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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 25/09/2014 Scarica PDF

Il reato di false comunicazioni sociali

Alfonso Laudonia, Avvocato in Avellino


Sommario:§1. Le caratteristiche fondamentali delle figure criminose e cenni sulla riforma; §2. L’interesse tutelato; § 3. I soggetti attivi. §4. La condotta: i “fatti materiali”, le “informazioni”, la condotta omissiva e l’oggetto del “mendacio”; §5. L’oggetto materiale del reato: a) i bilanci; segue: b) le relazioni ed le altre comunicazioni sociali; segue: c) la rilevanza del fatto e le soglie di punibilità; §6. L’elemento soggettivo; §7. I rapporti con altre figure di reato; §8. La diade “falso in bilancio” e “diritto comunitario”.

   

 

§1. Le caratteristiche fondamentali delle figure criminose e cenni sulla riforma

Gli artt. 2621-2622 disciplinano il sistema delle false comunicazioni sociali.

Il primo articolo (False comunicazioni sociali) delinea una fattispecie criminosa contravvenzionale avente natura di “reato proprio”, in quanto realizzabile unicamente da soggetti qualificati.

La novella legislativa[1] ha innanzitutto delimitato l’ambito dei soggetti attivi, tra i quali non sono più annoverati, rispetto alla fattispecie antecedentemente in vigore, i promotori ed i soci fondatori.

La modifica è strettamente correlata a quella che ha determinato l’impossibilità di considerare oggetto del possibile mendacio i "fatti sulla costituzione" (fattispecie, tra l’altro, abrogata proprio in conseguenza del marginale riscontro giurisprudenziale).

La fattispecie di cui all’art. 2621, a differenza dell’art. 2622 (False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori) in cui il legislatore ha introdotto una fattispecie di danno, rappresenta un reato di pericolo concreto, in relazione al quale, non è configurabile il tentativo, stante il chiaro dettato dell'art. 56 c.p.

Il termine prescrizionale ordinario per la contravvenzione ex art. 2621 cc. è quello di cui agli artt. 157 e 160 c.p. e, quindi, è di quattro anni, elevabili a cinque nel caso sopravvengano atti interruttivi. Il decreto legislativo 11.04.2002, n. 61 - che ha introdotto il nuovo Titolo XI, comprendente gli artt. da 2621 a 2641 - ha concretamente attuato la legge delega per la riforma del diritto societario n. 366 del 3 ottobre 2001, con la quale era stata demandata al Governo la ristrutturazione della disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali (art. 11), stante l'urgenza di una incisiva razionalizzazione del sistema penale societario da attuarsi, da una parte, attraverso la delimitazione del numero delle fattispecie di reato e, dall’altra, con l’introduzione di nuove ipotesi incriminatrici idonee a colmare i vuoti di tutela da sempre segnalati dalla dottrina penalistica.

La delega legislativa aveva, inoltre, prescritto che le nuove figure di reato fossero rispettose dei principi-cardine del diritto penale quali: determinatezza e tassatività dell'illecito, in modo da garantire la conoscibilità del precetto; sussidiarietà, con conseguente contrazione del tradizionale spazio di intervento penalistico a favore di altri strumenti in grado di assicurare l'effettività della tutela; offensività, da intendersi sia nel senso di adeguata selezione dei beni giuridici in cui favore riservare la tutela penale, che quale tipizzazione delle sole condotte effettivamente lesive di tali beni.

L'esigenza di attuare l’auspicata riorganizzazione della materia ha determinato, quale principale effetto, la notevole riduzione del numero di reati: si pensi, per esemplificare, alla reductio ad unum delle diverse figure di aggiotaggio c.d. speciali (aggiotaggio societario, ai sensi dell’art. 2628 c.c.; aggiotaggio bancario ultimamente disciplinato dal Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, ex art. 138 del d. lgs. 01.09.1993, n. 385 ed infine aggiotaggio finanziario o mobiliare disciplinato dal Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi dell’art. 181, d. lgs. 24.02.1998, n. 58.), ovvero alla esemplificazione del numero di fattispecie criminose previste a tutela dell'integrità del capitale sociale (mediante unificazione di quelle contraddistinte da una sostanziale omogeneità tra le condotte ed un identico contenuto offensivo, a cui razionalmente corrisponde, nell’attuale formulazione normativa, un identico trattamento sanzionatorio).

Nella prospettiva della razionalizzazione del sistema di diritto penale societario s’inquadra, altresì, la previsione - da sempre sollecitata dalla dottrina - di nuove fattispecie: l'infedeltà patrimoniale e quella commessa a seguito di dazione o promessa di utilità. L’introduzione della prima figura criminosa consegue alla sperimentata impossibilità di tutelare il patrimonio sociale dagli abusi posti in essere dai titolari di poteri gestori, mediante il ricorso al reato di appropriazione indebita o a quelle poche figure di reati societari previgenti rimaste per lo più inapplicate (artt. 2624, 2630, comma 2 . n. 2 e 2631 c.c.). Mediante la previsione del dolo specifico di "ingiusto profitto per sé o per altri", la fattispecie delineata dal legislatore consente inoltre di distinguere l'assunzione di rischi patrimoniali, a volte inevitabili e perfino utili o necessari, dai fatti meritevoli di sanzione penale.

Sempre nell’ottica di garantire il rispetto del principio di tassatività delle norme incriminatrici si è, inoltre, preferito inserire tra i presupposti del fatto tipico di infedeltà una situazione di conflitto di interessi, così facendo discendere la meritevolezza della pena dall'asservimento della gestione societaria alla tutela di interessi privatistici e con essa confliggenti.

Degna di nota, poi, risulta l’opzione per una maggiore selettività nelle scelte di criminalizzazione mediante ricorso ad una tecnica descrittiva delle fattispecie penali autonoma dalla matrice civilistica di riferimento e privilegiando modelli di tipizzazione del precetto secondo i canoni penalistici.

Il versante dell’offensività, infine, è quello che ha registrato le novità più rilevanti, mediante un intervento finalizzato alla tutela esclusiva di interessi ben definiti, quali il patrimonio, l’integrità del capitale sociale e il regolare funzionamento degli organi sociali, mediante ricorso alla descrizione di prototipi comportamentali idonei ad attentare a singoli beni giuridici. Ciò al fine di evitare che ricostruzioni in chiave di plurioffensività,  continuassero a determinare l’effetto - tipico degli anni antecedenti alla riforma e difficilmente arginabile - di ampliare l’ambito applicativo di talune fattispecie, con eccessivo margine discrezionale nell'applicazione giurisprudenziale.

Infine, integrando l'originario catalogo dei reati che, in ossequio al disposto del d. lgs. 08.06. 2001, n. 231, possono impegnare la responsabilità (diretta ed autonoma) degli «enti forniti di personalità giuridica» e delle «società e associazioni anche prive di personalità giuridica», ivi compresi gli enti pubblici economici (con espressa esclusione dello Stato, degli enti pubblici territoriali, degli enti pubblici non economici e degli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale, art. 1, d. lgs. 08.06.2001, n. 231[2]), l'art. 25 ter, 1° co, lett. a, d. lgs. 08.06.2001, n. 231[3] vi ha inserito anche la disposizione in esame).

In caso di responsabilità, da accertare secondo le regole previste dallo stesso d. lgs. 08.06.2001, n. 231 e segnatamente, per quanto riguarda la struttura formale dell'illecito, dagli artt. 5, 6 e 7 del medesimo decreto[4], all'ente può essere applicata la sanzione pecuniaria «da cento a centocinquanta quote». La commisurazione, in concreto, di tale sanzione dovrà avvenire secondo i parametri sanciti dagli artt. 10 (in virtù del quale il numero di quote non può essere inferiore a cento né superiore a mille, ed il valore di ciascuna quota non può essere inferiore a euro 258,00, né superiore a euro 1.549,00) e 11, d. lgs. 08.06.2001, n. 231[5].

L’art. 2622[6] c.c., a differenza della precedente fattispecie, ha natura delittuosa, realizzabile, come quella descritta dell’art. 2621 c.c., esclusivamente da soggetti qualificati (reato proprio).

In dottrina si è sostenuto che la disposizione normativa in commento introduca due diverse ipotesi di reato, una riferita alle società quotate in borsa, l’altra alle non quotate, disciplinando delitti complessi che assommano, alla condotta già punita dalla contravvenzione di cui all'art. 2621,  la determinazione di un danno patrimoniale ai soci o ai creditori[7].

La norma si differenzia dalla disciplina di cui all’art. 2621 anche per la presenza di un danno patrimoniale ai soci ed ai creditori (reato di danno).

Sul punto, la dottrina ha osservato come per “soci e i creditori protetti” debbano intendersi quelli attuali e non già quelli che acquisiscono tale qualifica solo a causa del falso. Ciò in quanto l'art. 2622 stabilisce che il pregiudizio patrimoniale debba costituire effetto immediato e diretto del falso stesso[8].

Al contrario altri Autori hanno sostenuto che l'espressione in esame non evochi alcuna distinzione tra soggetti rivestenti la qualità di soci e creditori all'atto dell'approvazione del bilancio ovvero al verificarsi del danno[9], rimarcando, altresì, la difficoltà pratica di comprovare l’esistenza del rapporto causale tra falsità  e danno subito dal socio o dal creditore[10].

Ovviamente dall’affermazione secondo cui devono considerarsi persone offese esclusivamente i soggetti che assumono lo status di soci o creditori al momento della rappresentazione del fatto falso o dell'omissione dell'informazione dovuta, discende l’ulteriore conseguenza che solo a costoro, e non anche ai soggetti che acquisiscono tale qualità in conseguenza del verificarsi del danno, potrà essere riconosciuto il diritto di querela[11].

Il testo normativo elaborato in via definitiva ricalca rigorosamente la lettera della legge delega[12]. Tuttavia, in assenza di ragioni per ritenere che, nelle ipotesi omissive, dovesse essere esclusa la prescritta attitudine ingannatoria della condotta, il legislatore ha ritenuto preferibile posporre la locuzione contenuta nella legge delega "idonei ad indurre in errore i destinatari sulla situazione economica patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene", mediante il ricorso alla formula finale omnicomprensiva "in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione".

Grossi dubbi sussistono sulla configurabilità del tentativo, anche attesa la presenza della figura contravvenzionale di cui all'art. 2621 che sembra assorbirne completamente gli estremi. Tuttavia, autorevole dottrina ritiene configurabile l'ipotesi di tentativo di false comunicazioni sociali «ogniqualvolta la presenza dei medesimi elementi costitutivi della fattispecie contravvenzionale sia accompagnata da un dolo (quantomeno eventuale) di danno nei confronti dei soci o dei creditori, non richiesto dall'art. 2621»[13].

Sempre con riguardo alla struttura normativa della fattispecie in commento, la L. 28 dicembre 2005, n. 262 ha introdotto, in relazione alle condotte riferite all’ambito delle società quotate in borsa, una circostanza aggravante ad effetto speciale - l’aver cagionato un grave nocumento ai risparmiatori - per effetto della quale i limiti edittali della pena base della reclusione da uno a quattro anni (comma 3) sono stati rispettivamente elevati a due e sei anni (comma 4).

Sotto il profilo oggettivo il contenuto dell’aggravante speciale è stato definito, in maniera  criticabile, nella disposizione di cui al successivo comma 5, ove si prescrive che il nocumento si considera grave quando abbia riguardato un numero di risparmiatori superiore allo 0,1 per mille della popolazione risultante dall'ultimo censimento Istat, ovvero se sia consistito nella distruzione o riduzione del valore di titoli di entità complessiva superiore allo 0,1 per mille del prodotto interno lordo.

Va detto che avendo natura di delitto, il termine prescrizionale ai sensi degli artt. 157-160 è di anni sei (termine ordinatorio), elevabili ad anni sette e mesi sei nel caso ricorrano atti interruttivi.

Infine, integrando l'originario catalogo dei reati che, in ossequio al disposto del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, possono impegnare la responsabilità (diretta ed autonoma) degli «enti forniti di personalità giuridica» e delle «società e associazioni anche prive di personalità giuridica», ivi compresi gli enti pubblici economici (con espressa esclusione dello Stato, degli enti pubblici territoriali, degli enti pubblici non economici e degli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale)[14].

In caso di responsabilità, da accertare secondo le regole previste dallo stesso d. lgs. 08.06.2001, n. 231 e segnatamente, per quanto riguarda la struttura formale dell'illecito, dagli artt. 5, 6 e 7 del medesimo decreto[15], all'ente può essere applicata la sanzione pecuniaria «da centocinquanta a trecento quote» per l’ipotesi di cui al 1° comma, e «da duecento a quattrocento quote» per l’ipotesi di società con azioni quotate. La commisurazione, in concreto, di tale sanzione dovrà avvenire secondo i parametri sanciti dagli artt. 10 (in virtù del quale il numero di quote non può essere inferiore a cento né superiore a mille, ed il valore di ciascuna quota non può essere inferiore a euro 258,00, né superiore a euro 1.549,00) e 11, d. lgs. 08.06.2001, n. 231 (sull'argomento la letteratura è vastissima)[16].

 

§2. L’interesse tutelato

Le norme incriminatrici tutelano la veridicità e la compiutezza dell'informazione societaria. Ad una lettura complessiva delle fattispecie di cui agli artt. 2621 e 2622 si può concludere come il legislatore abbia optato per una tutela progressiva di cui la contravvenzione costituisce il primo stadio[17].

Altri Autori ritengono, al contrario, preferibile la concezione che pone l'art. 2621 a presidio della trasparenza societaria e l'art. 2622 sia a tutela di essa che del patrimonio dei soci e dei creditori[18].

Autorevole dottrina, infine, ritiene che la fattispecie di cui all'art. 2621, sanzionando condotte prodromiche alla loro concreta lesione, sia posta a presidio dei medesimi interessi tutelati dal delitto di cui all'art. 2622, vale a dire il patrimonio dei soci e dei creditori[19].

Quest’ultima ipotesi delittuosa è delineata come reato di danno ed è posta a difesa del patrimonio: è richiesto, infatti, oltre alle condotte, identiche a quelle previste per la ipotesi contravvenzionale, la realizzazione di un danno patrimoniale ai soci o ai creditori.

L’intento della riforma va individuato, secondo autorevole dottrina, nella volontà del legislatore di sostituire al bene giuridico dell’informazione societaria - doverosamente ispirata ai canoni di veridicità e compiutezza ed ancorata al risparmio dall’art. 47 Cost. - la tutela di un interesse patrimoniale individuale, sul quale incide l'evento danno[20].

Tuttavia, per alcuni siffatta impostazione rappresenta un passo indietro di oltre mezzo secolo sul piano dell'individuazione dell'interesse tutelato, posto che veridicità e trasparenza dell'informazione societaria rappresentano un bene collettivo costituente presupposto fondamentale ed indisponibile - un valore fondante - di una moderna economia di mercato[21].

E’ da evidenziare, altresì, come il delitto ex art. 2622, 1 comma, c.c. è perseguibile a querela delle persone offese (devono considerarsi tali i soggetti che assumono lo status di soci o creditori al momento della rappresentazione del fatto falso o dell'omissione dell'informazione dovuta, oltre che la società in persona del legale rappresentante).

Va anche detto che la persona offesa del reato di cui all’art. 2622, 1 comma, trattandosi di reato contro il patrimonio, è individuabile in colui che ha tratto detrimento patrimoniale dall'illecito, e, quindi, nel danneggiato. Il termine per la proposizione della querela (art. 124 c.p.) decorre, quindi,  dalla conoscenza dell'evento dannoso, quale conseguenza della comunicazione sociale infedele, il cui accertamento, costituendo profilo di fatto, sfugge al giudizio di legittimità[22].

Dovendosi dare attuazione al precetto previsto dall’art. 11 lett. i) della legge delega 03.10.2001 n. 366 “Delega al Governo per la riforma del diritto societario, che ha imposto al legislatore delegato di evitare “... disparità di trattamento rispetto a fattispecie di identico valore”, è stata espressamente prevista, al secondo comma della norma in esame, la perseguibilità d’ufficio qualora il fatto sia commesso in danno dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee.

   

§3. I soggetti attivi

Soggetti attivi dei reati in argomento sono:  gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori.

L'art. 30, L. 28.12.2005, n. 262 ha previsto, tra i soggetti attivi della fattispecie, anche il «dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari», nuova figura dirigenziale disciplinata, per ciò che concerne le società quotate in borsa, dall'art. 154-bis, d. lgs 24.02.1998, n. 58.

Dottrina e giurisprudenza, in linea con i noti principi penalistici, hanno sempre ritenuto (anche con riferimento alla vecchia formulazione) che la condotta tipica di cui all'art. 2621 possa essere realizzata anche dall’ “agente di fatto”, cioè da chi, pur in assenza di formale investitura o in costanza di investitura non valida, eserciti le funzioni attribuite ai soggetti indicati dall'art. 2621, con particolare riferimento agli amministratori c.d. di fatto[23].

La consolidata tendenza interpretativa è stata correttamente e compiutamente recepita nell'art. 2639 c.c., mediante l’equiparazione, ai fini del trattamento sanzionatorio, ai soggetti espressamente elencati di quanti siano tenuti “a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata” ovvero esercitino “in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.

Va infine ribadito che le disposizioni normative relative agli amministratori si applicano anche “a coloro che sono legalmente incaricati dall'autorità giudiziaria o dall'autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto terzi”.

   

§4. La condotta: i “fatti materiali”, le “informazioni”, la condotta omissiva e l’oggetto del “mendacio”

La condotta attiva (di esposizione) si riferisce a fatti materiali falsi[24], i quali possono anche essere oggetto di valutazioni, per le quali ultime è prevista una soglia di rilevanza.

Per ciò che concerne la problematica delle valutazioni occorre fare rapido cenno a dottrina e giurisprudenza che si erano ampiamente consolidate sotto la vigenza del vecchio testo della norma in commento, nel quale non v’era alcun riferimento al concetto di valutazione.

Chiaramente contraria alla riconduzione nell'alveo della fattispecie delle valutazioni era una parte della dottrina, che fondava tale assunto sull'impossibilità di ricondurle entro l'orbita dei fatti[25] e su una nozione generale di falsità[26] logicamente inapplicabile ai giudizi di valore[27].

In tale prospettiva potevano costituire valutazioni penalmente rilevanti solamente le sopravvalutazioni riguardanti beni aventi un preciso prezzo di mercato e non numericamente indicati in bilancio: tale generica indicazione, infatti, induce a pensare come vi sia, nella disponibilità della società, una quantità superiore di tali beni rispetto a quella realmente esistente, traducendosi così nell'esposizione di un vero e proprio fatto falso[28].

Contra si era sostenuto che le valutazioni avrebbero dovuto essere considerate come vere o false non già in rapporto alla verità obiettiva, ma unicamente sotto il profilo della corrispondenza o divergenza rispetto all'intimo convincimento dell'agente[29].

Altra parte della dottrina, invece, riteneva che si sarebbe dovuta stimare la difformità tra i criteri di valutazione concretamente adottati nella redazione del bilancio e quelli dichiarati nei documenti completivi[30].

Di una certa rilevanza, infine, la corrente dottrinale secondo cui i criteri legali indicati dal codice civile (cfr. commento agli artt. 2424, 2426) e dalle leggi speciali (d. lgs. 09.04.1991, n. 127) ai fini della redazione del bilancio e della valutazione delle singole poste sarebbero stati sufficientemente precisi da assumere rilevanza anche ai fini penalistici: il bilancio redatto in violazione di tali principi sarebbe stato, in sostanza, falso[31].

L’impostazione da ultimo segnalata era stata fatta propria dalla gran parte della giurisprudenza, laddove si precisava che la veridicità delle componenti del bilancio andava valutata in base alla loro corrispondenza rispetto ai criteri stabiliti dalla legge, cosicché, ad esempio, era falso il bilancio nel quale le partecipazioni azionarie venivano valutate in base al criterio del costo storico, anziché secondo quello dell'andamento delle quotazioni in borsa[32].

Rappresentava, comunque, costante orientamento giurisprudenziale quello secondo il quale le false valutazioni delle poste del bilancio costituivano, da un punto di vista oggettivo, elemento sufficiente ai fini dell'integrazione del reato de quo, in quanto non solo le singole componenti dell'attivo e del passivo, ma anche le loro valutazioni costituivano elemento necessario per la verità del bilancio stesso[33].

Altro criterio cui si è fatto ricorso in sede applicativa era quello della ragionevolezza, in forza del quale non era sufficiente una valutazione non corretta per realizzare il fatto penalmente rilevante, ma occorreva che la valutazione fosse, altresì, irragionevole, ovviamente nel momento in cui era stata effettuata.

Parte della dottrina sostiene che la nuova formulazione normativa consente di includere tra i “fatti” anche le “valutazioni”, vale a dire le stime che caratterizzano la maggior parte delle voci di bilancio[34]. Sempre a tal proposito, si è sottolineato come non integri più la punibilità a titolo di falso in bilancio la semplice valutazione mendace, mantenendo rilevanza penale ogni valutazione che nasconde in realtà un'esposizione di fatti falsi come, ad esempio, quando si faccia apparire una consistenza diversa; al contrario, non costituisce valutazione quando alla consistenza effettiva venga data una stima diversa[35].

Altra parte della dottrina ha, invece, evidenziato come «se con il concetto di fatti materiali si è voluto circoscrivere il disvalore penale alle sole valutazioni dotate di concretezza, lo stesso risultato poteva raggiungersi facendo leva su altre caratteristiche delle valutazioni, come la loro idoneità a influenzare il comportamento del destinatario in vista di decisioni patrimonialmente impegnative; se invece il concetto di fatti materiali aspira a riesumare la tesi che esclude la rilevanza penale delle mere valutazioni, l'innovazione proposta si rivela velleitaria e fuorviante nella misura in cui trascura, a tacer d'altro, che le valutazioni sono parte essenziale del bilancio»[36].

Altri Autori ritengono, infine, che nulla sia cambiato rispetto alla precedente dizione dell'art. 2621 (vecchio testo), costituendo la locuzione un'inutile superfetazione[37].

Quanto alla fissazione della soglia del 10% in relazione alle valutazioni, occorre evidenziare come essa debba essere considerata un tetto di garanzia verso il basso, che impedisce che possano essere ritenute irragionevoli le valutazioni che si mantengano nello scarto normativamente fissato, ferma restando la possibilità di valutare comunque "ragionevole" una valutazione anche se essa superi del 10% quella corretta[38]. Altra parte della dottrina, invece, ritiene che superata la soglia del 10% non si potrà fare riferimento ad alcun altro limite di tolleranza[39].

In relazione all'espressione “singolarmente considerate” occorre, in più, sottolineare come abbia lo scopo di evitare la possibilità di effettuare medie tra stime distinte, dovendosi leggere il limite del 10% come operante per le singole voci o parti di esse[40]. Diversamente si è anche sostenuto che si debba fare riferimento solo ed esclusivamente alle voci di bilancio che abbiano una loro autonomia nella relativa rappresentazione[41].

Occorre, infine, sottolineare come l'introduzione di una soglia quantitativa influisca non poco nella determinazione del criterio applicabile per l'accertamento della falsità delle valutazioni: se, infatti, pare ormai fuori gioco ogni considerazione relativa al concetto di "vero legale", l'introduzione della soglia del 10% pare aver dato una sanzione legislativa al canone della ragionevolezza, già molto diffuso in giurisprudenza; se, al contrario, si vorrà dare valore alla necessaria idoneità ingannatoria del falso, si potrà sostenere come il criterio adottabile è quello della difformità tra i criteri valutativi adottati e quelli prescelti ed indicati, per esempio, in nota integrativa[42].

In relazione alla condotta omissiva, parte della dottrina fa riferimento all’ipotesi di reato commissivo a componente omissiva[43]. Va chiarito come essa debba avere ad oggetto informazioni la cui comunicazione è obbligatoria per legge. Controverso, inoltre, è il concetto di “informazioni”, pur se da taluni Autori ritenuto riconducibile alla nozione di «fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni» di cui si è detto innanzi[44].

Quanto alla necessaria presenza di una norma extrapenale che imponga la comunicazione essa può essere variamente interpretata. Autorevole dottrina ritiene tale specificazione "un pastrocchio", evidenziando come vi sia un articolo del codice civile, il 2423, comma 3, che afferma come «se le informazioni richieste da specifiche disposizioni di legge non sono sufficienti a dare una rappresentazione veritiera e corretta, si devono fornire le informazioni complementari necessarie allo scopo»[45]. Altri, invece, hanno posto in evidenza come l'espressione "imposte dalla legge" concerna il contenuto dell'informazione indebitamente omessa all'interno di una comunicazione realmente esistente e che deve essere “prevista dalla legge”[46].

Merita cenno, infine, la problematica concernente l'oggetto del mendacio, costituito dalla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. A tale specificazione va ricondotta, secondo alcuni Autori, la funzione di esplicitare l'irrilevanza penale di false comunicazioni aventi ad oggetto il contesto economico in cui si trova ad operare la società, mentre il riferimento alla "situazione della società" esclude la configurabilità del reato nella fase genetica della stessa, come conferma la scomparsa dei promotori e dei soci fondatori dal novero dei soggetti attivi[47]. Non si è mancato, poi, di sottolineare l'importanza della dizione "situazione economica", invece della precedente "condizioni", che potrebbe inibire future interpretazioni fondate su una visione parcellizzata delle singole voci di bilancio e sull'interesse a conoscere la dinamica sottesa al procedimento che giunge a consuntivo, limitando la falsità penalmente rilevante a quella che incida sulla sola situazione patrimoniale della società e cioè sulle dimensioni del suo patrimonio comprensivo di tutte le attività e passività[48]. Peraltro, l'estensione all'ambito finanziario potrebbe determinare la rilevanza del sindacato sulle scelte di politica gestionale della società, con conseguente riferibilità dell'obbligo di verità anche all'esatta destinazione dei costi[49].

Sul punto va infine sottolineato come anche la veridicità di informazioni rese in riferimento a beni posseduti fiduciariamente è tutelata dalla sanzione penale.

   

§5. L’oggetto materiale del reato: a) i bilanci

Ulteriore problematica da affrontare è quella concernente il bilancio consolidato, anche in questo caso attraverso un rapido cenno a dottrina e giurisprudenza consolidatesi sotto la vigenza del vecchio testo della norma in commento.

La giurisprudenza aveva compreso nella fattispecie delineata dall'art. 2621 di cui all'originaria formulazione la falsificazione contenuta nel bilancio consolidato della società capogruppo, che non poteva essere considerato una semplice somma dei bilanci delle singole società, dovendo, invece, rappresentare, in modo corretto, la situazione patrimoniale dell'intero gruppo finanziario[50]. Più specificamente si era affermato che, stante la distinta e autonoma soggettività giuridica delle singole società, il bilancio consolidato, ben distinto dai singoli bilanci delle società formanti il gruppo (ivi comprese, naturalmente, le capogruppo), avesse la funzione di dare un quadro fedele del gruppo stesso, inteso come unità economica, riunificando ciò che, da un punto di vista, per l'appunto, economico, poteva essere considerato già unitario[51].

Contro tale impostazione si era schierata buona parte della dottrina, che sottolineava come, avendo il bilancio consolidato ad oggetto il gruppo, non poteva essere considerato, se non attraverso un'analogia in malam partem, tra le comunicazioni sociali sulle condizioni economiche della società, stante la palese diversità tra la dizione società e la dizione gruppo[52].

La riforma della norma in commento sembra abbia recepito le cennate puntualizzazioni dottrinali, tant’è che nel testo della nuova fattispecie è stata inserita l’inequivoca dizione «condizioni economiche [...] del gruppo al quale appartiene». Pare, al contrario, assodato, tanto in relazione alla precedente, quanto alla nuova formulazione, come si debba accogliere un concetto ampio di bilancio, a favore del quale si schiera la maggior parte della dottrina, argomentando come la legge non si riferisca ai bilanci d'esercizio, ma semplicemente ai bilanci e come, in ogni caso, i bilanci straordinari ed il bilancio consolidato costituiscono, comunque, comunicazioni sociali ai sensi dell'art. 2621, viste le loro caratteristiche intrinseche[53].

   

Segue: b) le relazioni e le altre comunicazioni sociali

Quanto alla nozione di “comunicazione sociale” la giurisprudenza formatasi sul vecchio testo ne dava una definizione tanto ampia da ricomprendervi ogni comunicazione, scritta od orale, anche esterna, rivolta ai soci, ai creditori presenti e futuri ed a qualunque terzo interessato, ovvero le false dichiarazioni trasfuse negli atti contabili con la finalità di alterare fraudolentemente la verità[54], purché riconducibili ad uno dei soggetti indicati dall'art. 2621[55] c.c.

Sul tema la dottrina aveva dato luogo a distinti orientamenti. Alcuni Autori, sulla scia della giurisprudenza da ultimo segnalata, ritenevano che per “comunicazione sociale” dovesse intendersi qualunque attività divulgatoria scritta od orale, non solo espressione di specifiche funzioni esercitate in seno alla società, ma, altresì, “diffusiva”, cioè rivolta a soggetti titolari di interessi comunque correlati a quelli societari, sebbene non necessariamente coincidenti con quelli di soci e creditori, non essendo necessario che la comunicazione fosse a questi specificamente indirizzata, purché verso di essi polarizzata[56]: si pensi alle posizioni giuridicamente rilevanti degli operatori del mercato azionario o delle associazioni sindacali dei lavoratori[57].

La riformata previsione normativa prescrive, invece, che le comunicazioni sociali diverse da bilanci e relazioni debbano essere previste per legge e rivolte ai soci ovvero al pubblico.

Quanto al requisito della necessaria previsione legislativa - riserva di legge - , si è osservato come essa escluda la rilevanza penale di qualunque comunicazione atipica e non istituzionalizzata, ancorché diretta ai soci e al pubblico: si fa, a questo proposito, l'esempio delle esternazioni d'uso corrente come i comunicati e le conferenze stampa, nonché delle stesse dichiarazioni estemporanee ai soci riuniti in assemblea e financo delle comunicazioni prescritte dalla Consob in forza di poteri regolamentari[58].

Sicché sembrano risolte tutte le questioni relative alle comunicazioni interorganiche, ormai pacificamente espunte dalla fattispecie, e a quelle con unico destinatario, pubblico o privato, anch'esse ormai non sanzionabili[59]. D’altra parte non è mancato chi ha interpretato la locuzione "previste dalla legge" in maniera evidentemente più ampia, sino a ricomprendervi le comunicazioni ai soci previste o imposte dalla legge implicitamente o indirettamente, mediante rinvio alla potestà regolamentare delle autorità di vigilanza[60]. Mentre per ciò che concerne le comunicazioni verbali si è sostenuto che esse assumono rilevanza penale solo se siano previste dalla legge[61].

 

Segue: c) la rilevanza del fatto e le soglie di punibilità

Qualora la falsità o le omissioni non alterino in modo sensibile la rappresentazione della situazione economico patrimoniale della società o del gruppo, la punibilità è esclusa dalla previsione di specifiche soglie quantitative al di sotto delle quali il falso non è punibile[62]. La presenza di tali limiti minimi - di cui non v’era traccia nell’originaria formulazione della norma in commento - ha dato vita ad un notevole dibattito dottrinale. Da una parte la previsione è stata reputata corretta, ed anzi salvifica, stante l'uso distorto del ricorso alla precedente fattispecie, interpretata in modo eccessivamente estensivo e senza tenere conto delle diverse esigenze ed istanze di chiarezza informativa che derivano dall'evoluzione del sistema di pubblicità in campo commerciale e dall'espansione dei mercati e del mondo finanziario[63]. Dall’altra, invece, si è stigmatizzata la fissazione di soglie quantitative, che, risolvendosi in espedienti inidonei ad eliminare la possibilità di costituire ulteriori fondi (occulti), elevano a livello istituzionale le poco decenti finalità spesso perseguite, quali, ad esempio, i pagamenti tangentizi[64].

Quanto alla natura delle soglie di punibilità la dottrina si è attestata su posizioni differenti: alcuni Autori hanno puntualizzato come esse identifichino un elemento essenziale della fattispecie tipica, poiché concretizzano il generico requisito della "sensibile alterazione"[65]; altri, invece, le inquadrano nell’ambito delle "cause di non punibilità", come tali non incidenti né sulla tipicità, né sull'offensività, ma esclusivamente sull'applicabilità della sanzione, con la conseguenza che il loro superamento rimarrebbe del tutto estraneo al dolo[66].

In relazione ai reciproci rapporti tra soglie va rilevato che quella - non superiore al 5% - attinente alla variazione del risultato economico di esercizio al lordo delle imposte e quella - non superiore all’1% - riguardante la variazione del patrimonio netto, sono da considerarsi alternative, sicchè il superamento dell’una impedisce l'applicabilità dell'altra, determinando l’affermazione di responsabilità penale dell’agente. Tuttavia, si è osservato come non sia possibile escludere l’operatività congiunta delle due soglie[67], non essendo sufficiente per la formulazione del giudizio di responsabilità,  il superamento di una delle due ogni qual volta si resti al di sotto dell’altra. Peraltro non si è mancato di rilevare come, anche nel caso di superamento di ambedue le soglie, esplicherà pur sempre efficace il parametro della non alterazione sensibile della rappresentazione della situazione societaria. In dottrina si è, altresì, sottolineata, a questo proposito, l'importanza di tale ultima clausola, la quale mantiene una valenza generale «destinata ad operare anche (e a quanto pare solo) verso l'alto della soglia quantitativa»[68].

La previsione delle soglie di punibilità impedirebbe, secondo parte della dottrina - la punibilità del c.d. falso qualitativo, vale a dire quella tipologia di falso che non comporta alcun tipo di alterazione né del risultato economico di esercizio, né del patrimonio netto, essendo così, per definizione, sempre sotto soglia[69]. Altra parte della dottrina ha, invece, sottolineato come le soglie di punibilità siano applicabili unicamente alle ipotesi di falso c.d. quantitativo, mentre per quelle di falso c.d. qualitativo si dovrebbe applicare il solo criterio generale della "sensibile alterazione": infatti, possono ben esservi dei falsi che, pur non incidendo sui risultati economici di bilancio, sono, tuttavia, assolutamente rilevanti nell'alterare sensibilmente la lettura della situazione della società[70].

Tuttavia, nell’ipotesi non si superino le soglie di punibilità individuate ai commi 3 e 4, i soggetti attivi incorrono, ai sensi del comma 5 dell’art. 2621 c.c. (come modificato a seguito dell’entrata in vigore della L. 28.12.2005, n. 262) del comma 7 dell’art. 2622 c.c., nella sanzione amministrativa di importo variabile da dieci a cento volte il valore delle quote e nell'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese da sei mesi a tre anni, dall'esercizio dell'ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché da ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell'impresa. Si è così delineato una sorta di sistema sanzionatorio progressivo, che attribuisce rilievo penale alle sole condotte che si collochino al di sopra delle soglie di  punibilità e non anche a quelle che, non superando tali sbarramenti, assumono connotazione di illecito amministrativo.

Va sottolineato, inoltre, come il legislatore abbia delineato un sistema sanzionatorio ispirato al principio della progressiva afflittività, sicché, al di sotto delle soglie di punibilità di cui all’art. 2622  commi 7 e 8, c.c., i soggetti attivi sono puniti con la sanzione amministrativa da dieci a cento quote e l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese da sei mesi a tre anni, dall'esercizio dell'ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché da ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell'impresa (art. 2622, comma 9, c.c.).

Non va sottaciuto, infine, come la previsione di cosiddette “sanzioni per quote", sulla falsa riga di quanto previsto dal d.lgs. 8.6.2001, n. 231 in tema di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, implichi notevoli difficoltà applicative, a cagione della mancata disciplina di un qualunque criterio per la determinazione del valore delle quote: peraltro la lacuna non appare neppure colmabile mediante il ricorso alla disciplina prevista in materia dal D.Lgs. 8.6.2001, n. 231, poiché ciò determinerebbe violazione del divieto di analogia in malam partem.

   

§6. L’elemento soggettivo

L’elemento soggettivo del reato contravvenzionale di cui all’art. 2621 è stato dal legislatore ancorato non più alla locuzione fraudolentemente - caratterizzante la precedente formulazione normativa ed oggetto di critiche da parte di dottrina e giurisprudenza - bensì alla necessità che l’azione sia posta in essere «con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico» e «al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto»[71].

I due elementi meritano di essere distintamente analizzati.

Mediante il riferimento all'intenzione di ingannare i soci e il pubblico, chiara espressione del dolo intenzionale, il legislatore ha inteso - più che porre l’accento sulla nozione di inganno, ontologicamente insita nel concetto di falso - rimarcare che soggetti passivi della condotta ingannatoria possono essere i soci ed il pubblico.

L’azione posta in essere dall’agente, inoltre, deve essere preordinata a conseguire un profitto ingiusto, cioè contra ius: il legislatore, quindi, ha definitivamente superato la “vaghezza interpretativa” del riferimento all’avverbio “fraudolentemente” (presente nella vecchia formulazione), per approdare ad una costruzione normativa in grado di ricondurre l’elemento psicologico del reato nell’alveo del dolo specifico.

Sul punto merita di essere segnalata la posizione della dottrina, che in sede di riforma dei reati societari aveva auspicato un intervento legislativo orientato ad una scarsa valorizzazione dell’elemento soggettivo nella riformulazione delle fattispecie in tema di informazione societaria in genere e, in particolare, di falso in bilancio, ciò in quanto “… L’esperienza interpretativa di più di mezzo secolo di vigenza del codice civile dovrebbe avere già abbondantemente ammonito circa le incertezze applicative e la varietà di soluzioni alle quali è suscettibile di dar luogo una fattispecie di tutela dell’informazione societaria che pretenda di selezionare i comportamenti punibili sul piano della qualità o intensità o direzionalità del dolo. Un equilibrio stabile nella repressione penale della falsa informazione societaria potrà essere raggiunto soltanto sulla base di una adeguata descrizione degli elementi oggettivi della fattispecie, a cominciare da quel requisito dell’idoneità ad ingannare che già compariva nel disegno di legge governativo. Non sembra opportuna invece – come già la maggioranza della commissione Mirone aveva ritenuto – l’introduzione di soglie di punibilità di natura quantitativa o percentuale: non potrà essere infatti la mera rilevanza quantitativa (economica, in termini assoluti o percentuali) dell’informazione falsificata a decidere della sua punibilità, quanto piuttosto la rilevante idoneità della stessa a trarre in inganno i destinatari, con possibili riflessi sulle valutazioni e determinazioni di questi”[72].

A tal proposito si è anche sottolineato come la nuova formulazione abbia senz’altro accresciuto rispetto al passato la rilevanza operativa del dolo specifico di ingiusto profitto, poiché il mutamento della fattispecie al cui interno si inserisce, quale elemento costitutivo, la consapevolezza del vantaggio contra ius, determina la possibilità di ritenere insussistente il dolo allorché gli amministratori abbiano agito con la finalità di salvataggio della società, di salvaguardia dell'immagine della società o di mantenimento dei posti di lavoro[73].

In questa prospettiva si è, altresì, evidenziato che per l’integrazione della fattispecie, è necessaria la consapevolezza da parte dell'autore del reato della sensibilità dell'alterazione, nonché del superamento delle soglie percentuali di punibilità, laddove queste ultime vengano considerate, come appare preferibile, elementi descrittivi di fattispecie e non semplici condizioni di non punibilità[74].

Con riferimento, invece, al delitto di cui all’art. 2622 c.c., oltre a quanto già detto, va sottolineato l'elemento del danno ai soci o ai creditori, inserito dal legislatore nella fattispecie con la specifica finalità di discriminare il delitto - perseguibile d'ufficio o a querela a seconda che si tratti di società quotata in borsa o meno (art. 2622) - dalla semplice contravvenzione, come tale sempre perseguibile d'ufficio (art. 2621). Ed infatti, secondo la dottrina maggioritaria si sarebbe in presenza di una fattispecie caratterizzata dal dolo di danno; rectius, si tratterebbe di un delitto di danno con dolo intenzionale di danno (al di là del dolo specifico di profitto)[75].

Altra parte della dottrina, invece, fa riferimento al semplice dolo di danno, con la possibilità, dunque, di un'imputazione del danno anche a titolo di dolo eventuale[76].

Per la giurisprudenza di legittimità, la disposizione di cui all'art. 2622 c.c., richiede oltre al dolo generico (rappresentazione del mendacio) e al dolo specifico rispetto ai contenuti dell'offesa, qualificata da ingiusto profitto, il dolo intenzionale di inganno dei destinatari, previsto per escludere letture in chiave di dolo eventuale, ancorché compatibile con la presenza di concomitanti finalità[77].

Recentemente la Cassazione ha evidenziato, altresì, come ai fini della sussistenza del reato di false comunicazioni sociali  ex art. 2622 c.c., la causazione di un danno ai soci può anche non essere perseguito in modo diretto dall'autore della condotta, essendo sufficiente che egli ne abbia previsto ed accettato l'eventualità[78].

 

§7. I rapporti con altre figure di reato

L’art. 2621 c.c. prevede l’applicabilità della norma incriminatrice «salvo quanto previsto dall'art. 2622». L’inciso, frutto di ampia discussione parlamentare, ha la funzione di rendere applicabile la contravvenzione di cui alla fattispecie in commento nel caso in cui, pur ricorrendo tutti gli elementi costitutivi del delitto di cui all'art. 2622, manchi la condizione di procedibilità (querela). In definitiva, si è evidenziato come l'ipotesi contravvenzionale di cui all'art. 2621 sia indifferente rispetto al danno che tipizza il delitto e possa applicarsi indipendentemente dalla sua ricorrenza[79].

Contra, su posizioni estremamente critiche, si colloca parte della dottrina, secondo cui il rimedio apprestato per assicurare la procedibilità si esporrebbe a non poche perplessità: in particolare sarebbe paradossale che il legislatore, dopo aver manifestato la scelta di una disponibilità della tutela, statuendo per il delitto di cui all'art. 2622 la procedibilità a querela, neghi, infine, al soggetto passivo tale facoltà, perseguendo comunque, seppur a diverso titolo, l'autore[80]. Sulla base di tali considerazioni, altra parte della dottrina ritiene inapplicabile la fattispecie di cui all’art. 2621, nel caso difetti la condizione di procedibilità per il delitto di cui all'art. 2622, dovendosi attribuire alla clausola di riserva l'unico significato di riconfermare la presenza di un'importante lacuna legislativa in relazione alle false comunicazioni sociali produttive di danno per i soci o i creditori in relazione alle quali non sia stata presentata, o sia stata successivamente rimessa, la querela[81].

Questione particolarmente discussa sia in dottrina che in giurisprudenza è quella relativa ai rapporti tra il reato di frode fiscale e quello di false comunicazioni sociali.

La giurisprudenza formatasi sotto la vigenza della precedente formulazione normativa aveva affermato il principio in forza del quale la falsità posta in essere al solo fine di frodare il fisco non configurava il reato di false comunicazioni sociali per carenza dell'elemento soggettivo, non essendo tale finalità sufficiente ad integrare gli estremi richiesti dall'avverbio "fraudolentemente"[82]. A tale impostazione ermeneutica aveva aderito solo parte della dottrina[83]. Numerosi autori riconoscevano, piuttosto, l'esistenza di un rapporto di specialità tra le fattispecie previste dalle norme fiscali e quella disciplinata nell’originaria formulazione dell'art. 2621: tale conseguenza derivava dal fatto che tra i possibili soggetti passivi di quest'ultimo reato si doveva fare rientrare anche l'Erario[84]. In tale contesto, inoltre, si è sostenuto che nel reato di false comunicazioni sociali rientrassero anche le condotte intese a frodare esclusivamente il fisco nei casi di inapplicabilità della fattispecie tributaria[85].

La Corte di Cassazione, intervenendo sul tema prima della riforma dei reati societari, aveva addirittura superato tale impostazione, affermando dapprima la possibilità del concorso tra i due reati anche nel caso di falso diretto alla sola frode fiscale[86] e, quindi, che il reato di cui all’art. 2621 c.c. non poteva sussistere nel momento in cui l'unica finalità del soggetto fosse stata quella di frodare il fisco; tuttavia sarebbe stato ipotizzabile un concorso tra falso in bilancio e frode fiscale, laddove la condotta dell'agente avesse contemporaneamente integrato gli elementi soggettivi delle due fattispecie[87].

La formulazione della nuova fattispecie consente di risolvere definitivamente la questione interpretativa. Nella relazione al testo legislativo della riforma si sottolinea, infatti, come la direzionalità oggettiva della falsità, nonché l'esplicitazione del vecchio fraudolentemente nella nuova formula «l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico», laddove pare chiaro che nel concetto di pubblico non possa essere ricompreso il fisco, costituiscano chiari elementi che consentono di regolare i rapporti tra il falso e i delitti tributari in tema di dichiarazione nel senso di escluderne pacificamente il concorso.

In questa prospettiva si è collocata la giurisprudenza della Suprema Corte affermando che il falso in bilancio finalizzato esclusivamente ad ingannare il fisco non può, alla luce della riforma, integrare le fattispecie di cui agli artt. 2621 e 2622[88].

Parte della dottrina ha, invece, sostenuto come - ferma restando la totale autonomia delle fattispecie[89]- sia configurabile il concorso materiale tra reati societari e fiscali, con conseguente possibilità di ricorrere allo schema tipico della continuazione.

Per quanto più specificatamente riguarda la fattispecie ex art. 2622 c.c. va specificato come la richiesta del legislatore delegante di “regolare i rapporti delle fattispecie con i delitti tributari in materia di dichiarazione” sia stata pienamente assicurata dalla direzionalità oggettiva della falsità, nonché dalla esplicitazione del vecchio “fraudolentemente” nella nuova formula “con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico”, considerato come appaia all'evidenza indiscutibile che nel concetto espresso dal termine “pubblico” non possa esser ricompreso il fisco. Del resto questa lettura trova conferma nella relazione al Progetto Mirone, laddove si dice che la direzione al “pubblico” della falsità è volta “a centrare la fattispecie” verso “categorie «aperte» di soggetti destinatari, separandola nettamente dall'informazione [comunicazione] resa ad autorità di controllo o a singoli individuati destinatari [...]. Il mendacio trova caratterizzazione nella direzionalità offensiva, con la precisazione che deve essere rivolto a soggetti indeterminati, i quali orientano le proprie scelte economiche sulle base delle informazioni offerte”. Pertanto, “la precisazione della direzionalità offensiva del mendacio esclude dall'ambito operativo della figura le comunicazioni interorganiche e quelle riferite ad un singolo destinatario”[90].

Inoltre la dottrina che ha posto l’accento sulla necessità che nel delitto in esame il danno patrimoniale debba assumere rilevanza per i soci e i creditori attuali, ha anche sottolineato come il danno in pregiudizio dei soci e dei creditori futuri non possa costituire un postfatto non punibile, in quanto espressamente escluso.

I soci e i creditori futuri, dunque, oltre a subire un danno economico causalmente dipendente dalla comunicazione, sono destinatari sia delle comunicazioni («dirette ai soci o al pubblico») che dell'intenzione di inganno (parimenti concernente «i soci ed il pubblico»). Alla luce di tali considerazioni, si ritiene configurabile, in tali ipotesi, il delitto di truffa (in ogni caso perseguibile a querela: art. 2622, 2° co.)[91].

La Suprema Corte ha, altresì, inciso, delimitandone l’ambito applicativo, sulla clausola di cui al comma 2 dell'articolo 2622 c.c., in forza del quale la perseguibilità a querela si estende anche «se il fatto integra altro delitto, ancorché aggravato, a danno del patrimonio di soggetti diversi dai soci e dai creditori, salvo che sia commesso in danno dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee».

In particolare, la Corte ha sottolineato come tale clausola sia applicabile solo per quei delitti che si pongano in concorso formale con le false comunicazioni sociali dannose, e limitatamente alle sole ipotesi aggravate dalla presenza del danno ai terzi, danno che non deve, però, assurgere ad elemento costitutivo del diverso delitto[92].

In senso contrario si è espressa la dottrina più accreditata, che ha ritenuto non condivisibile un'interpretazione così "angusta" e sostanzialmente abrogativa della “clausola estensiva” di cui al comma 2 della norma in esame[93].

 

§8. La diade “falso in bilancio” e “diritto comunitario”

Appare utile, da ultimo, qualche breve spunto di riflessione sul difficile rapporto della normativa attuale con l’ordinamento comunitario.

Le riforme del 2002 e del 2005 sono state accompagnate da aspre critiche. Si è denunciato, in particolar modo, l'irrazionalità e l'inadeguatezza dell'intervento punitivo, in violazione delle direttive europee in materia societaria e, di riflesso, delle norme costituzionali (art. 10-117 Cost.).

Le presunte violazioni riguarderebbero l'art. 6 in relazione all'art. 2, comma 1, lett. f, della direttiva 68/151/Cee (cd. I direttiva in materia societaria)[94], in virtù della quale gli Stati membri “stabiliscono adeguate sanzioni per i casi di … mancata pubblicità del bilancio e del conto profitti e perdite”, dall'altro, l'art. 2, paragrafi 2-4, della direttiva 78/660 Cee (cd. IV direttiva), con la quale si mira ad una disciplina dettagliata dei bilanci comune a tutti gli Stati membri[95], ed infine l’art. 16, nn 3-5 della direttiva 83/349/Cee (cd. VII direttiva)[96]. La Comunità Europea, inoltre, ha iniziato già da tempo un processo di uniformazione della disciplina dei bilanci di esercizio ai principi contabili internazionali (noti come International accounting standard).

Il contrasto con la normativa comunitaria coinvolgerebbe, in particolar modo, il meccanismo di non punibilità per le falsificazioni «esigue», tramite il sistema delle soglie percentuali di tolleranza; il regime di procedibilità solo a querela della persona offesa previsto qualora la falsità sia realizzata nel contesto di una società non quotata (art. 2622 c.c.) ed infine, l’inadeguatezza delle tutela penale, specie in relazione all’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 2621 c.c., condizionata da termini di prescrizione breve, pur a fronte della complessità dell’accertamento[97].

Si è censurata[98] la mancanza di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive[99]”.

Sul punto utile ricordare come adeguatezza e proporzionalità[100] della sanzione vanno intese non in senso astratto (rispetto allo strumento sanzionatorio prescelto), ma in concreto, rispetto, cioè all'effettività della chance di punizione[101], ovvero, vagliate, calando la sanzione nel contesto ordinamentale nel quale sono destinate ad essere concretamente applicate[102].

La riforma in buona sostanza avrebbe comportato una sostanziale depenalizzazione dei reati societari[103]. Secondo alcuni Autori[104], si sarebbe compiuto un passo indietro di oltre mezzo secolo sul piano dell’individuazione dell’interesse tutelato, tradendo l’originaria ragion d’essere della fattispecie incriminatrice. Il reato de quo oggi mira a prevenire i danni patrimoniali ai soci ed ai creditori, mentre in realtà l’interesse che dovrebbe essere realmente tutelato dovrebbe essere l’interesse collettivo, la veridicità e trasparenza dell’informazione societaria, che rappresenta un presupposto fondamentale ed indisponibile di una moderna economia di mercato[105].

Sullo sfondo, è evidente, c’è il delicato problema del rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale. Sul punto da ricordare come la giurisprudenza costituzionale ha individuato l’esistenza, tra l’ordinamento comunitario e ordinamento italiano, di un rapporto di separazione e di coordinamento, nel contesto del quale alla evidenziazione del principio della preminenza delle fonti comunitarie in base ad una riserva di competenza a loro favore si accompagna la assegnazione alle fonti comunitarie di rango primario, ma non costituzionale (cfr. sentt. 117/1994 e 461/1995)[106], dotate di preferenza rispetto alle fonti nazionali con loro incompatibili, ma con l’importante limite della salvaguardia dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei diritti inalienabili della persona, essendosi la Corte italiana riservata la competenza a sindacare le leggi di autorizzazione alla ratifica e esecuzione dei trattati ove tali principi e diritti potessero soffrire un pregiudizio ad opera delle fonti comunitarie abilitate da tali leggi.

Dal punto di vista giurisprudenziale la questione della presunta illegittimità comunitaria e costituzionale è stata affrontata dapprima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 161 del 2004[107]. La Consulta si è espressa per l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionali prospettate[108], dal momento che «il principio secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati o che l’effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o di aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore».

La Consulta, quindi, applicando rigorosamente il principio di riserva di legge in materia penale, ha evitato qualsiasi valutazione circa la discrezionalità dell’intervento punitivo del legislatore, mentre la realizzazione dell'intervento ablativo richiesto dai giudici remittenti (eliminazione delle soglie), avrebbe determinato l’ampliamento dell'area di operatività della sanzione prevista dalla norma incriminatrice. Il monopolio legislativo nella formazione penale, in altre parole, vieterebbe alla Corte Costituzionale stessa decisioni additive “in malam partem[109].

La Consulta, compulsata successivamente sulle questioni dell’illegittimità comunitaria, sollevate con tre ordinanze dal Tribunale di Palermo (ord. nn. 232/2002, 162 e 335/2003), con l’ordinanza n. 165 del 2004[110], in considerazione della pronuncia pregiudiziale richiesta dai giudici di Lecce e Milano[111], ha deciso di attendere la decisione della Corte di Lussemburgo[112], rinviando le cause a nuovo ruolo.

Sulla compatibilità delle nuova disciplina sul falso in bilancio con il diritto comunitario è intervenuta la Corte di Lussemburgo, con la sentenza 03.05.2005, Berlusconi e al[113]. La Corte si è pronunciata con una decisione “pregiudiziale” e, senza entrare nel merito della fattispecie riformata, in sintesi ha ricostruito la portata dell’obbligo di matrice comunitaria (art. 6, prima direttiva), ribadendo il principio della efficacia-proporzionalità (punti 53-65).

Da precisare come la Corte di Giustizia ha chiarito la natura e la qualità sottese alla informazione societaria per il tramite del principio del “quadro fedele”, visualizzando la trasparenza come interfaccia della fiducia del mercato. Da qui alcuni Autori[114] implicitamente hanno trovato conferma circa il giudizio di inadeguatezza della normativa italiana attuale radicata in una dimensione spiccatamente patrimoniale e privatistica degli interessi degli interessi in gioco (in particolare le soglie di punibilità e la procedibilità a querela ex art. 2622 c.c.), anche se, bene ricordarlo, la sentenza della Corte di Lussemburgo non si è sbilanciata nel ritenere incompatibile all’ordinamento comunitario la disciplina sul falso in bilancio italiana.

Per la Corte spetterebbe al giudice del rinvio vagliare - sulla base delle indicazioni ottenute dalla Corte in sede pregiudiziale - l’adeguatezza della legge nazionale, e, quindi, in forza della supremazia del diritto comunitario, il dovere di disapplicare le norme inadeguate (punto 72)[115]. Tuttavia, nel caso del falso in bilancio - ha chiarito la Corte - l’eventuale disapplicazione della norma in contrasto con il diritto comunitario comporterebbe la reviviscenza della precedente più severa fattispecie incriminiatrice. Tale strada resterebbe preclusa perché «nel contesto specifico di una situazione in cui una direttiva viene invocata nei confronti di un soggetto da un’autorità di uno Stato membro nell’ambito di procedimento penali … una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle dette disposizioni»[116]. In altre parole, la disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con previsioni comunitarie, pur prevista dalla giurisprudenza europea, non può operare in malam partem.

La sentenza è stata accolta criticamente dalla dottrina italiana[117], che ne ha rilevato l’impronta conservatrice o, comunque, la volontà di minimizzare l’impatto del diritto comunitario sui diritti penali nazionali. La Corte di Lussemburgo, avrebbe preferito «non correre il rischio di essere accusata di erodere il principio di applicazione retroattiva della disciplina più mite prevista dall’art. 2, 3 comma, c.p., preferendo invocare la giurisprudenza Kolpinghuis Nijmegen[118]», in base alla quale una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati.

La Corte di Giustizia con la sentenza 03.05.2005 ha, inoltre, elevato a rango euro-costituzionale il principio della lex mitior[119], sancendo, però, per parte della dottrina una perdita di tenuta comunitaria del diritto penale, quantomeno limitatamente all’obbligo di fedeltà correlato alla tutela sanzionatoria di norme previste in direttive CE[120]. Infine, per alcuni Autori[121], sancita la retroattività della legge favorevole e l’impossibilità di far rivivere la disciplina penale precedente e più severe, il legislatore nazionale avrebbe mano libera in bonam partem.

In relazione ai rapporti tra diritto comunitario e diritto nazionale, la decisione, in verità, evita “salti nel vuoto”[122], sbarrando la strada ad una disapplicazione immediata fondata sul contrasto con una normativa incapace di effetti diretti, rilevato alla luce del giudizio di adeguatezza. 

E’ da ricordare, infine, come proprio nel procedimento Berlusconi ed alt. innanzi alla Corte di Giustizia, l’Avvocato generale Kokott[123] nelle sue conclusioni ha evidenziato come l’aggravamento della responsabilità penale degli imputati non deriverebbe direttamente dalla direttiva bensì dal diritto nazionale, in particolare, dalla precedente normativa[124]. In altri termini poiché in tale circostanza i fatti al momento della realizzazione erano punibili secondo il diritto nazionale, ciò implicherebbe la salvezza del profilo concernente il rispetto del principio del nullum crimen, nulla poena sine lege.

Secondo l’Avvocato generale stante l’evidente contrasto del “nuovo falso in bilancio” con il diritto comunitario (e, indirettamente, con la Costituzione), la disapplicazione di tali norme, comporterebbe la “reminescenza”[125] della normativa previgente (ovvero il “vecchio falso in bilancio”), asseritamente conforme agli obblighi comunitari in materia, ove i fatti per cui si procede siano avvenuti sotto la vigenza del “vecchio falso in bilancio”.

Da ultimo è da segnalare l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 196/2007[126], la quale pur prendendo atto delle decisione della Corte di Giustizia nel caso Berlusconi, ha rimesso gli atti ai giudici remittenti per intervenuto ius superveniens, per l’introduzione della L. 28.12.2005, n. 262 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari). La Corte ha analizzato le modifiche agli artt. 2621 e 2622 c.c. apportate con l’intervento riformatore del 2005, ma non si ha espresso nessun giudizio sugli stessi, lasciando irrisolto il problema della compatibilità del diritto nazionale con l’ordinamento comunitario. 

Allo stato attuale, quindi, sotto i profili evidenziati, sembrerebbe ferma la contrarietà della nuova disciplina del falso in bilancio con il diritto comunitario.

La difficoltà principale è dovuta alla limitata possibilità per la Corte Costituzionale di colpire norme penale di favore che risultassero incostituzionale (come stabilito dalla sentenza n. 148/1983[127]), come l’impossibilità per la Corte di limitarsi ad eliminare le norme del nuovo falso in bilancio, posto che comporterebbe un vuoto di normativa contrastante ancor più con il principio comunitario di adeguatezza delle sanzioni statali poste a protezione di interessi comunitari.



[1] In particolare d.lgs 11.04.2002, n. 61, Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le societa' commerciali, a norma dell'articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 e l. 28.12.2005 n. 262 , Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, in G.U. 28.12.2005.

[2] Brunelli-Riverditi, Sub art. 1, Soggetti, in PRESUTTI-BERNASCONI-FIORIO, La responsabilità degli enti. Commento articolo per articolo al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Padova, 2008, p. 75.                                 

[3] Introdotto dal d. lgs 11.04.2002, n. 61.

[4] Tra gli altri v. Pelissero, La responsabilità degli enti, in ANTOLISEI (a cura di), Manuale di diritto penale. Leggi complementari, I, 13a ed., Milano, 2007, p. 845.

[5] Ex plurimis ROSSI, Le sanzioni dell'ente, in VINCIGUERRA-CERESA-GASTALDO-ROSSI, La responsabilità dell'ente per il reato commesso nel suo interesse, Padova, 2004, p. 31.

[6] Il testo dell’art. 2622 c.c. è stato modificato dall''art. 30, L. 28.12.2005, n. 262. Il testo in vigore prima della modifica disposta dall'art. 30, L. 28.12.2005, n. 262, era il seguente: «False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori - [1] Gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, esponendo fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni, ovvero omettendo informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, cagionano un danno patrimoniale ai soci o ai creditori sono puniti, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a tre anni. [2] Si procede a querela anche se il fatto integra altro delitto, ancorché aggravato a danno del patrimonio di soggetti diversi dai soci e dai creditori, salvo che sia commesso in danno dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee. [3] Nel caso di società soggette alle disposizioni della parte IV, titolo III, capo II, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, numero 58, la pena per i fatti previsti al primo comma è da uno a quattro anni e il delitto è procedibile d'ufficio. [4] La punibilità per i fatti previsti dal primo e terzo comma è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. [5] La punibilità per i fatti previsti dal primo e terzo comma è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5 per cento o una variazione del patrimonio netto non superiore all'1 per cento. [6] In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10 per cento da quella corretta.».

[7] Lanzi-Pricolo, sub art. 2622, in LANZI-CADOPPI (a cura di), I reati societari, Padova, 2007, p. 50.

[8] Seminara, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, in DPP, 2002, p. 682; Lanzi-Pricolo, sub art. 2622, cit., p. 52, che pervengono alla medesima conclusione quanto all'individuazione del dolo che deve riguardare l'elemento del danno che, inteso hic et nunc, può essere solo quello che ricade sui soci e sui creditori attuali.

[9] Sul punto cfr., tra gli altri, Targetti, Reati societari. La riforma del falso aziendale, Milano, 2002, p. 69.

[10] Pedrazzi,  In memoria del «Falso in bilancio», in RS, 2001, p. 1371.

[11] Si aggiunge come per la giurisprudenza «Tutti i danneggiati, sia i soci di minoranza che i creditori, possono proporre querela contro il reato di false comunicazioni sociali. Il termine per proporla decorre dall'effettiva conoscenza dell'evento, ovvero dalla conoscenza della falsificazione dei bilanci». Cfr. Cass. pen., Sez. V, 02.12.2011, n.14759, inCED Cass. pen. 2011. Si v. anche Cass. pen., Sez. II, 28.11.2011, n. 36924, in CED Cass. pen. 2011, secondo la quale persona offesa, e quindi legittimato a proporre querela è anche il socio, sia pure di minoranza, che è destinatario delle comunicazioni medesime, avendo il diritto di ricevere un'informazione corretta. Non è considerato, invece, persona offesa legittimata del diritto di querela ex art. 2622 c.c. il creditore contestato o eventuale, in quanto è necessario che il credito risulti documentato con un affidabile grado di certezza. Sul punto si v. Cass. pen., Sez. V., 26.05.2009, n. 37133, in CED Cass. pen. 2009.

[12] Relazione Ministeriale al d. lgs. 11.04.2002, n. 61, in Gdir, 2002, p. 4.

[13] Foffani, Rilievi critici in tema di riforma del diritto penale societario, in DPP, 2001, p. 303; contra Lanzi, Pricolo, sub art. 2622, cit., p. 54, che ne esclude del tutto la configurabilità.

[14] Art. 1, d. lgs. 08.06.2001, n. 231. Al riguardo v. BRUNELLI-RIVERDITI, sub art. 1, Soggetti, in PRESUTTI-BERNASCONI-FIORIO, La responsabilità degli enti. Commento articolo per articolo al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Padova, 2008, p. 75. L'art. 25ter, 1comma, lettere b) e c), d. lgs. 08.06.2001, n. 231 (introdotto dal d. lgs 11.04.2002, n. 61) vi ha inserito anche la disposizione in esame, prevedendo una diversa risposta sanzionatoria per l’ipotesi di cui al 3° comma della norma in commento.

[15] Per tutti v. PELISSERO, La responsabilità degli enti, in ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, I, 13a ed., Milano, 2007, p. 845.

[16] Cfr. per tutti ROSSI, Le sanzioni dell'ente, in VINCIGUERRA-CERESA-GASTALDO-ROSSI, La responsabilità dell'ente per il reato commesso nel suo interesse, Padova, 2004, p. 31.

[17] Bricchetti, Falso in bilancio: «doppio binario» sul danno, in Gdir, 2001, 48.

[18] V. Seminara, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, in DPP, 2002, p. 681.

[19] Tra gli altri v. Lanzi-Pricolo, sub art. 2621, in LANZI-CADOPPI (a cura di), I reati societari, Padova, 2007, p. 26.

[20] Pedrazzi, In memoria del «Falso in bilancio», cit., 1370.

[21] Foffani, Rilievi critici in tema di riforma del diritto penale societario, cit., p. 1197.

[22] Cass. pen., Sez. V, 10.06.2010, n. 27296, in Cass. pen. 2011, 3, 1211.

[23] Rossi, La responsabilità penale di amministratori e sindaci, in Tratt. Galgano, XIX, Padova, 1994, p. 208.

[24] In tema di condotte attive e passive si v. Cass. pen., Sez. II, 16.11.2012, n. 3397, in CED Cass. pen. 2012: «La fattispecie di false comunicazioni sociali di cui agli art. 2621 e 2622 c.c. individua le condotte penalmente rilevanti sia nell'esposizione dei fatti materiali che non rispondono ad una concreta o veritiera realtà sia nell'omissione di dati o di informazioni la cui comunicazione è prevista da disposizioni normative e tende a tutelare la veridicità, la chiarezza e la completezza delle informazioni relative all'esercizio dell'attività, in linea con la funzione attribuita al bilancio dai principi ispiratori della sua disciplina».

[25] Antolisei, Manuale di diritto penale, Leggi complementari, I reati societari, bancari, di lavoro e previdenziali, Milano, 1997, p. 131.

[26] Nappi, Falso e legge penale, Milano, 1989.

[27] Crespi, L'illegale ripartizione di utili, 2a ed., Milano, 1986, p. 65.

[28] V. Antolisei, Manuale di diritto penale, Leggi complementari, I reati societari, bancari, di lavoro e previdenziali, cit., p. 138.

[29] Ex plurimis Nuvolone, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, p. 257.

[30] V. Mazzacuva, Le false comunicazioni sociali, in Tratt. Di Amato, II, MAZZACUVA (a cura di), Trattato di diritto penale dell'impresa, Padova, 1992, p. 79.

[31] Napoleoni, Valutazioni di bilancio e false comunicazioni sociali: lineamenti di un'indagine dopo l'attuazione della IV direttiva CEE, in Cass pen., 1994, p. 422.

[32] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 16.12.1994, in Giur. it. 1995, II, 385, con nota di CONTI; Cass. pen., Sez. V, 19.06.1992, in Cass. pen., 1994, p. 404.

[33] Cass. pen., Sez. V, 05.12.1995, n. 742, in Cass. pen., 1996, p. 2780.

[34] Bricchetti, Falso in bilancio: «doppio binario» sul danno, cit., p. 47.

[35] V. Grosso, Da reato di pericolo a reato di danno. Oggettività giuridica del reato. Identificazione dei soggetti e dei requisiti per la configurazione del falso in bilancio: dolo specifico, ingiusto profitto, lesione patrimoniale, ecc. La definizione di rilevanti informazioni e di sensibile alterazione della rappresentazione della situazione economica, in Atti del convegno “La riforma dei reati societari e del falso in bilancio”, Milano, 2001, p. 3; Lanzi-Pricolo, sub art. 2621, cit., p. 35. Tali Autori sottolineano come sia necessario che la valutazione, ai fini di una sua penale rilevanza, «si trasfonda in un dato numerico rappresentativo di un fatto che incide sulla situazione prevista ex lege».

[36] Giunta, Quale futuro per le false comunicazioni sociali, in DPP, 2001, p. 931.

[37] Seminara, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, cit., p. 677.

[38] Musco, I nuovi reati societari, Milano, 2007, p. 95.

[39] Lanzi-Pricolo, sub art. 2621, cit., p. 45.

[40] Musco, I nuovi reati societari, cit., p. 96.

[41] Lanzi-Pricolo, sub art. 2621, cit., p. 46.

[42] Foffani, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, in GIARDA-SEMINARA (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova, 2002, p. 265.

[43] Foffani, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, cit., p. 267.

[44] Bricchetti, Falso in bilancio: «doppio binario» sul danno, cit., p. 47.

[45] Crespi, Le false comunicazioni sociali: una riforma faceta, in RS, 2001, p. 1366.

[46] Foffani, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, cit., p. 267.

[47] Giunta,Quale futuro per le false comunicazioni sociali, cit., p. 930.

[48] Musco, I nuovi reati societari, cit., p. 75.

[49] Lanzi-Pricolo, sub art. 2621, cit., 37.

[50] V. Cass. pen., Sez. I, 16.04.1997, n. 2787, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1997, p. 1385; Cass. pen., Sez. V, 09.07.1992, in Cass. pen. 1993, p. 2108, con osser. di SETTE.

[51] Cass. pen., Sez. I, 16.04.1997, cit.

[52] Galgano, False comunicazioni sociali e bilancio consolidato, in CeI, 1999, p. 1; Brunelli, Il falso in bilancio consolidato di gruppo: un problema sottovalutato, in IP, 1999, 55.

[53] Ex plurimis Rossi, False comunicazioni sociali e false comunicazioni sociali in danno della società, dei soci e dei creditori, cit.,  p.193.

[54] Cass. pen., Sez. V, 03.12.1997, in Giust. pen., 1998, II, p. 656 (s.m.); Cass. pen., Sez. V, 27.4.1992, in Cass. pen., 1993, p. 2624 (s.m.).

[55] Cass. pen., Sez. V, 22.04.1998, n. 8327, in Cass. pen., 1999, p. 652; Cass. pen., Sez. V, 09.07.1992, cit.

[56] Zuccalà, Le false comunicazioni sociali. Problemi antichi e nuovi, in RTDPE, 1989, p. 725.

[57] Pedrazzi, In memoria del «Falso in bilancio», in RS, 2001, p. 1133.

[58] Pedrazzi, In memoria del «Falso in bilancio», cit., p. 1373.

[59] Bricchetti, Falso in bilancio: «doppio binario» sul danno, cit., pp. 47-48; Musco, I nuovi reati societari, cit., p. 63, il quale specifica, altresì, l'esclusione delle comunicazioni rivolte alle Autorità di pubblico controllo.

[60] Seminara, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, cit., p. 676; sul punto v. anche Foffani, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, cit., p. 261.

[61] Lanzi-Pricolo, sub art. 2621, cit., p. 41.

[62] V. Cass. pen., Sez. V, 14.12.2012, n. 3229, in CED Cass pen. 2012: «In tema di false comunicazioni sociali, a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 61 del 2002 la punibilità è esclusa se la condotta incriminata non altera in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ovvero, in via alternativa, non determina una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al cinque per cento o una variazione del patrimonio netto non superiore all'uno per cento, ferma restando ai fini della configurabilità del reato l'irrilevanza di valutazioni estimative che singolarmente considerate non differiscano in misura non superiore al dieci per cento rispetto a quella corretta».

[63] Bricchetti, Falso in bilancio: «doppio binario» sul danno, cit., p. 50.

[64] Crespi, Le false comunicazioni sociali: una riforma faceta, in RS, 2001, p. 1348.

[65] Lanzi-Pricolo, sub art. 2621, cit., p. 43; Foffani, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, cit., p. 292.

[66] Pulitanò, Falso in bilancio: arretrare sui principi non contribuisce al libero mercato, in Gdir, 2001, p. 161.

[67] LANZI-PRICOLO, sub art. 2621, cit., p. 291.

[68] Musco, I nuovi reati societari, cit., p. 88.

[69] Lanzi-Pricolo, sub art. 2621, cit., p. 43. Secondo l’Autore «non sembrano punibili quei comportamenti che, pur riconducibili al modello delle falsità tipiche, non incidono però sul risultato dell'esercizio o sul patrimonio netto».

[70] Foffani, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, cit., p. 295.

[71] L'ingiustizia del profitto oggetto del dolo specifico consiste in qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l'autore intenda conseguire, il quale non si collega ad un diritto ovvero che è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso. Si segnala Cass. pen., Sez. V, 02.12.2011, n. 14759, cit.

[72] Foffani, Rilievi critici in tema di riforma del diritto penale societario, cit., pp. 1113 e ss.

[73] Foffani, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, cit., p. 280.

[74] Ibidem.

[75] Bricchetti, Falso in bilancio: «doppio binario» sul danno, in Gdir, 2001, p. 50.

[76] Foffani, Rilievi critici in tema di riforma del diritto penale societario, cit., p. 282.

[77] Cass. pen., Sez. V, 24.10.2010, n. 2784, in Cass. pen. 2012, 2, 673.

[78] Cass. pen. Sez. V, 2.12.2011, n. 14759, in CED Cass. pen. 2011.

[79] Lanzi-Pricolo, sub art. 2621, cit., p. 29.

[80] Musco, I nuovi reati societari, cit., p. 47.

[81] Foffani, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, cit., p. 313.

[82] Cass. pen., Sez. III, 18.12.1990, in Giur. imp. 1991, p. 262; Trib. Trento 18.10.1988.

[83] FLORA, Profili in materia di imposte dirette ed IVA, Padova, 1979, p. 259.

[84] Lanzi, Rapporti tra frode fiscale e false comunicazioni sociali, in IP, 1978, p. 561.

[85] Tinti, I rapporti tra le fattispecie di frode fiscale previste dalle lettere d, e ed f dell'art. 4 della l. n. 516/1982 e il reato di cui all'art. 2621 del codice civile, in F, 1997, p. 4264.

[86] Cass. pen., Sez. III, 01.07.1998, n. 9567, in Fisco (Il), 1998, p. 12742, con nota di CARACCIOLI.

[87] Cass. pen., Sez. V, 07.03.2002, n. 15099, in Fisco (Il), 2002, p. 5514.

[88]  Cass. pen., Sez. V, 27.9.2002, n. 39767, in Cass. pen., 2005, 1, p. 174, con nota di GIZZI.

[89] Lanzi-Pricolo, sub art. 2621, cit., p. 42.

[90] Relazione Ministeriale al d. lgs. 11.04.2002, n. 61, cit., p. 4.

[91] Seminara, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, in DPP, 2002, p. 682.

[92] Cass. pen., Sez. V, 03.12.2003, n. 46311, in Cass. pen., 2005, 3, p. 949, con nota di SORRENTINO.

[93] Martiello, L'art. 2622, comma 2, c.c.: una «clausola oscura» alla luce delle prime applicazioni giurisprudenziali, in RTDPE, 2004, p. 85.

[94] Tali direttive, si badi bene, sono considerate non self executing. Sul punto si deve ricordare come la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo ha da tempo ammesso la diretta applicabilità delle direttive, quando appaiano, da un punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise (sent. 22.06.1989, in causa 103/88; sent. 20.09.1988, in causa 286/85). Oggi la giurisprudenza riconosce la categoria delle direttive cd. self excecuting, cioè delle direttive aventi efficacia immediata, direttive che non necessitano di alcun provvedimento attuativo.

[95] Vale  ricordarlo, come tale direttiva è stata recepita nel nostro ordinamento con il dl.gs 9.4.1991, n. 127.

[96] L’obiettivo principale, soprattutto della IV direttiva è quello del quadro fedele, v. CGCE, sent. 14.09.1999, C275/95, DE+ES Bauuntenternehemung, in Racc., p. I-5331, punto 26. Principio che ha rappresentato la matrice diretta della disciplina civilistica dell’art. 2423 c.c. “il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico di esercizio.

[97] V. SOTIS, Illegittimità comunitaria della procedibilità a querele del falso in bilancio, in www.penale.it. L’Autore a proposito delle normativa sul falso in bilancio parla di «macroscopico esempio di sanzione inadeguata». Sulla complessità dell’accertamento si pensi che nella prassi il danno conseguente alle false comunicazioni sociali si manifesta soltanto nel corso degli esercizi successivi, e molto spesso, pur sussistendo, si rivela di difficilissima dimostrazione, se non a seguito di lunghe indagini peritali. Si osservi, inoltre, come la prova di uno specifico nesso di causalità tra la falsa informazione societaria e il danno patrimoniale subito dai singoli soci e/o creditori sarà, nella maggior parte dei casi, una vera e propria probatio diabolica.

[98] Ex plurimis, DOLCINI, Leggi penali “ad personam”, riserva di legge e principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. Dir. Proc. Pen.,  2004, p. 65; FOFFANI, Rilievi critici in tema di riforma  del diritto penale societario, cit., p. 1198; ROMANO, Irretroattività della legge penale e riforme legislative: reati tributari e false comunicazioni sociali, in Riv. Dir. e proc. pen., 2002, p. 1248 e ss.; LOZZI, Successione di leggi penali e riforma dei reati societari, in Riv. Dir. e proc. pen., 2002, p. 974; MASTROIANNI, Sanzioni nazionali per violazione del diritto comunitario: il caso del “falso in bilancio”, in Riv. ita. Dir. Pubbl. Comunitario, 2003, p. 621 e ss. e dottrina ivi citata.

[99] Così anche Corte App. Lecce, Sez. pen., ord. 7.12.10.96, in Guida al dir., 45, 84, in senso analogo Trib. Milano, Sez. I pen., ord. 26.10.2002, ivi, 93; Trib. Milano, Sez. IV pen., ord. 29.10.2002, ivi, 97.

[100] Principio generale derivato dall’art. 10 TCE e fatto valere dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee a partire dalla sent. 21.09.1989, Commissione c. Repubblica ellenica, C-68/88, in cui è stabilito l’obbligo per gli Stati di reagire alle violazioni del diritto comunitario con sanzioni che abbiano “carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità persuasiva.

[101] MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 121; DI MARTINO, Disciplina degli illeciti societari in bilico tra legalità nazionale e legittimità comunitaria, in Guida al diritto, 2002, n. 45, p. 116. L’Autore parla dell'effettività in astratto come un non senso.

[102] PECORELLA, Dubbi di legittimità costituzionale sul nuovo falso in bilancio, in Società, 5, 2003, p. 733.

[103] SCHIATTONE, Il decreto legislativo 11 aprile 2002 n. 61. Le false comunicazioni sociali (artt. 2621-2622), in http://www.diritto.it/materiali/commerciale/schiattone1.html.

[104] SCHIATTONE, Il decreto legislativo 11 aprile 2002 n. 61. Le false comunicazioni sociali (artt. 2621-2622), cit. L’Autore ricorda come «Il ritorno ad una ottocentesca concezione patrimonialistico-individualistica del falso in bilancio e in comunicazioni sociali - quale quella prefigurata dalla legge delega - risulta non solo anacronistica, ma anche assolutamente divergente dagli orientamenti politico-criminali seguiti dagli ordinamenti a noi più vicini, ed in particolare da quelli degli altri Paesi dell’Unione Europea. In nessun Paese, infatti, la punibilità del falso in bilancio è condizionata dall’esistenza di un concreto danno patrimoniale a scapito dei soci o dei creditori: nella maggior parte dei casi (Germania, Francia, Inghilterra, Austria, Danimarca, Finlandia, ed altri) la condotta falsificatrice è di per sé sola sufficiente ad integrare il reato, senza dover attendere alcun concreto risultato». La patrimonializzazione e la privatizzazione della tutela in materia di false comunicazioni sociali, determinatesi a seguito della riforma, hanno allontanato sempre più queste fattispecie di reato dal concreto ruolo e funzione di tutela che dovrebbero svolgere nell’ordinamento giuridico, a partire dalla veridicità e trasparenza dell’informazione societaria di cui si diceva poc’anzi ed in principio della trattazione, e le hanno avvicinate, semmai, ed in contraddizione con la loro essenza e ratio, più alle fattispecie dei delitti contro il patrimonio mediante frode, di cui al capo II, titolo XIII, libro II c.p., ed in particolare alla truffa (art. 640 c.p.), soprattutto con riferimento agli “artifizi o raggiri, all’induzione in errore, all’ingiusto profitto con altrui danno ed alla procedibilità a querela delle persona offesa (salve le dovute eccezioni: art. 640, u.c., c.p.): tutti elementi che caratterizzano la struttura del reato di truffa.

[105] Cfr. per tutti, PEDRAZZI, voce Società commerciali, in Dig. disc. pen., XIII, 1998, p. 352; MAZZACUVA, Problemi attuali di diritto penale societario. La tutela penale dell’informazione societaria, Milano, 1985.

[106] Corte Cost., 31.03.1994, 197, in www.giurcost.org/decisioni/1994/0117s-94.html; Corte Cost., 19.01.1995, 461, in www.giurcost.org/decisioni/1995/0461s-95.htm.

[108] G.I.P. Trib. Palermo, 20.11.2002, ord., in Guida al diritto, 2002, n. 48, p. 71. Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Palermo ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 2621 e 2622 per violazione dell'art. 117 Cost., poiché non prevedono meccanismi processuali idonei a rendere effettiva la sanzione penale comminata, nonché per violazione degli artt. 10 e 11 Cost., nella parte in cui non prevedono un adeguato mezzo processuale in grado di permettere la celebrazione dei processi entro i termini di prescrizione. Il Tribunale di Milano, 12.02.2003, in Dir. e prat. soc., 2003, 10, p. 76, con nota di CERQUA, ha sollevato, invece, questione di costituzionalità per violazione degli artt. 3, 25, 76 e 117 Cost. relativamente alla previsione delle soglie di punibilità, nonché dell’ulteriore requisito della sensibile alterazione della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene

[109] In tema di decisioni additive in malam partem si ricordi D’AMICO, Relazione introduttiva: ai confini (nazionali e sovranazionali) del favor rei, Atti del seminario, Ferrara, 06.05.2005, in BIN-BRUNELLI-PUGIOTTO-VERONESI, Ai confini del favor rei: il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, Torino, 2005, pp. 1-30. L’Autore criticamente ricorda come seppur nel caso di specie la giurisprudenza costituzionale applica in maniera  rigorosa la concezione dell’art. 25, 2 comma, Cost., escludendo qualsiasi sindacato che comporti modifiche sfavorevoli al reo, in altre occasioni ha messo in crisi la tenuta stessa del principio, intervenendo modificando la norme penale anche attraverso pronunce additive «mascherate»; si pensi alle decisioni in tema di sciopero (31/1969; 290/1974); di aborto (27/1975); di istigazione all’odio tra le classi sociali (108/1974), In questi casi la Corte ha ritenuto rispettato il principio di legalità penale, per il solo fatto che la decisione in qualche modo fosse riduttiva dello spazio di punibilità. In altri casi, invece, la Corte ritagliando la fattispecie penale ha compiuto operazioni di vera e propria riscrittura della norma, con conseguente estensione della fattispecie rispetto all’originario enunciato, come nel caso di bestemmia (440/1995), vera e propria additiva in malam partem, anche se mascherata da una motivazione nella quale la Corte sembrerebbe ribadire i limiti della manipolazione in materia penale. V. MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 123 per quanto riguarda l'inammissibilità di interventi caducatori della Corte costituzionale che determinano effetti in malam partem, ossia, in altri termini, la questione dei limiti della sindacabilità delle cd. norme di favore. L’Autore fa rilevare come tecnicamente ad essere censurata sarebbe una fattispcecie incriminatrice e non una norma di favore; DI MARTINO, Disciplina, cit., p. 115. Sul tema del sindacato di costituzionalità delle norme penali di favore e delle pronunce della Corte Costituzionale con effetti in malam partem, si vedano FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2010, p. 89 e ss.

[110] Corte Cost., ord., 21.03.2004, 195, in http://www.giurcost.org/decisioni/2004/0195o-04.html.

[111] In particolare la Corte d'Appello di Lecce, App. Lecce 12.10.2002, ord., in Guida al diritto, 2002, n. 45, p. 85 con nota di DI MARTINO, Disciplina degli illeciti societari in bilico tra legalità nazionale  e legittimità comunitaria; Cass. pen., 2003, p. 640, con nota di APRILE, Note a margine di una domanda di pronuncia pregiudiziale di interpretazione di norme comunitarie, rivolta dal giudice penale alla Corte di giustizia delle Comunità europee in relazione alla nuova disciplina delle false comunicazioni sociali di cui al d.lgs. n. 61 del 2002;D’AMICO, Il falso in bilancio davanti alla Corte di Giustizia, in Quad. Cost., n. 3/2005, pp. 675-678. La Corte ha rimesso al giudizio della Corte Europea, ai sensi dell'art. 234 (già art. 177) Trattato CE, per violazione degli artt. 44, par. 3, lett. g, Trattato, artt. 2, par. 1, lett. f, e 6, direttiva CEE n. 68/151 e art. 2, par. 2-3-4, direttiva CEE n. 78/660, la fattispecie in esame denunziando la scarsa effettività, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni, la presenza di soglie di punibilità (sia quelle generali, che quella concernente le valutazioni), la necessità che, ai fini della punibilità, sia causata un'alterazione sensibile della situazione della società, il regime di procedibilità, con particolare riferimento al fatto che la querela è proponibile unicamente da soci e creditori e che v'è una ingiustificata differenza, anche dal punto di vista sanzionatorio, tra il delitto e la contravvenzione. Il Tribunale di Milano, Sez. IV, 26.10.2002, ord., in Guida al diritto, 2002, n. 45, p. 97, ha sollecitato l’intervento della Corte Europea sollevando analoga questione, per violazione dei principi contenuti nella direttiva CEE n. 68/151 (ma anche nelle direttive CEE n. 78/660, 83/349, 90/605) in relazione alla previsione di soglie di punibilità, all'ambito di tutela, nonché alla natura ed al tipo di sanzione, sia astrattamente considerata, sia nella sua concreta applicabilità. Si veda, altresì, in proposito, la complessa ordinanza del Tribunale di Torino, 13.01.2003, in Giur. it., 2003, p. 498, che propone alla Corte questioni dai contenuti sostanzialmente analoghi a quelli sino ad ora delineati.

[112] V. infra.

[113] CGCE, sent. 03.05.2005, n. 387, Berlusconi et al., cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02, in Racc., I-3565; in in Cass. pen., 2005, 9, p. 2764, con nota di INSOLERA-MANES.

[114] INSOLERA-MANES, La sentenza della Corte di giustizia sul falso in bilancio: un epilogo deludente?, in Cass. pen., 2005, 9, p. 2798 e ss.

[115] Secondo MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 128, tale soluzione conduce ad una «situazione di assoluta incertezza giuridica, il cui solo dato sicuro è che al giudice ordinario verrebbe consentito di trasformarsi in legislatore, alle scelte già operate da quest’ultimo sostituendo le proprie in nome di una loro presunta rispondenza agli obblighi comunitari»; nello stesso senso SEMINARA, Falso in bilancio, cit., p. 22.

[116] Il richiamo è alla sentenza CGCE, 8.10.1987, C-80/86, Kolpinghius Nijmegen, p. 13 e 07.01.2994, C-60/02, X, p. 61, relativamente all’ipotesi di interpretazione conforme al diritto comunitario in materia penale; nello stesso senso si v. CGCE, 11.06.1987, C -14/86; Pretore di Salò, p. 20; 26.09.1996, C-168/95, Arcaro, p. 37; 12.12.1996, cause riunite C-74/95, X, p. 24.

[117] INSOLERA-MANES, La sentenza della Corte di giustizia sul falso in bilancio: un epilogo deludente?, cit.; BERNARDI, Brevi Osservazioni in margine alla sentenza della corte di giusitzia sul falso in bilancio, Ai confini del favor rei’. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, Atti del Convegno di Ferrara del 06.05.2005, inwww.forumcostituzionale.it. Si deve anche ricordare come la stessa Corte di Lussemburgo, con la sentenza 4.12.1997, proc. C-97/96 e C. Giust. CE, 29.09.1998, proc. C-191/95, aveva condannato la Repubblica federale di Germania in quanto la propria normativa interna (artt. 325 e ss. dell’HGB) prevedeva che l’applicazione di una sanzione per l’omessa pubblicazione del bilancio potesse avvenire solo a seguito della richiesta di un socio, di un creditore, della commissione interna della società (cfr. 335 HGB) e non d’ufficio. Sul punto si v. tra gli altri PEDRAZZI, voce Società commerciali, cit., p. 802.

[118] Vedi nota 87.

[119] V. SCOLETTA, Retroattività in mitius e pronunce di incostituzionalità in malam partem, in BIN-BRUNELLI-PUGIOTTO-VERONESI (a cura di), Ai confini del favor rei’. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, Atti del Convegno di Ferrara del 06.05.2005, Torino, 2006, p. 342-350. L’Autore evidenzia il «lento consolidamento e radicamento [della retroattività favolrevole] nei valori materiali della Costituzione». Contra v. PALAZZO, Corso di diritto penale, Torino, 2005, p. 149 e ss.. L’Autore sottolinea come la Corte Costituzionale (sent. 23.02.1995, 80), abbia escluso dal novero dei principi costituzionali quello della retroattività della legge penale favorevole. Il fondamento di tale forma di retroattività nel principio costituzionale di eguaglianza, con la conseguente possibilità che esso possa andare incontro a deroghe «del tutto legittime costituzionalmente in quanto fondate su interessi o ragioni giustificatrici obiettivamente ragionevoli» (pag. 150).

[120] Sul punto si v. INSOLERA-MANES, La sentenza della Corte di giustizia sul falso in bilancio: un epilogo deludente?, cit. Secondo l’Autore si sacrificherebbe l’effettività e con ciò il primato delle norme comunitarie. In secondo luogo in nome del medesimo principio si sancisce una carenza di tenuta costituzionale, escludendo l’efficacia del controllo di costituzionalità delle norme di favore rispetto a fatti pregressi il rendendo almeno in parte insanabili abusi del legislatore interno.

[121] Cfr. SCOLETTA, Retroattività in mitius e pronunce di incostituzionalità in malam partem, in BIN-BRUNELLI-PUGIOTTO-VERONESI (a cura di), Ai confini del favor rei’. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, Atti del Convegno di Ferrara del 06.05.2005, Torino, 2006, p. 342-350, BERNARDI, Brevi Osservazioni in margine alla sentenza della corte di giustizia sul falso in bilancio, Ai confini del favor rei’. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, Atti del Convegno di Ferrara del 06.05.2005, cit.

[122] INSOLERA-MANES, La sentenza della Corte di giustizia sul falso in bilancio: un epilogo deludente?, cit.

[123] Conclusioni dell’avvocato generale Juliane Kokott, presentate il 14.10.2994 (cause riunite C-287/02, C-391/02 e C 403/02, Berlusconi e altri).

[124] Limitatamente ai fatti commessi prima del varo della riforma del diritto societario.

[125] L’Avvocato generale nelle sue conclusioni (punti 148-149) ha richiamato espressamente le sentenze CGE 25.6.1997, nei procedimenti riuniti C-304/94, C-330/94, C-342/94, C-224/95, Tombesi e al, punto 43, e 11.11.2004, C-457/02, Niselli, punto 30, entrambe concernenti la modifica di un elemento normativo di fattispecie, in materia di disciplina dei rifiuti, che aveva comportato un effetto di circoscrizione della punibilità rispetto all’area di tipicità ritagliata dalla fattispecie precedente - effetto ritenuto incompatibile con la normativa comunitaria  affermando che come in quei casi si trattava di modifica della normativa. Attentamente si v. GUAZZAROTTI, Il “nuovo falso in bilancio” tra diritto comunitario e diritto costituzionale, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2003, pp. 1-4. L’Autore ha evidenziato come l’analogia con i casi Tombesi e Niselli è, in realtà, solo apparente. Tanto il caso CGCE Tombesi che quello della sentenza Corte Cost. 51/1985, riguardano situazioni in cui uno (o più) decreti legge avevano modificato, in bonam partem,una determinata disciplina penale. Tali decreti-legge erano, tuttavia, successivamente decaduti. Il problema che si era posto la Corte di Lussemburgo e la Consulta, non era tanto quello della reminescenza della previgente normativa (essendo i decreti legge decaduti “tamquam non esset” e continuava a vigere la disciplina ad essi precedente), bensì la possibilità che gli effetti favorevoli prodottisi durante la vigenza dei decreti legge potessero o meno applicarsi in un giudizio penale successivo alla loro decadenza, ma vertente su fatti accaduti prima della loro entrata in vigore. E’ in tale contesto che si poneva il dubbio se applicare il principio di retroattività delle norme penali favorevoli, applicabilità poi scartata sia dalla Consulta sia dalla Corte di Giustizia, a causa della precarietà ontologica della disciplina introdotta con lo strumento della decretazione d’urgenza. Bene ricordare come secondo lo stesso GUAZZAROTTI la soluzione non dovrebbe essere rintracciata nella possibile “reviviscenza” della normativa previgente (“vecchio falso in bilancio”), che è preclusa, tanto alla Corte Costituzionale, tanto al giudice a quo, ma attraverso il riespandersi della normativa generale al posto di quella derogatoria viziata.

[126]Corte Cost., 05.06.2007, 197, in http://www.giurcost.org/decisioni/2007/0196o-07.html.

[127] Corte Cost., 03.06.1983, in http://www.giurcost.org/decisioni/1983/0148s-83.html.


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