alla localizzazione all’estero della sede della direzione effettiva o del place of effective management.

Seguendo questa impostazione, fenomeni di esterovestizione, intesi come dissociazione tra sede amministrativa formale e sede amministrativa sostanziale, si possono ravvisare solamente quando, in mancanza di radicamento in un altro Paese, emergono forti dubbi sull’effettività di un’iniziativa imprenditoriale in quel Paese.

Solo in contesti di questo genere, cioè, è legittimo il sospetto che la localizzazione sia fittizia, soprattutto perché la mancata fruizione delle risorse del Paese in cui viene localizzata la società rende difficile dimostrare che in quel Paese si sono svolti gli atti di impulso dell’attività d’impresa. La casistica è innumerevole: le società domiciliate presso studi professionali; le società senza dipendenti o mezzi strumentali; le società preposte a mere gestioni di partecipazioni; le “scatole vuote” che muovono milioni di euro di fatturato nel settore della commercializzazione; e così via.

In tutte queste ipotesi, l’Amministrazione finanziaria ha il dovere di interrogarsi sulla genuinità della localizzazione della società, se vengono a mancare atti di direzione effettiva nel Paese di formale residenza.

Se però la società risulta pacificamente impiantata in un altro Stato, allora non vi è alcuno spazio per contestare la dissociazione tra la sostanza e la forma, ossia l’esterovestizione, giacché  l’effettività dell’insediamento presuppone la fruizione delle risorse di quell’altro Stato ed ivi l’effettuazione di tutti gli atti di organizzazione e di impulso dell’attività imprenditoriale.

La chiave di lettura sopra proposta consente di comprendere perché le ipotesi di discrasia tra residenza formale e residenza sostanziale non possono colpire le società effettivamente impiantate in un altro Paese.

Del resto, come sottolineato in modo unanime da tutta la giurisprudenza comunitaria e nazionale, l’esterovestizione mira a reprimere solo le ipotesi in cui non vi sia alcun radicamento in un Paese e quindi si possa parlare di abuso di stabilimento, inteso come sottospecie dell’abuso del diritto[6].

Se così non fosse e se quindi l’art. 73 del TUIR consentisse di attrarre in Italia anche società formalmente e sostanzialmente localizzate in un altro Stato comunitario, saremmo al cospetto di una disciplina nazionale che comprimerebbe in modo intollerabile la libertà di stabilimento, che è uno dei cardini del Trattato costitutivo della Comunità Europea.

Si tratta di una prospettiva rigettata dalla stessa amministrazione finanziaria italiana, che in più occasioni ha avuto modo di chiarire che il luogo di direzione effettiva non può essere dissociato dal luogo ove l’attività principale e sostanziale dell’ente viene esercitata [7].

Nella prospettiva appena delineata è evidente che è priva di fondamento la pretesa dell’Agenzia delle Entrate di individuare una sede amministrativa in un luogo diverso da quello stabilmente utilizzato per l’esercizio effettivo dell’attività imprenditoriale.

Né si può ritenere che a diverse conclusioni si possa giungere dalla lettura dell’art. 4 del modello di convenzione fiscale dell’OCSE, nella parte in cui dispone che il criterio da privilegiare per individuare la residenza di un soggetto passivo sia il place of effective management.

Il place of effective management, lo si ripete, è quello del governo effettivo della struttura societaria, ossia il luogo di effettuazione di tutti gli atti e i contratti di organizzazione e di impulso della società: luogo che non può che essere quello ove vengono impiegate le risorse per esercitare l’attività imprenditoriale.

Nell’art. 4 suddetto, l’OCSE non intendeva affatto autorizzare gli Stati membri ad individuare una sede di direzione effettiva in luoghi diversi da quelli di effettivo esercizio dell’attività imprenditoriale.

In questo senso depone chiaramente il successivo art. 5 del modello di convenzione fiscale dell’OCSE, che reputa sia sufficiente «una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività» non solo per individuare la residenza fiscale, ma addirittura per far emergere la soggettività di una stabile organizzazione.

L’esercizio effettivo di un’attività industriale e commerciale, si legge poi nel commentario all’art. 5, è sufficiente per costituire una sede fissa d’affari, anche se non siano disponibili locali d’impresa ed anche in assenza di titoli giuridici formali per occupare determinati spazi.

Ecco allora che la rilevanza dell’effettivo esercizio di un’attività che proprio l’OCSE mette in evidenza all’articolo 5 del modello di convenzione fiscale funge da criterio interpretativo del precedente articolo 4 e porta alla conclusione che il luogo di direzione effettiva non può essere dissociato dal luogo di esercizio effettivo dell’attività di produzione di beni o di servizi[8].

Peraltro, vale la pena segnalare che proprio l’Italia, con riferimento all’art. 4 del commentario OCSE, ha formalmente manifestato l’opinione «che nel determinare la sede di direzione effettiva deve essere preso in considerazione il luogo ove l’attività principale e sostanziale dell’ente è esercitata».

Ne deriva allora che, quando l’insediamento è effettivo, è indubbio che il place of effective management o il luogo di direzione effettiva è il luogo in cui concretamente viene svolta l’attività imprenditoriale.

   

3. Il concetto di place of effective managment nell’ambito dei gruppi d’impresa

Il criterio del luogo della direzione effettiva o del place of effective management merita di essere ben delimitato al cospetto del fenomeno dei gruppi d’impresa[9], ove l’interazione tra le diverse società diviene indispensabile di fronte all’esigenza di imprimere una direzione unitaria all’attività imprenditoriale.

Se, come detto in precedenza, il place of effective management coincide con il luogo della gestione sostanziale di una struttura societaria, allora, nell’ambito dei gruppi di imprese, tale nozione deve essere distinta – diciamo così, verso l’alto – dal luogo della direzione strategica o apicale, che, come comunemente riconosciuto, può essere dislocato in posti diversi dal luogo di governo effettivo della società.

Se così non fosse, non si potrebbe giustificare il fenomeno importantissimo a livello internazionale dei gruppi societari, che, com’è noto, concentrano le decisioni apicali o strategiche in capo alla capogruppo, con effetti vincolanti anche per tutte le società controllate.

E soprattutto non si potrebbe giustificare il fenomeno, conosciuto e disciplinato nel nostro ordinamento, secondo cui alcune società sono legittimate ad indirizzare e pianificare l’iniziativa imprenditoriale di altre società, adottando le decisioni fondamentali riguardo al loro oggetto sociale (l’attività di direzione e coordinamento, disciplinata dagli artt. 2497 bis e seguenti del codice civile).

Sempre nell’ambito dei gruppi di imprese, il luogo di effective management deve essere distinto – stavolta, verso il basso – dal posto dove vengono svolte alcune fasi amministrativo-burocratiche che attengono alla gestione materiale della vita societaria.

Qui basti solo ricordare la prassi, molto diffusa nei gruppi di imprese[10], di concentrare presso delle società specializzate alcuni funzioni amministrativo-burocratiche, quali la fatturazione, la tenuta della contabilità, la gestione del personale, la redazione dei contratti e così via.

In questa prospettiva distintiva, in nessun modo l’Agenzia delle Entrate è legittimata ad assumere quali indizi di esterovestizione gli atti di direzione apicale o strategica ovvero gli atti di materiale gestione di alcune fasi amministrative-burocratiche, giacché nei gruppi di imprese è normale che tali atti vengano attribuiti ad altre società del gruppo e quindi vengano posti in essere in luoghi diversi rispetto a quello ove viene esercitata l’attività imprenditoriale della società estera[11].

Quel che conta è che la società estera appartenente ad un gruppo internazionale di imprese non figuri come costruzione di puro artificio e dimostri di essere radicata in un altro Paese comunitario, si avvalga delle risorse ivi presenti ed effettui in detto Paese la gestione sostanziale della struttura societaria.

In presenza di queste condizioni, è indubitabile che il luogo ove vengono posti in essere gli atti di organizzazione e di attuazione del progetto imprenditoriale – ossia, il place of effective management – non può essere diverso dal luogo di residenza formale della società estera, con la conseguenza che essa non può essere riqualificata come un soggetto italiano ai sensi dell’art. 73, comma 3, del Tuir, pur se sottoposta ad eterodirezione strategica o apicale e pur se materialmente affida ad altre società del gruppo alcuni funzioni amministrativo-burocratiche.



[1] L’Art. 49 del TFUE, nella versione attuale, stabilisce che «Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro.

(2° comma) La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali».

[2] Si veda, quale caso emblematico, la sentenza del 12 settembre 2006, causa C-196/04 “Cadbury Schweppes”, con cui la Corte ha stabilito che la «circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa abuso di tale libertà», rilevando, in particolare, che «una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artifizio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato».

Ed invero, la pronuncia citata muove dal concetto di “stabilimento”, chiarendo che nell’ambito delle disposizioni del Trattato esso implica “l’effettivo svolgimento di un’attività economica”.

Di qui, secondo la Corte comunitaria, le valutazioni in merito alla sussistenza di una costruzione artificiosa devono necessariamente tener conto dell’effettività dello stabilimento, nonché della concreta attività svolta.

Sulla scia della sentenza in commento, si è sempre attestata la successiva giurisprudenza comunitaria: vds., ad es., la sentenza del 28 giugno 2007, causa C-73/06, con cui la Corte ha statuito che l’attestazione di residenza conforme al modello di cui all’allegato B dell’ottava direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE permette, in via di principio, di presumere non soltanto che l’interessato è soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto nello Stato membro cui fa capo l’amministrazione tributaria che l’ha rilasciata, ma anche che esso è residente in tale Stato membro.

Si vedano le seguenti pronunce della Corte di Giustizia: sent. 23 aprile 2008, causa C-201/05; sent. del 4 dicembre 2008, causa C-330/07; sent. del 17 settembre 2009, causa C-182/08; sent. del 5 luglio 2012, causa C-318/10.

[3] Vds., tra le pronunce più recenti della Corte di Cassazione, quella del 7 febbraio 2013, n. 2869, ove si  afferma che «per esterovestizione … si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale».

E’ interessante notare come, a parere della Corte, detto fenomeno debba essere inquadrato nel più ampio concetto di “abuso del diritto”, il cui divieto assurge a principio generale nel diritto tributario europeo. Nell’illustrazione per proprio percorso logico giuridico, il Collegio rinvia al consolidato orientamento dei Giudici della Corte di Giustizia in materia di libertà di stabilimento secondo cui «la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà; tuttavia, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato». Inoltre, nella sentenza si precisa che «l’obiettivo della libertà di stabilimento è quello di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le sue attività e di partecipare così, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio. La nozione di stabilimento implica, quindi, l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercé l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro: presuppone, pertanto, un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale».

Nello stesso senso cfr. anche: sent. 3 febbraio 2012, n. 1553; sent. 30 ottobre 2013, n. 1811.

[4] E, invero, secondo un’ampia parte della giurisprudenza tributaria di merito: cfr., ex multis, CTR di Milano, sentenza del 23 luglio 2012, n. 111; CTP di Treviso, sentenza del 16 ottobre 2012, n. 91; CTP di Macerata, sentenze del 10 aprile 2013, nn. 84 e 85; CTP di Milano, sentenza del 18 aprile 2013, n. 59; CTP di Como, sentenza del 3 luglio 2013, n. 91; CTP di Varese, sentenza del 3 ottobre 2013, n. 125; CTP di Roma, sentenza del 3 febbraio 2014, n. 1694.

[5] Vds., in questo senso, G. Tinelli, Commentario al Testo Unico delle Imposte sui Redditi, CEDAM, 2009, pp. 626 e ss. laddove l’Autore osserva che con riferimento ai singoli criteri di collegamento «sembra di poter rilevare un grado di oggettività decrescente nell’ordine in cui sono stati enunciati, per converso, un’attitudine a considerare la prevalenza dei profili sostanziali rispetto a quelli formali di tipo crescente, secondo il medesimo ordine espositivo». Per un maggior approfondimento della nozione di sede di direzione effettiva si veda anche P. Valente, Esterovestizione e residenza, IPSOA, 2013 – III ediz., pp. 45 e ss. e, specif., pp. 83 e 84; C. Sacchetto, Esterovestizione societaria, G. Giappichelli Editore, 2013 pp. 10 ss.; A. Diego, S. Benedetto, Esterovestizione e abuso del diritto: la Corte di Cassazione si pronuncia sulla “sede effettiva”, Corriere tributario n. 15 del 2013, pag. 1173; E. Bagarotto, La residenza delle società nelle imposte dirette alla luce della presunzione di “esterovestizione”, Riv. dir. trib., fasc.12, 2008, pag. 1156.

 

1) [6] Sull’argomento si veda anche F. Colaianni, Doppio  binario “esterovestizione”, abuso del diritto, valore normale e presunzioni tributarie in un’interessante decisione,Riv. dir. trib., fasc. 3, 2012, pag. 123; A. Ballancin, Note in tema di esterovestizione societaria tra i criteri costitutivi della nozione di residenza fiscale e l’interposizione elusiva di persona, Riv. dir. trib., fasc.11, 2008, pag. 975; M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, CEDAM, 2013, pp. 448 e ss.

[7] Cfr., ex multis, la C.M. n. 32 dell’8 luglio 2011, con cui l’Amministrazione finanziaria italiana ha precisato che «nel campo degli insediamenti o stabilimenti societari sospetti di costituire costruzioni di mero artificio si deve dare rilievo preminente, alla stregua della giurisprudenza comunitaria, all’attività effettiva e alla effettiva consistenza strutturale della società cui vengono imputati i redditi transfrontalieri, per cui società che non presentino un’attività o una struttura apprezzabili … possono giustificare il sospetto che l’insediamento nello Stato membro prescelto sia privo di ragioni economiche diverse dalla finalità di sottrarre quei redditi alla fiscalità dello Stato di provenienza».

[8] In sede di commentario Ocse (nella versione post 2008), è stato introdotto un nuovo paragrafo 24.1 con l’obiettivo di precisare i fattori di riferimento per la determinazione della “sede di direzione effettiva”; in particolare, viene data rilevanza ad un approccio case by case come metodo ottimale per far fronte a determinate tipologie di controversie.

[9] Si veda, al riguardo, P. Valente, Esterovestizione e residenza, IPSOA, 2013 – III ediz., pp. 45 e ss.;P. Valente, Esterovestizione e eterodirezione: equilibri(smi) tra sede di direzione e coordinamento, direzione unitaria e sede di direzione unitaria e sede di direzione effettiva, Riv. dir. trib., fasc. 4, 2010, pag. 231; S. Mattia, P. Valente Esterovestizione e residenza: i gruppi italiani operanti nel settore dell’autotrasporto, "il fisco" n. 8 del 2012, pag. 1-1155.

[10] Sul punto, merita di essere segnalata la sentenza n. 70 del 28 febbraio 2013 con cui la Commissione Tributaria Provinciale di Milano è intervenuta proprio in un’ipotesi di contestazione di esterovestizione in capo ad una società tedesca appartenente ad un gruppo di imprese italiano e, dopo aver appurato:

- che la Germania non è un Paese a fiscalità privilegiata;

- che la società tedesca ha svolto una reale è concreta attività imprenditoriale nel Paese in cui aveva la sede legale;

- che la società tedesca aveva una stabile sede ed una propria struttura organizzativa in Germania, con personale dipendente ivi residente;

- che la società tedesca provvedeva a far fronte con regolarità a tutti gli adempimenti formali e fiscali previsti dalla legislazione di quel Paese;

è giunta alla conclusione che la società tedesca non avesse alcun interesse a creare un’apparenza non corrispondente al vero ed ha annullato l’avviso di accertamento contenente la contestazione di “esterovestizione”.

Il giudizio più importante contenuto in questa sentenza, peraltro, riguarda la valutazione della penetrante ingerenza della società italiana sull’amministrazione della società tedesca.

Sotto questo profilo i Giudici di prime cure hanno osservato che non «inducono a cambiare opinione sul punto le circostanze evidenziate nell’avviso di accertamento e rappresentate dall’accesso telematico che la Pozzoli S.p.A. aveva sui conti correnti intestati alla società ricorrente; dal controllo che la Pozzoli S.p.A. effettuava su tutti i pagamenti eseguiti dalla ricorrente; dalle precise disposizioni date da Pozzoli S.p.A. alla società ricorrente circa le attività da svolgere in concreto; dalla attiva partecipazione della Pozzoli S.p.A. alla redazione del bilancio della società ricorrente».

Tali circostanze, infatti, continuano i Giudici, «che indubbiamente evidenziano un puntuale e preciso controllo della società madre rispetto all’attività operativa e gestionale svolta dalla società ricorrente, trovano adeguata giustificazione nel fatto obiettivo che Pozzoli S.p.A. possedeva al 100% la società ricorrente ed era, quindi, ampiamente legittimata ed interessata a conoscere costantemente e con precisione tutto ciò che faceva la sua controllata. Anzi se Pozzoli S.p.A. si fosse comportata in maniera diversa e non avesse seguito con attenzione svolta dalla società da lei controllata al 100%, la sua condotta sarebbe apparsa imprudente e, comunque, non conforme ai principi di una sana e corretta amministrazione aziendale».

«Di conseguenza ritenere, come ha fatto l’Agenzia delle Entrate nel caso di specie, che ogni decisione rilevante ai fini della gestione della società ricorrente sia stata presa in Italia e che tale elemento decisionale sia di per se stesso sufficiente e decisivo, in assenza di prova anche di una effettiva e preponderante attività materiale esecutiva, ad individuare la sede effettiva della società … appare a questo Collegio eccessivo ed anche foriero di soluzioni non solo contrastanti, con le conseguenze del caso in materia di doppie imposizioni ma anche lontane dalla “ratio” delle norme di riferimento, che, in sostanza, sono dirette ad applicare le imposte con riferimento alle attività imprenditoriali effettivamente svolte e dove le medesime sono materialmente attuate».

[11] In questo senso il consolidato orientamento della Corte di Cassazione secondo cui la nozione di “sede dell’amministrazione” è da intendersi «come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente» ossia il luogo «stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente» (citazioni tratte dalla sentenza n. 2869 del 2013).


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