Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1802 - pubb. 05/08/2009

Revocatoria fallimentare, comunione dei coniugi e litisconsorzio necessario

Cassazione Sez. Un. Civili, 23 Aprile 2009, n. 9660. Est. Fioretti.


Azione revocatoria – Comunione tra i coniugi – Litisconsorzio necessario – Condizioni – Limiti.



Qualora uno dei coniugi, in regime di comunione legale dei beni, abbia da solo acquistato o venduto un bene immobile da ritenersi oggetto della comunione, il coniuge rimasto estraneo alla formazione dell'atto devesi ritenere litisconsorte necessario nelle controversie in cui si chieda al giudice una decisione che incida direttamente ed immediatamente sul diritto, mentre non può ritenersi tale in quelle controversie in cui si chieda una decisione che incida direttamente ed immediatamente sulla validità od efficacia del contratto. Ne consegue che non sussiste un’ipotesi di litisconsorzio necessario nelle cause di revocatoria ex artt. 66 e 67 legge fall., atteso che l'accoglimento dell'azione revocatoria in materia fallimentare in favore del disponente fallito non determina alcun effetto restitutorio nè, tantomeno, un effetto traslativo a favore della massa dei creditori, ma comporta la inefficacia relativa dell'atto rispetto alla massa dei creditori, rendendo il bene trasferito assoggettabile all'esecuzione concorsuale, senza peraltro caducare, ad ogni altro effetto, l'atto di alienazione nei confronti dell'acquirente. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)



omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Fatto

Il Fallimento della Coop. Edilizia "L.N" a r.l., premesso che detta cooperativa aveva assegnato al socio R.U. la piena proprietà superficiaria di parte dell'immobile sito in *, località *, e precisamente un locale ad uso commerciale della superficie di mq. 22, scala *, distinto con il n. *, composto da un solo vano con servizio, riportato in sede di precensimento alla partita *;

che la cooperativa era stata dichiarata fallita già nel *, ma la procedura era stata chiusa per mancanza di passivo con provvedimento del 4.10.89;

che, con verbale del 21.11.89, la cooperativa aveva provveduto a revocare lo stato di liquidazione conseguente al fallimento, deliberando l'assegnazione delle unità abitative ai soci, ottenendo poi la revoca della sentenza dichiarativa di fallimento;

che detta cooperativa era stata nuovamente dichiarata fallita il *; che sussistevano le condizioni per proporre azione revocatoria; tutto ciò premesso citava in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli R.U., chiedendo che fosse dichiarato inefficace e/o revocato l'atto di assegnazione della Cooperativa, la condanna del convenuto al rilascio dell'immobile ed alla restituzione dei frutti e delle rendite percepite.

Instauratosi il contraddittorio, il convenuto, costituendosi in giudizio, impugnava quanto dedotto dall'attore ed eccepiva la inapplicabilità della fattispecie dell'alt. 2901 c.c., stante la previsione della L. Fall., art. 66; chiedeva, pertanto, il rigetto della domanda o, in subordine, in accoglimento della domanda riconvenzionale che spiegava, la condanna dell'attore al pagamento in suo favore della somma di L. 23.800.000, equivalente a quella versata in pagamento, oltre spese del rogito e trascrizione dello stesso ed oltre al risarcimento dei danni, con rivalutazione ed interessi.

Con sentenza del 20.3/4.5.01, il Tribunale di Napoli, ritenuta esperibile l'azione revocatoria ordinaria e sussistenti sia il consilium fraudis che l'eventus damni, dichiarava inefficace l'assegnazione e condannava il R. alla restituzione dell'immobile.

Tale sentenza veniva impugnata dal R. dinanzi alla Corte d'Appello di Napoli.

Lamentava l'appellante la mancanza di motivazione relativamente alla proposta eccezione di inapplicabilità dell'art. 2901 c.c., l'erroneità della pronuncia relativamente alla ritenuta sussistenza delle condizioni richieste da detto articolo, la mancanza di motivazione in ordine al rigetto della domanda riconvenzionale e della richiesta di espletamento di consulenza tecnica. Chiedeva, pertanto, in riforma della impugnata sentenza, il rigetto della domanda o, in via subordinata, l'accoglimento della proposta riconvenzionale. Con la memoria di replica l'appellante eccepiva il difetto di integrità del contraddittorio, per essersi il giudizio di primo grado svolto solo nei suoi confronti e non anche nei confronti della moglie, con la quale si trovava in regime di comunione legale dei beni, come risultava dall'atto di assegnazione dell'immobile summenzionato.

La curatela fallimentare resisteva al gravame, chiedendone il rigetto. Con sentenza 30.10-17.11.2003 la Corte d'appello adita rigettava la impugnazione.

Avverso tale sentenza R.U. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. Il Fallimento L.N. soc. coop. a responsabilità limitata ha resistito con controricorso.

La prima sezione civile, cui è stato assegnato il ricorso, con ordinanza in data 27.5.2008, ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale rimessione del ricorso alle Sezioni Unite per la composizione del rilevato contrasto di giurisprudenza in ordine alla necessità o meno di integrare il contraddittorio nei confronti dell'altro coniuge, rimasto estraneo alla stipulazione del contratto, nelle controversie aventi ad oggetto la revocatoria dell'acquisto di un immobile, compiuto "separatamente" dal coniuge in regime di comunione legale.

Il Primo Presidente ha disposto l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite per la soluzione di detto contrasto. Il Fallimento della Coop. Edilizia "L.N." a r.l. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 102 c.p.c..

Deduce il ricorrente di avere eccepito, con la memoria di replica a comparsa conclusionale, depositata nel giudizio di 2^ grado, la nullità dell'intero giudizio di primo grado per difetto di integrità del contraddittorio, non essendo stata convenuta in giudizio la di lui moglie D.R.M..

Questa avrebbe dovuto essere convenuta nel presente giudizio, essendo il regime patrimoniale della famiglia costituito dalla comunione legale dei beni, circostanza questa risultante dall'art. 11 dell'atto di assegnazione, per cui è causa, contenente la dichiarazione del R. di essere coniugato in regime di comunione legale dei beni.

La Corte d'Appello aveva rigettato l'eccezione richiamando un orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, espresso dalla sentenza n. 13941 del 1999, secondo cui nelle controversie che abbiano ad oggetto la validità o l'efficacia del titolo dell'acquisto di un bene, compiuto "separatamente" dal coniuge in regime di comunione legale, l'altro coniuge, rimasto estraneo alla formazione dell'atto e non intestatario del bene, non è litisconsorte necessario, giacché l'inclusione del bene della comunione costituisce un effetto "ope legis" dell'acquisto compiuto.

Nel seguire tale orientamento giurisprudenziale, la Corte d'Appello non avrebbe considerato che la Corte Suprema di Cassazione aveva espresso in altre sentenze un orientamento di segno contrario, avendo ritenuto necessaria la integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge, in comunione legale dei beni, rimasto estraneo alla formazione dell'atto.

In particolare ha richiamato i precedenti giurisprudenziali n. 5191/2002 in materia di esecuzione in forma specifica del preliminare di compravendita; n. 7404/2003 in materia di retratto successorio; n. 5895/1997 in materia di riscatto di fondi rustici.

Il fallimento resistente ha confutato la fondatezza della censura, assumendo la correttezza della tesi seguita dalla Corte di merito, essendo conforme a decisioni di segno contrario a quelle citate nel ricorso (Cass. n. 2983/1991, n. 11428/1992, n. 11773/1992, n. 13941/1999, n. 1904/2000, n. 24031/2004) e la non pertinenza dei principi evocati da controparte, essendo riferibili a fattispecie non omologabili alla ipotesi in discussione.

Il collegio osserva che, come evidenziato nella surrichiamata ordinanza n. 20709 del 27.5 - 30.7.2007 della prima sezione civile e come risulta dalle contrapposte posizioni delle parti in causa, ciascuna delle quali fa leva su un diverso orientamento giurisprudenziale, in alcune sentenze si è ritenuta la necessità della integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge rimasto estraneo alla formazione dell'atto, mentre in altre la si è negata.

In particolare in controversie in materia di revocatoria dell'atto di acquisto di un bene immobile, posto in essere da uno solo dei coniugi in regime di comunione legale dei beni, la sentenza n. 24051 del 2006 ha escluso la necessità della integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge rimasto estraneo alla formazione dell'atto, rilevando in sintesi che l'azione revocatoria è diretta ad ottenere la declaratoria di inefficacia dell'atto di disposizione (non è quindi un'azione reale diretta ad incidere sulla titolarità dell'acquisto del bene); che, conseguentemente, legittimato passivo è solo chi ha partecipato alla formazione dell'atto, mentre il coniuge rimasto estraneo, non può considerarsi parte del negozio per il solo fatto che è divenuto acquirente del bene "ope legis", in virtù del regime patrimoniale di comunione legale; che in caso di accoglimento della domanda costui non potrebbe impedirne gli effetti, poiché la pronuncia sarebbe destinata a travolgere l'atto nella sua interezza e non solo per la porzione spettante in proprietà all'effettivo contraente, unico intestatario del bene e parte in giudizio.

Per contro la sentenza n. 12313 del 2004 ha ritenuto la necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge, in comunione legale, rimasto estraneo alla formazione dell'atto, osservando che, ancorché non abbia partecipato alla stipulazione del contratto, costui deve ritenersi litisconsorte necessario, giacché la richiesta pronuncia di inefficacia dell'atto è destinata ad incidere necessariamente e direttamente anche sul diritto del coniuge comproprietario non stipulante, essendo ininfluente la natura personale e non reale dell'azione revocatoria, posto che, ai fini del litisconsorzio, rileva esclusivamente, ed è pertanto sufficiente, la qualità dell'unitario rapporto originato dall'atto dedotto in giudizio, senz'altro presente nella specie, posto che nella comunione legale (la quale, a differenza della comunione ordinaria, è una comunione senza quote) i coniugi non solo sono solidalmente titolari del diritto sul bene oggetto del contratto d'acquisto, ma condividono entrambi (anche, perciò, chi non è parte dell'atto d'acquisto) il medesimo titolo d'acquisto.

Tale motivo di ricorso è infondato.

Il motivo di ricorso richiede a questa Suprema Corte di dare risposta al quesito: se una domanda giudiziale relativa ad un atto dispositivo concernente un bene immobile, compiuto per iniziativa esclusiva di uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni, possa essere proposta nei confronti del solo coniuge che ha partecipato alla conclusione dell'atto o debba essere proposta anche nei confronti del coniuge pretermesso e, qualora sia stata proposta nei confronti di uno soltanto dei coniugi, quello che è stato parte del contratto, se debba essere ordinata la integrazione del contraddittorio nei confronti dell'altro coniuge ai sensi dell'art. 102 c.p.c..

La soluzione del problema richiede innanzi tutto di stabilire quale sia la natura giuridica dell'atto di assegnazione al socio dell'immobile realizzato da una cooperativa edilizia. Secondo l'insegnamento di questa Suprema Corte, che il collegio ritiene di poter condividere, l'assegnazione in favore del socio dell'alloggio realizzato da una società cooperativa edilizia è, al pari di una compravendita, un contratto ad effetti reali, che si perfeziona con il consenso delle parti e che determina il trasferimento all'acquirente della proprietà del bene immobile che ne è oggetto (cfr. in tal senso: Cass. n. 6016 del 2003; Cass. n. 5724 del 2004;

Cass. n. 7646 del 2007, nelle quali viene chiarito che il socio di una cooperativa, beneficiario del servizio mutualistico reso da quest'ultima, è parte di due distinti (anche se collegati) rapporti (che non vanno, peraltro, sovrapposti, attesane la diversa natura giuridica e la non assoluta omogeneità della relativa disciplina), l'uno di carattere associativo, che direttamente discende dall'adesione al contratto sociale e dalla conseguente acquisizione della qualità di socio, l'altro (per lo più di natura sinallagmatica), che deriva dal contratto bilaterale di scambio per effetto del quale egli si appropria del bene o del servizio resogli;

che in particolare nelle cooperative edilizie l'acquisto, da parte dei soci, della proprietà dell'alloggio, per la cui realizzazione l'ente sia stato costituito, passa attraverso la stipulazione di un contratto di scambio - la cui causa è del tutto omogenea a quella della compravendita -, in relazione al quale la cooperativa assume la veste di alienante ed il socio quella di acquirente).

Per un esatto inquadramento del problema appare necessario anche chiarire quale è il regime giuridico dei negozi concernenti l'alienazione di beni immobili comuni compiuti da uno soltanto dei coniugi in comunione dei beni e quale quello degli acquisti, atteso che le cause proposte contro i coniugi possono riguardare tanto gli atti di alienazione che gli acquisti.

Per quanto riguarda i negozi di alienazione vengono in considerazione l'art. 180 c.c. ed il successivo art. 184 c.c..

L'art. 180 c.c., dispone, al primo comma, che l'amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano disgiuntamente ad entrambi i coniugi; al comma 2 che il compimento degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi.

L'art. 184 c.c., dispone, per quanto riguarda i beni immobili (ed i beni mobili registrati), che gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell'altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili e che detta azione può essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell'atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione.

La Corte Costituzionale, investita del vaglio di costituzionalità dell'art. 184 c.c., con la sentenza n. 311 del 1988 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale di detta norma.

Nell'adottare tale decisione la Corte ha chiarito che la comunione legale è una comunione senza quote e che, pertanto, i coniugi, diversamente da quanto riscontrabile nella comunione ordinaria, non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione; che conseguentemente nei rapporti con i terzi (non essendo la quota un elemento strutturale della comunione, ma avendo soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari, la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione ed, infine la proporzione in cui, sciolta la comunione, l'attivo e il passivo saranno ripartiti tra i coniugi ed i loro eredi) ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione: che il consenso dell'altro coniuge. richiesto dal modulo dell'amministrazione congiuntiva adottato dall'art. 180 c.c., comma 2, per gli atti di straordinaria amministrazione è un negozio (unilaterale) autorizzati vo, da intendersi nel senso che rimuove un limite all'esercizio di un potere, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio; che il negozio posto in essere da uno dei coniugi senza il consenso dell'altro coniuge non è, quindi, un caso di acquisto da un alienante non legittimato e, pertanto, inefficace, ma un caso di acquisto a domino in base ad un titolo viziato.

In sintesi l'atto di alienazione di un immobile posto in essere da uno solo dei contitolari è un negozio efficace e sottoposto alla semplice sanzione di annullabilità per iniziativa del contitolare pretermesso.

Appare opportuno chiarire sin d'ora, rilevando al fine di risolvere la questione sottoposta all'esame della Corte, che detta tutela non potrebbe essere esperita vittoriosamente dal coniuge rimasto estraneo alla conclusione del negozio giuridico: nell'ipotesi in cui i coniugi siano stati d'accordo per il compimento del negozio di alienazione del bene da parte di uno soltanto degli stessi, essendo in tal caso, con l'intervenuto accordo, rimosso il "limite all'esercizio di un potere "costituito dalla mancanza "del necessario consenso dell'altro coniuge"; nella ipotesi del semplice silenzio del coniuge, consapevole della vendita decisa dall'altro, atteso che, come osservato da autorevole dottrina, tale silenzio può valere quale tacita approvazione dell'atto; qualora, avuta conoscenza dell'atto, il coniuge pretermesso ha lasciato trascorrere, senza agire in giudizio, il termine di prescrizione per proporre l'azione di annullamento, dovendosi ricavare da tale comportamento la implicita approvazione dell'operato dell'altro coniuge; qualora sia intervenuta convalida dell'atto.

La disciplina di cui sopra, che trova applicazione per gli atti di alienazione, non è applicabile anche ai negozi di acquisto della proprietà (o di diritti reali); tali negozi, come ritenuto dalla prevalente dottrina, che il collegio condivide, sono infatti estranei all'ambito della amministrazione e delle norme che la governano.

La dottrina fonda tale convincimento sulle seguenti plausibili considerazioni:

L'art. 180 c.c., riguarda la "amministrazione dei beni della comunione", espressione questa che fa pensare a beni già inclusi nel patrimonio e non all'acquisizione di beni alla comunione; l'art. 177 c.c., comma 1, lett. a), nello stabilire che costituiscono oggetto della comunione gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio descrive un meccanismo in virtù del quale la comunicazione dell'acquisto al coniuge dell'acquirente rimasto estraneo all'atto è descritto come effetto non condizionato da alcun concorso, implicito o esplicito, della volontà di quest'ultimo; in virtù di tale meccanismo si verifica la immediata ed automatica estensione ex lege degli acquisti al coniuge in comunione con l'acquirente.

Pertanto, sul versante degli acquisti di beni immobili, vengono in considerazione l'art. 177 c.c. e l'art. 179 c.c., il quale ultimo indica le caratteristiche che deve avere l'acquisto, attinenti al titolo o alla natura del bene, perché il bene acquistato dai due coniugi insieme o separatamente non entri a far parte della comunione.

In sintesi, per quanto riguarda gli acquisti, in virtù del relativo contratto, stipulato da un solo coniuge, sorge direttamente la con titolarità del bene in capo al coniuge rimasto estraneo all'atto - in quanto beneficiario ex lege degli effetti reali del negozio - pur non essendosi instaurato alcun rapporto contrattuale con il terzo.

Fatte queste necessarie premesse sistematiche e, passando all'esame della giurisprudenza, il collegio osserva.

Con la sentenza n. 17952 del 1997, che si colloca sul versante degli atti di alienazione, le sezioni unite di questa Suprema Corte, in una causa promossa, ex art. 2932 c.c., dal promissario acquirente per l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto preliminare di vendita di bene immobile in regime di comunione legale, stipulato da uno solo dei coniugi, hanno affermato che il coniuge rimasto estraneo al preliminare di compravendita ha la veste di litisconsorte necessario e che, quindi, deve essere convenuto in giudizio unitamente al coniuge stipulante.

Le sezioni unite sono pervenute a tale conclusione osservando che anche se il contratto preliminare ha efficacia obbligatoria, allo stesso non si può non riconoscere carattere pregiudizievole, in quanto potenzialmente idoneo ad incidere sulla consistenza del patrimonio comune, atteso che "si pone quale momento originario di una serie obbligatoria consequenziale e successiva, il cui esito finale necessitato è il trasferimento della proprietà del bene promesso in vendita"; tale esito finale del contratto preliminare lo collocherebbe tra gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, che, conseguentemente le azioni, che da esso traggono origine, vanno proposte nei confronti di entrambi i coniugi, per il disposto dell'art. 180 c.c., comma 2, stabilendo tale norma che le azioni, che riguardano gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi.

Con la sentenza n. 5895 del 1997, che si pone sul versante degli acquisti, le sezioni unite di questa Corte - in una causa promossa, al fine di ottenere il riconoscimento del diritto di prelazione, dal proprietario e coltivatore diretto di un fondo rustico nei confronti dell'acquirente, in regime di comunione legale dei beni, di un fondo confinante, venduto dal proprietario senza notificargli la relativa proposta, al fine di consentirgli l'esercizio del diritto di prelazione - hanno ritenuto che il coniuge rimasto estraneo alla conclusione dell'atto di compravendita ha la veste di litisconsorte necessario, per cui l'azione di riscatto deve essere esercitata nei confronti di entrambi i coniugi.

Le sezioni unite sono pervenute a tale conclusione attraverso il seguente percorso argomentativo, osservando: che l'esercizio del diritto di riscatto agrario, da parte del titolare della prelazione che non sia stato posto in grado di farla valere, ha come effetto la sostituzione, con effetto ex tunc, del titolare del diritto di prelazione al terzo, sulla base della propria dichiarazione unilaterale e recettizia, sia pure subordinata all'effettivo pagamento del prezzo od alla sua offerta reale; che nel regime di comunione legale tra coniugi l'acquisto del coniuge, che non ha partecipato alla conclusione del contratto, si verifica ipso iure al momento della stipula, determinando una situazione unitaria, sulla quale tende ad incidere l'esercizio del riscatto.

Dopo essere pervenuta a tale conclusione le Corte ritiene di dovere rispondere ad una obiezione con un passaggio motivazionale, che appare opportuno riportare letteralmente, contenendo osservazioni di particolare importanza per il problema che la Corte è chiamata a risolvere nel presente giudizio.

Si legge testualmente nella sentenza in parola: "Alla conclusione (di cui sopra) non può obbiettarsi che il bene rientra nella comunione solo in quanto l'acquisto derivi da un titolo valido ed efficace. La tesi sembra trovare conforto nelle decisioni con le quali questa Corte ha escluso il litisconsorzio nei giudizi di simulazione (Cass. 17 ottobre 1992, n. 11.428) e, più in generale, in quelli relativi alla validità del contratto (Cass. 29 ottobre 1992, n. 11773) (apparentemente in contrasto con quelle che lo impongono nell'analoga fattispecie del riscatto di cui alla L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 39).

In proposito si rendono necessarie alcune precisazioni. E' stato pressoché costantemente rilevato come il termine "acquisti", adottato dal legislatore nell'art. 177 c.c., sia per sé equivoco ed impreciso, involgendo due distinti profili: uno dinamico, costituito dal negozio che ha determinato l'incremento patrimoniale, di cui è parte esclusivamente il coniuge contraente, l'altro statico, costituito dal risultato di quel negozio, dall'effetto legale che ne deriva, e cioè dal rapporto di comproprietà tra i coniugi su un determinato bene. Da ciò consegue che mentre il litisconsorzio può escludersi per quelle azioni che concernono esclusivamente il contratto (simulazione, validità, ecc.), la sua esigenza va affermata allorché l'azione esercitata incida direttamente ed immediatamente sul diritto".

E' appena il caso di rilevare che in entrambe le riportate sentenze delle sezioni unite l'oggetto della domanda è costituito non dall'atto, ma dal diritto che ne è scaturito.

La soluzione della questione sottoposta all'esame della Corte richiede, ancora, una ulteriore precisazione.

L'art. 180 c.c., comma 2, che come detto prevede che le azioni concernenti atti eccedenti l'ordinaria amministrazione "spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi", non trova applicazione, per le ragioni sopra esposte, qualora detti atti consistano in atti di acquisto (in tal senso si è già espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17216 del 2003).

Il collegio ritiene, comunque, che tale disposizione non contenga la previsione espressa di una ipotesi di litisconsorzio necessario neppure nella ipotesi in cui l'atto eccedente l'ordinaria amministrazione consista in un negozio di alienazione di un bene immobile e venga in considerazione in un giudizio promosso nei confronti del coniuge, che abbia concluso l'atto senza la partecipazione alla conclusione del negozio dell'altro coniuge.

L'art. 180 c.c., istituisce una stretta relazione a seconda che si tratti di atti di ordinaria o di atti eccedenti l'ordinaria amministrazione con la rappresentanza in giudizio, disponendo, in relazione ai primi, che tale rappresentanza spetta disgiuntamente ad entrambi i coniugi ed, in relazione agli altri, che spetta congiuntamente ad entrambi i coniugi.

Tale disposizione va letta in relazione all'art. 184 c.c. e, quindi, si riferisce certamente alla ipotesi in cui un atto eccedente l'ordinaria amministrazione sia stato compiuto da entrambi i coniugi, ma non consente di ritenere che entrambi i coniugi debbano essere convenuti in giudizio, quando l'atto eccedente la ordinaria amministrazione è costituito da un negozio di alienazione di un bene immobile, che sia stato stipulato da uno soltanto dei coniugi, atteso che tale atto, atteso il disposto del citato art. 184 c.c., non si configura, come suddetto, come atto del tutto inefficace (perché posto in essere da un alienante non legittimato), ma come un acquisto a domino, seppur viziato, e suscettibile, quindi, di essere annullato per mancanza del (necessario) consenso (inteso nel senso indicato dalla Corte Costituzionale) dell'altro coniuge.

In tal caso, mancando una espressa previsione di legge, al fine di stabilire se si è in presenza o meno di una ipotesi di litisconsorzio necessario, occorre stabilire quale sia l'oggetto del giudizio.

Questa Suprema Corte ha, infatti, più volte affermato che il litisconsorzio necessario ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere necessariamente decisa, alla stregua di un accertamento da effettuarsi sulla base del "petitum" (e cioè in base al risultato perseguito in giudizio dall'attore), in maniera unitaria nei confronti di ogni soggetto che ne sia partecipe, onde non privare la decisione dell'utilità connessa all'esperimento dell'azione proposta (cfr. per tutte: Cass. n. 1940 del 2004).

Siccome il sistema della comunione legale ammette, come sopra si è chiarito, una potenziale non coincidenza di piani tra la posizione di destinatario degli effetti giuridici acquisitivi o dispositivi e la qualità di parte del fenomeno negoziale, per stabilire se, nell'ipotesi in cui l'atto acquisitivo o l'atto di alienazione sia stata concluso da uno solo dei coniugi, sia necessaria o meno l'integrazione del contraddittorio, devesi valutare se la decisione richiesta dal terzo incida direttamente sull'atto oppure sul rapporto.

L'art. 1376 c.c., nel disciplinare la figura di contratto ad effetti reali, dispone che nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono o si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato.

In base a tale disposizione vanno distinti due piani: il piano relativo alla formazione dell'atto e quello relativo al rapporto, di cui l'atto è fonte.

L'esistenza o meno dei requisiti di validità e delle condizioni e limiti di efficacia sono questioni che riguardano l'atto e la domanda rivolta al giudice non può essere che una pronuncia di invalidità o di inefficacia dell'atto, anche se poi una decisione di questo tipo finisce per incidere sul rapporto.

Se pertanto oggetto del giudizio è l'atto, i soggetti legittimati a partecipare al giudizio vanno individuati in base al contenuto dell'atto stesso, e, quindi, nei soggetti che hanno partecipato alla conclusione del contratto di alienazione del bene immobile, anche se questo abbia generato un rapporto, di cui è diventato contitolare, come si verifica nell'ipotesi di comunione legale, anche un soggetto rimasto estraneo a detto contratto.

Tale soggetto non può ritenersi litisconsorte necessario in un giudizio diretto ad ottenere la dichiarazione di nullità o l'annullamento o la dichiarazione di inefficacia dell'atto solo perché in virtù degli effetti dell'atto stesso è divenuto parte di un rapporto (vale a dire di una situazione comune esterna all'atto), che resta pur sempre condizionato, quanto alla sua nascita ed alla sua conservazione da parte di detto acquirente, dalla esistenza o meno dei requisiti di validità e dalla condizioni o dai limiti di efficacia di un atto al quale lo stesso è rimasto estraneo o perché l'acquisto alla comunione del bene immobile, effettuato da uno solo dei coniugi, costituisce un effetto legale del negozio o perché il negozio di alienazione del bene immobile è stato concluso con l'acquirente da uno solo dei coniugi a seguito di un accordo interno con l'altro coniuge o con l'implicito consenso di questo desumibile dal mancato esercizio nei termini di legge dell'azione di cui all'art. 184 c.c..

Conclusivamente il collegio ritiene che una situazione o meno di litisconsorzio necessario vada individuata applicando il seguente principio e che, quindi, in base a tale principio debba essere risolto il prospettato contrasto in tema di azione revocatoria:" Qualora uno dei coniugi, in regime di comunione legale dei beni, abbia da solo acquistato o venduto un bene immobile da ritenersi oggetto della comunione, il coniuge rimasto estraneo alla formazione dell'atto devesi ritenere litisconsorte necessario nelle controversie in cui si chieda al giudice una decisione, che incida direttamente ed immediatamente sul diritto, mentre non può ritenersi tale in quelle controversie in cui si chieda una decisione che incida direttamente ed immediatamente sulla validità od efficacia del contratto".

Facendo applicazione di tale principio nel presente giudizio, devesi pervenire alla conclusione che, nel caso di specie, non sussiste un ipotesi di litisconsorzio necessario, atteso che l'accoglimento dell'azione revocatoria in materia fallimentare (sia che venga esperita ai sensi dell'art. 66 sia che venga esperita ai sensi della L.Fall., art. 67) in favore del disponente fallito non determina alcun effetto restitutorio né  tantomeno, un effetto traslativo a favore della massa dei creditori, ma comporta la inefficacia relativa dell'atto rispetto alla massa dei creditori, rendendo il bene trasferito assoggettabile all'esecuzione concorsuale, senza peraltro caducare, ad ogni altro effetto, l'atto di alienazione nei confronti dell'acquirente (cfr. in tal senso, tra le varie: Cass. n. 18573 del 2004; Cass. n. 17590 del 2005).

In sintesi non è configurabile nel caso di specie una ipotesi di litisconsorzio necessario, perché la decisione favorevole dell'azione revocatoria (in cui non si controverte, come giustamente osserva il resistente, sull'acquisto della titolarità del bene, ma piuttosto sulla opponibilità del negozio, in quanto tale, ai creditori) non viene ad incidere direttamente ed immediatamente sulla contitolarità del diritto di proprietà dei coniugi, ma direttamente ed immediatamente sull'efficacia dell'atto.

Anche il secondo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 2901 c.c. e conseguente carente e contraddittoria motivazione sulla esistenza del consilium fraudis, è infondato.

Si legge sul punto nella sentenza impugnata: "In quanto concerne, poi, il consilium fraudis, va osservato che quello che occorre è la consapevolezza del pregiudizio che, mediante l'atto di disposizione, sia in concreto arrecato alle ragioni del creditore, consapevolezza la cui prova può essere fornita anche mediante presunzioni.

Tenuto conto della qualità di socio rivestita dal R. deve ritenersi che lo stesso fosse a conoscenza o avesse comunque la possibilità di conoscere le vicende della cooperativa, in particolare la già precedentemente intervenuta dichiarazione di fallimento con collegato stato di liquidazione, nonché l'esistenza di ulteriori situazioni debitorie palesate nel corso di un'assemblea dei soci, come risulta dalla sentenza n. 3840/97 del Tribunale di Napoli, prodotta nel presente giudizio.

Né quanto detto può essere inficiato nella sua validità dalla circostanza, addotta dall'appellante, di non avere avuto nessuna conoscenza della situazione della cooperativa per avere acquistato la qualità di socio solo poco prima di ottenere l'assegnazione e proprio al fine del conseguimento della proprietà dell'immobile; a parte che nessuna prova è stata in proposito fornita, non può non rilevarsi che quello che rileva nella fattispecie non è l'effettiva conoscenza, ma la conoscibilità del pregiudizio arrecato, conoscibilità che indubbiamente deve ritenersi sussistente, avendo l'appellante avuto la possibilità, una volta divenuto socio, di apprendere tutte le vicende della cooperativa e di avere visione dei verbali delle assemblee dei soci.

Alla luce di quanto detto, non v'è chi non veda la superfluità della richiesta consulenza tecnica, in quanto diretta ad accertare, attraverso la congruità del prezzo pagato, l'insussistenza della conoscenza del pregiudizio arrecato ai creditori, insussistenza che risulta già esclusa dalle considerazioni svolte, non senza rilevare che la consulenza tecnica non costituisce un mezzo di prova e non può essere invocata per sottrarsi all'onere probatorio posto a carico della parte".

Con il motivo di ricorso in esame il ricorrente non fa altro che reiterare censure cui la Corte di merito ha già risposto con la surriportata motivazione, che appare del tutto adeguata ed immune da vizi logico - giuridici.

Pertanto le addotte censure, in parte fondate anche sul richiamo di atti il cui contenuto non viene riportato nel ricorso, al fine di garantirne l'autosufficienza, nascondono sotto la denuncia del vizio di violazione di legge e del vizio di difetto di motivazione lo scopo di ottenere una rivalutazione del merito della controversia, inammissibile in sede di legittimità.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia omessa decisione e/o motivazione sul motivo di gravame relativo al pagamento delle spese del primo grado di giudizio e conseguente violazione dell'art. 112 c.p.c., per non aver la Corte pronunciato sul motivo di appello, con il quale si censurava la condanna al pagamento integrale delle spese del giudizio di primo grado nonostante la sussistenza di una soccombenza parziale.

Il controricorrente nega che vi sia stata soccombenza parziale, atteso che le domande riconvenzionali del R. sono state entrambe rigettate, mentre è stata accolta la azione revocatoria del fallimento, anche se non è stata accolta la ben più modesta domanda di restituzione dei frutti e delle rendite percepite.

In tale situazione non può fondatamente ritenersi che ricorra una ipotesi di soccombenza parziale che autorizzi il giudice a ridurre la condanna alle spese a carico del soccombente, atteso che il ricorrente, con riferimento alle domande da lui proposte, è rimasto totalmente soccombente.

Pertanto anche detto ultimo motivo deve ritenersi infondato.

Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto con la compensazione delle spese del giudizio di legittimità, dato il contrasto giurisprudenziale esistente sulla questione di cui al primo motivo di ricorso.

P.Q.M.

La Corte:

Rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 17 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2009


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