Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23972 - pubb. 11/01/2020

Assoggettabilità al fallimento di una società irregolare

Cassazione civile, sez. I, 08 Settembre 2003, n. 13070. Pres. Losavio. Est. Plenteda.


Fallimento - Società e consorzi - Società irregolare - Termine per la dichiarazione di fallimento - "Dies ad quem" - Momento della esteriorizzazione della cessazione dell'attività sociale



La assoggettabilità al fallimento di una società irregolare dura sino a quando le vicende estintive della società stessa non si siano esteriorizzate, a nulla rilevando la interruzione o cessazione dell'attività commerciale svolta. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


Fatto

Il 25.5.1993 il Tribunale di Lamezia Terme dichiarò il fallimento della società di fatto tra i coniugi M. G. e P. M. A. e quello dei singoli soci, i quali proposero opposizione chiedendone la revoca, sia perché analoga istanza della Banca Nazionale del Lavoro, creditrice ricorrente, era stata in passato respinta, per essere l'attività cessata da oltre un anno, sia perché la società non era mai esistita.

Si costituirono i convenuti, resistendo nel merito, nonché il curatore del fallimento, che dedusse la inammissibilità della opposizione, perché tardiva.

Il tribunale respinse la opposizione con sentenza 5.3.1998, che fu gravata da appello da parte dei coniugi M., i quali lamentarono che la decisione si fosse fondata esclusivamente su una dichiarazione prodotta dalla Banca ricorrente per fallimento, disconosciuta da essi falliti; che l'attività di impresa era cessata da oltre un anno, come ritenuto dallo stesso tribunale cinque anni prima; che essi vivevano da tempo separati, avendo il M. creato un altra famiglia e che comunque all'impresa, di cui titolare esclusiva era stata la moglie, il M. aveva prestato solo fideiussioni in favore della banca predetta.

Nella contumacia della curatela fallimentare, la Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza 6.X.2000, ha respinto l'appello, ritenendo la esistenza della società, sulla base di molteplici elementi, quali la qualifica di commerciante che il M. si era attribuito - pur svolgendo la professione di infermiere - in un documento prodotto dalla B.N.L.; la sistematicità degli interventi economici in favore della moglie; la richiesta di quest'ultima di apertura di credito con la indicazione degli immobili propri e del marito; la disponibilità di costui a concedere all'Istituto di credito garanzia ipotecaria su un suo immobile, le sollecitazioni scritte del medesimo alla banca a soprassedere alle iniziative di recupero nei confronti della impresa della P., essendo prossimo un intervento dell'Isveimer diretto al risanamento dell'azienda, nonché ritenendo che l'attività di impresa era proseguita anche dopo la separazione personale omologata nel febbraio 1986.

Ricorrono per cassazione con due motivi M. G. e P. M. A.; resiste con controricorso la B.N.L..

 

Diritto

Con il primo motivo denunziano i ricorrenti la violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 147 L.F.

Lamentano che la corte territoriale abbia omesso di dare applicazione alla decisione 21.7.2000 n. 319 della Corte costituzionale, dichiarativa di incostituzionalità degli artt. 10 e 147 L.F. " nella parte in cui dette norme prevedevano che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita potesse essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento della perdita per qualsiasi causa della responsabilità illimitata".

Assumono che era risultata pacifica la cessazione dell'attività commerciale in data 14.X.1986, affermata peraltro dallo stesso Tribunale di Lamezia Terme cinque anni prima della sentenza dichiarativa, allorché era stata respinta altra istanza di fallimento dell'istituto di credito.

Con il secondo denunziano la omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, sia in ordine alla cessazione dell'attività, sia in ordine alla valutazione della prova testimoniale, mentre sopravvalutati sarebbero stati gli elementi addotti dall'istituto di credito.

Deducono che i primi giudici avevano rifiutato la applicazione dell'art. 10 L.F., in considerazione del fatto che la società si estingue con la integrale definizione dei debiti e crediti e di ogni altro rapporto giuridico in capo ad essa, e che la decisione era stata oggetto di specifico motivo di appello, sul quale la corte di merito aveva omesso di pronunziare.

Lamentano, inoltre, che la sentenza impugnata abbia omesso di apprezzare che titolare della impresa era stata solo la P., mentre il marito aveva prestato garanzia, come la stessa banca in anni precedenti aveva riconosciuto; che la loro separazione era stata reale e che era del tutto mancata la affectio societatis.

I motivi vanno esaminati invertendo l'ordine della loro proposizione, logicamente prioritaria appalesandosi la censura che investe la motivazione sulla esistenza della società di fatto e sulla sua cessazione, rispetto alla denunzia della violazione di norme fallimentari che attengono alla estinzione dell'ente collettivo.

Entrambi sono palesemente infondati.

Quanto alla omissione od insufficienza di motivazione, la doglianza risultata gratuita, a fronte delle ragioni esposte nella sentenza impugnata.

Essa, dopo avere richiamato, mostrando di condividere, quanto il primo giudice aveva rilevato in ordine alla esistenza della società - e cioè la qualifica di commerciante che il M. si era attribuito in un documento della Banca ricorrente per fallimento, in cui egli veniva indicato come socio; la sistematicità dei suoi interventi in favore della moglie titolare apparente dell'impresa, attraverso la prestazione di fideiussioni; la dichiarata disponibilità a garantire le esposizioni della ditta mediante iscrizione ipotecaria su un suo immobile; i numerosi avalli per assegni emessi dalla moglie, prima e dopo la separazione personale; la richiesta di fido bancario della P., con la indicazione egli immobili del marito oltreché di quelli propri: circostanze tutte non controverse in punto di fatto - ha considerato che anche dopo la omologazione della separazione in data 24.2.1986 il M. aveva continuato ad occuparsi dell'azienda, come era accaduto nell'ottobre 1986, allorché, riportandosi a precedenti sue trattative con funzionari della banca ricorrente, aveva rinnovato la richiesta di soprassedere da azioni legali contro l'impresa "P. M. A." per le possibilità di risanamento che l'intervento sperato di Isveimer avrebbe consentito.

Tali elementi consentono ampiamente di identificare il procedimento logico - giuridico posto a base della decisione e rendono comprensibile la ratio decidendi, sia con riguardo alla esistenza della società, sia con riguardo alla sua prosecuzione oltre la separazione personale, e, implicando valutazioni di fatto, si sottraggono al sindacato di legittimità.

Del pari ingiustificata è la prima censura, della quale sarebbe persino superfluo l'esame, se, come la corte di merito ha accertato, la cessazione dell'attività di impresa non fosse risultata da alcun atto, avendo il giudice di appello, come già aveva fatto il primo giudice, disatteso la " deduzione circa una pur adombrata forma di giudicato", in relazione al precedente rigetto da parte del tribunale di altra istanza di fallimento, per la supposta cessazione dell'attività.

L'assunto dei ricorrenti, che l'attività commerciale si sia conclusa il 14.X.1986 - esattamente il giorno dopo che il M. aveva inviato all'Istituto di credito la richiesta di soprassedere da azioni legali - al di là di quanto eccepito dalla controricorrente, circa la sua novità, è meramente apodittico, una volta che la richiamata decisione del tribunale risulti priva di giudicato. senza pregio è, comunque, il profilo della denunziata violazione degli artt. 10 e 147 L. F., alla stregua della pronunzia di incostituzionalità n. 319-2000.

Tale decisione ha, infatti, ravvisato il contrasto dell'art. 10 con l'art. 3 della Costituzione, laddove lasciava permanere, in violazione del principio di ragionevolezza, la esposizione al fallimento della impresa collettiva, pur dopo la sua cancellazione dal registro delle imprese.

Ma tale evento nella specie è mancato, trattandosi di società irregolare, mai iscritta in quel registro, sicché non può trovare applicazione l'art. 10 L.F., la cui illegittimità. costituzionale è stata dichiarata "nella parte in cui non prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell'esercizio dell'impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese" (C.

Cost. 319-2000).

Nè la portata della norma è suscettibile di essere estesa sino ad eccedere la sua stessa ratio, che è quella di rendere non più fallibile una entità giuridico - economica che sia cessata, come soggetto di diritti, in ossequio al principio di certezza delle situazioni giuridiche.

Mentre, infatti, la cessazione della impresa individuale coincide con il venir meno della sua attività, essendo essa, in quanto organizzazione diretta a produrre beni o servizi, a farla venire ad esistenza, sicché è sul principio di effettività che si fonda la verifica del momento iniziale del termine previsto dall'art. 10, per l'impresa collettiva societaria la cessazione della attività di impresa, in quanto volta alla produzione in concreto di beni o servizi, non corrisponde alla estinzione dell'organismo societario, ma la precede; come l'inizio dell'attività produttiva raramente coincide con la costituzione della società (Cass. 4.11.1994 n. 9084), ma spesso la segue.

Ne deriva che se un termine, per il principio di certezza delle situazioni giuridiche, ha ragione di essere concepito anche per la società commerciali (come affermato e ribadito dal giudice delle leggi sent. 66-1999; 319-2000), il suo momento iniziale, per le società regolari ravvisato nella cancellazione dal registro delle imprese, posto a tutela dell'affidamento dei terzi, per le società non iscritte (irregolari, di fatto, occulte) non può che coincidere, proprio per la tutela di quell'affidamento incolpevole, con quello in cui esse rivelino la loro cessazione (art. 2193 c.c.), nel quale cioè le vicende estintive si siano esteriorizzate, a nulla rilevando la interruzione o la cessazione materiale dell’attività commerciale.

Tanto giova a disattendere anche il profilo di diritto considerato nei primo motivo e fondato sulla richiamata pronunzia di incostituzionalità, che resta del tutto inconferente rispetto alla fattispecie.

Le spese del processo seguono la soccombenza si liquidano in favore della controricorrente in Euro 1.600, di cui E. 100 per esborsi e 1.500 per onorari, oltre alle spese generali come per legge.

 

p.q.m.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese processuali in Euro 1.600, di cui 100 per esborsi e 1.500 per onorari in favore della controricorrente, oltre alle spese generali come per legge.

Sentenza n. 13070 dep. 08/09/2003