Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6436 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 15 Gennaio 2009, n. 816. Est. Cultrera.


Società - Di persone fisiche - Società semplice - Scioglimento - Liquidazione della quota - Credito del socio uscente - Principio nominalistico - Applicabilità - Conseguenze - Qualità di imprenditore commerciale - Presunzione di reimpiego della somma - Sussistenza - Onere di allegazione della svalutazione annua superiore agli accessori - Necessità - Fattispecie.



L'obbligazione di liquidare la quota al socio uscente, avendo ad oggetto, sin dalla sua origine, una somma di denaro, ha natura di debito non già di valore, bensì di valuta, soggetto, pertanto, al principio nominalistico di cui all'art. 1277 cod. civ., potendo la svalutazione monetaria assumere rilievo solo in mancanza di tempestivo adempimento (da compiersi entro il termine di sei mesi previsto dall'ultimo comma dell'art. 2289 cod. civ.), con conseguente applicabilità dei principi sul risarcimento del danno da "mora debendi"; peraltro, a tal fine, il creditore - pur potendosi presumere secondo l'"id quod plerumque accidit", in quanto egli riveste la qualità di imprenditore commerciale, che la somma dovuta, se tempestivamente pagata, sarebbe stata reimpiegata e così sottratta al deprezzamento della moneta - ha l'onere di allegare la circostanza che il tasso di svalutazione annuo fosse superiore ed il maggior danno non sia stato assorbito dalla liquidazione degli interessi. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva negato il maggior danno, in ragione dell'elevato ammontare del saggio degli interessi legali vigente dal momento della decorrenza del credito, sempre rimasti fra il 10% ed il 2,5% annuo). (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORELLI Mario Rosario - Presidente -
Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere -
Dott. BERNABAI Renato - Consigliere -
Dott. CULTRERA Maria Rosaria - rel. Consigliere -
Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 12459-2004 proposto da:
CARTEI MARIO & C. S.A.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, CARTEI MARIO in proprio, BANCHINI BARBARA, elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso l'avvocato NICOLAIS LUCIO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato CECCHELLA CLAUDIO, giusta procura in calce al ricorse;
- ricorrenti -
contro
ANDREOTTI PARDINI DAVIDE MARIA;
- intimato -
sul ricorso 15495-2004 proposto da:
ANDREOTTI PARDINI DAVIDE MARIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DARDANELLI 13, presso l'avvocato LIUZZI ANTONIO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato VALORI VALERIO, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
CARTEI MARIO & C. S.A.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, CARTEI MARIO in proprio, BANCHINI BARBARA, elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso l'avvocato NICOLAIS LUCIO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato CECCHELLA CLAUDIO, giusta procura in calce al ricorso principale;
- controricorrenti al ricorso incidentale -
avverso la sentenza n. 776/2003 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE, depositata il 07/05/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/11/2008 dal Consigliere Dott. MARIA ROSARIA CULTRERA;
udito, per i ricorrenti, l'Avvocato L. NICOLAIS che ha chiesto l'accoglimento del ricorso e rigetto del ricorso incidentale;
udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l'Avvocato A. LIUZZI che ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l'accoglimento del ricorso incidentale;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, rigetto del primo motivo del ricorso incidentale, accoglimento del secondo motivo.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione 20 giugno 1995, Davide Maria Andreotti Pardini convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Pisa Cartei Mario chiedendone la condanna al pagamento di somma pari al valore della propria quota di partecipazione nella società di fatto Cartei Mario & C. Burraschiatura Pelli, di cui era entrato a far parte in data 27.8.1990 avendo acquistato il 25% sia della quota della socia Barbara Banchini che della quota dello stesso convenuto, e da cui era uscito in forza di recesso esercitato con effetto dal 31.8.94. Costituitosi il convenuto, il g.i. dispose l'integrazione del contraddittorio nei confronti della società, divenuta intanto s.a.s., e della socia Barbara Banchini; quindi, stante l'inottemperanza a tale ordine, dispose la cancellazione della causa dal ruolo che venne riassunta dall'attore, nei confronti sia della società che dei due soci.
Si costituirono sia il Cartei in proprio e quale socio accomandatario della società Cartei Mario & C. Burraschiatura s.a.s. che l'altra socia Banchini.
Il Tribunale adito, con sentenza 25.7.2001, respinse l'eccezione d'estinzione del giudizio che i chiamati in causa avevano dedotto in ragione dell'omessa ottemperanza da parte dell'attore all'ordine d'integrazione del contraddittorio disposto dal g.i. ex art. 102 c.p.c.; nel merito accolse la domanda, determinando nel 50% la quota di partecipazione dell'attore, che liquidò in suo favore nella somma di L. 85.657.000, condannando al relativo pagamento tutti i chiamati in causa.
La decisione venne impugnata da tutti i soccombenti ed in via incidentale dal Pardini innanzi alla Corte d'appello di Firenze che, con la pronuncia in esame n. 776 depositata il 7 maggio 2003, respinto il motivo con cui gli appellanti avevano ribadito in rito la violazione dell'art. 307 c.p.c. per non aver il primo giudice pronunciato l'estinzione del giudizio in difetto d'integrazione del contraddittorio, ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva di Barbara Banchini e Mario Cartei, confermando nel resto la sentenza gravata, e disponendo la condanna della società alle spese del doppio grado di giudizio.
Contro questa decisione hanno proposto ricorso per cassazione la s.a.s. Cartei Mario, questi in proprio e Barbara Banchini con quattro mezzi, illustrati altresì con memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c., cui ha resistito Andreotti Pardini Davide Maria con controricorso contenente ricorso incidentale articolato in due motivi, cui hanno resistito i ricorrenti principali con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In linea preliminare i ricorsi vengono riuniti a mente dell'art. 335 c.p.c. in quanto sono stati indirizzati contro la stessa decisione. Col primo motivo i ricorrenti principali, denunciando nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, censurano la decisione impugnata per non aver il giudice d'appello dichiarato l'estinzione del giudizio in ragione dell'omessa ottemperanza all'ordine del g.i. d'integrazione del contraddittorio nei loro confronti, legittimati passivi e litisconsorti necessari in causa. L'errore scaturirebbe dal fatto che la Corte territoriale, rilevando che era stato convenuto in giudizio soggetto sprovvisto di legittimazione, ha escluso l'ipotesi di violazione del litisconsorzio necessario, e la conseguente estinzione del giudizio, attribuendo all'atto di riassunzione, in forza del disposto dell'art. 159 c.p., l'effetto di costituire validamente il rapporto processuale con la società. Sostengono che, dal momento che alla data dell'introduzione del giudizio esisteva la società di fatto (la costituzione della s.a.s. Cartei Mario è infatti successiva), non avente personalità giuridica ne' soggettività diversa da quella dei soci, l'atto introduttivo doveva essere indirizzato ai soci;
essendo stato evocato il solo Cartei, il g.i. ordinò correttamente l'integrazione del contraddittorio nei confronti dell'altra socia Banchini per esigenze di litisconsorzio necessario. La riscontrata omissione ha procurato l'estinzione del giudizio che il primo giudice non ha però dichiarato, avendo invece disposto la cancellazione della causa dal ruolo, cadendo nell'errore che è stato quindi reiterato dai giudici del gravame.
Il richiamo all'art. 159 c.p.c. è infine un fuor d'opera. Il resistente deduce l'infondatezza del mezzo, richiamando l'orientamento (Cass. S.U. n. 291/2000) che attribuisce la titolarità dell'obbligo di liquidazione della quota al socio uscente in capo alla società di fatto e non già al socio superstite, con conseguente attribuzione alla stessa della legittimazione passiva in ordine alla relativa domanda giudiziale. In ragione di tanto, l'avversa censura è infondata, poiché essendo il socio Cartei, convenuto in jus, sprovvisto di legittimazione passiva, la causa è stata quindi riassunta nei confronti della società, effettivo contraddittore in relazione all'oggetto della pretesa esercitata. Il motivo appare privo di fondamento.
La Corte fiorentina ha dichiarato l'originario convenuto Cartei Mario sprovvisto di legittimazione passiva; dal momento che l'integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario presuppone che la domanda sia stata correttamente indirizzata contro il soggetto legittimato, il disposto dell'art. 102 c.p.c. non trova spazio applicativo, ne' per l'effetto può operare quello di cui all'art. 307 c.p.c., comma 3. La società di fatto, effettiva convenuta è stata chiamata in causa con l'atto di riassunzione, che ex art. 159 c.p.c., ha prodotto l'effetto di instaurare correttamente il rapporto processuale. Tale ricostruzione appare immune dal vizio denunciato. Occorre premettere che è pacifico (cfr. Cass. S.U. n. 291/2000 e sul suo solco nn. 11298/2001 e 6376/2004) che legittimata passiva in materia di liquidazione della quota in favore del socio uscente dalla compagine di una società di fatto è la stessa società, in quanto titolare dell'obbligazione controversa. L'assenza della personalità giuridica dell'ente, effettivo contraddittore dell'attore, non ne preclude la vocatio in jus, essendo comunque la società di fatto un "centro autonomo di imputazione" fornita di soggettività giuridica sostanziale distinta da quella dei soci e di propria capacità processuale. Tanto meno impone la necessaria partecipazione al giudizio dei soci stessi; questi infatti possono in tesi essere chiamati in giudizio, ma nel caso in cui siano solidalmente ed illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali verso i terzi. Difatti, il regime di responsabilità solidale dei soci che affianca quella della società sancito nell'art. 2291 c.c. opera solo a favore dei terzi, ovvero anche nei confronti dello stesso socio ma per altri fatti non contrattuali, produttivi di rapporti obbligatori, come il pagamento d'indebito, o l'illecito aquiliano, in relazione ai quali la "terzietà" del creditore rispetto al debitore è insita nella natura e nell'oggetto del diritto di credito, ed inoltre è compatibile con la convergenza degli interessi delle stesse parti in seno ad un distinto rapporto quale quello sociale(Cass. S.U. n. 291//2000 citata).
Siccome il diritto alla liquidazione della quota non rientra in tale archetipo, la domanda deve essere rivolta contro la società ai sensi dell'art. 2266 c.c.. Il precedente di cui alla sentenza di questa Corte n. 12125/2006 richiamata dai ricorrenti nella memoria difensiva, non contrasta con tale costruzione, siccome non esclude la corretta instaurazione del contraddittorio nei confronti della società nel caso in cui siano citati tutti i soci, ma a condizione che sia stata convenuta l'intera compagine, e sempre che il giudice di merito abbia accertato che l'attore abbia esercitato la sua pretesa verso la società, condizioni tutte insussistenti nel caso in esame.
Il corollario adattato alla specie, comporta, come correttamente si afferma nella decisione in esame, l'inammissibilità della domanda formulate dall'attore, in quanto è stata indirizzata contro uno solo dei soci della società - il Cartei -, che era sprovvisto di legittimazione passiva, essendo la sola società obbligata ed in via esclusiva rispetto al diritto oggetto della pretesa. L'ordine impartito dal g.i. nel giudizio di primo grado d'integrare il contraddittorio nei confronti dell'ente in proprio e dell'altra socia non era pertanto riconducibile al paradigma dell'art. 102 c.p.c. siccome tale disposizione, mirando a garantire lo svolgimento unitario del giudizio nei confronti di tutti i soggetti legittimati, presuppone logicamente che il processo sia stato instaurato nei confronti di almeno uno di essi. Siffatta condizione, per le ragioni esposte, non ricorre nella specie.
In tale evenienza, sia se il convenuto eccepisce di non essere titolare dal lato passivo del rapporto sostanziale controverso ed indichi un terzo come legittimato passivo, sia se il giudice ravvisa la circostanza ex officio, detto organo ha il potere discrezionale di ordinare l'intervento in causa del terzo, non potendo di certo integrare un contraddittorio inesistente, in quanto geneticamente errato. Il provvedimento in questione devesi pertanto collocare nell'ambito operativo dell'art. 107 c.p.c., dovendo essere interpretato quale ordine d'intervento dei terzi in esso indicati. Il suo mancato rispetto non ha perciò procurato l'effetto estintivo previsto dall'art. 307 c.p.c., comma 3; piuttosto, secondo la previsione dell'art. 270 c.p.c., è rimasto sanzionata con la cancellazione della causa dal ruolo.
In tal senso ha provveduto il giudice di primo grado, dunque correttamente.
Siccome parte attrice ha provveduto alla riassunzione entro il termine annuale, nel rispetto dell'art. 307 c.p.c., comma 1, ed i terzi, ai quali detto atto è stato indirizzato, hanno accettato il contraddittorio, spiegando in causa le loro difese anche nel merito, il giudizio è regolarmente proseguito.
Col secondo motivo i ricorrenti deducono violazione dell'art. 2285 c.c. e nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c., art. 180 c.p.c., comma 2, art. 345 c.p.c..
Affermano di aver sin dalla loro costituzione eccepito che l'attore non aveva provato il recesso, che ex art. 2285 c.p.c. costituisce fatto costitutivo della pretesa liquidazione della quota. La Corte territoriale, che ha dichiarato inammissibile l'eccezione reputandola dedotta per la prima volta solo in fase di gravame, ha pertanto errato sia perché non si è avveduta che la questione era stata già oggetto di difesa in primo grado, sia perché non si tratta di eccezione in senso proprio ma di mero argomento difensivo. Al più la questione doveva essere rilevata d'ufficio.
Il resistente replica al mezzo, di cui assume l'infondatezza, rilevando che gli odierni ricorrenti in primo grado contestarono non già la debenza della quota ma l'importo fatto segno della richiesta, dando per pacifico che il recesso fosse legittimo; tale ultima circostanza era peraltro provata per tabulas. Le eccezioni volte ad inficiarne l'efficacia avevano perciò natura sostanziale, mirando a paralizzare l'avversa pretesa mediante allegazione di un fatto impeditivo del fatto costitutivo dedotto dall'attore. Erano altresì fondate su documento non allegato al presente ricorso, che in parte qua non è perciò autosufficiente.
Anche questo motivo appare privo di fondamento. La sentenza impugnata dichiara inammissibile, perché dedotta in violazione dell'art. 345 c.p.c., l'eccezione dei resistenti reputandola di natura sostanziale siccome contrappone un diritto al fatto costitutivo affermato dall'attore. Tale conclusione appare corretta.
Dall'esame degli atti del processo, consentito in questa sede in ragione della natura processuale del vizio denunciato, emerge che in primo grado i convenuti non smentirono l'intervenuto recesso del socio Pardini, ne' ne negarono la legittimità o l'efficacia per assenza di giusta causa.
La contestazione dedotta in tale ultima prospettiva rappresenta effettivamente eccezione in senso proprio, siccome non si esaurisce nella mera smentita della fondatezza della domanda, prospettata adeguatamente, anche alla luce della narrazione dei fatti, in tutti i suoi elementi costitutivi; non si risolve per l'effetto in un argomento di difesa, ma introduce indagine su di un fatto estintivo dell'avversa pretesa, idonea a paralizzarla. Gli odierni ricorrenti, i quali non hanno mai negato l'avvenuto recesso, mediante l'eccezione mossa solo in sede di gravame, hanno introdotto dunque un tema d'indagine idoneo, ove il fatto fosse stato accertato, ad incidere sull'efficacia del recesso stesso. Appare pertanto palese la violazione del divieto del novum sancito nell'art. 345 c.p.c. che ammette in appello (cfr. Cass. n. 18096/2005) la proponibilità delle mere difese, intendendosi tali le argomentazioni con cui si contrasta genericamente l'avversa pretesa, senza introdurre indagini su fatti impeditivi o modificativi del diritto esercitato, della cui prova, è onerata la parte che ne deduce la sussistenza.
L'indagine sulla questione, peraltro, postula l'esame dell'atto costitutivo della società da cui emergerebbe la sua durata per un tempo determinato, con conseguente applicazione dell'art. 2285 c.c., comma 2 che prevede la necessità della giusta causa di recesso, il cui testo neppure è stato riprodotto. Il ricorso è perciò oltretutto privo di autosufficienza.
Resta assorbito l'altro profilo d'indagine sollecitato nel mezzo. Col terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione dell'art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c. e correlato vizio di motivazione. Si sostiene che l'attore avrebbe dovuto provare la sua titolarità della quota nel 50%, che invece non aveva offerto, benché ne fosse onerato, e che la Corte ha desunto tale circostanza dall'omessa contestazione della circostanza - però non reiterata in appello ove si è introdotta discussione a riguardo-, dall'atto di ricostituzione della società in cui la socia Banchini compare al 25%, - che rappresenta fatto collegabile a circostanze sopravvenute - ed infine dalle dichiarazioni di reddito della società - prive notoriamente di valore probatorio, e comunque prodotte in copia. In conclusione da elementi inidonei ed irrilevanti.
Al contrario non vi è prova della cessione della quota dalla Banchini all'attore.
Replica il resistente che la censura è inammissibile siccome mira al riesame del merito.
Devesi osservare che la decisione impugnata si fonda sulla sintesi ricostruttiva degli elementi tutti riferiti nella censura in esame, apprezzati dal giudice d'appello che ha dato adeguatamente conto della loro valutazione.
Il tessuto motivazionale che la sorregge appare infatti puntuale, esaustivo, privo di vizi logici o errori di diritto; pertanto non è sindacabile.
Il motivo, indirizzato in sostanza contro il giudizio critico espresso nella decisione, e dunque teso a sollecitare un riesame del merito, precluso in questa sede, è pertanto inammissibile. Col quarto motivo i ricorrenti deducono omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione alla determinazione del valore della quota liquidata.
Si dolgono sia della reiezione della denuncia di violazione dell'art. 194 c.p.c., da essi mossa in ragione del fatto che il c.t.u. si era avvalso dell'opera di terzi benché privo dell'apposita autorizzazione, sia dell'espunzione dagli atti, in quanto tardivamente prodotta, della relazione dell'esperto di loro fiducia - ing. Cecchella - che ha precluso loro la possibilità di confrontare congruità, logicità ed importo dei valori espressi. Il resistente deduce l'infondatezza della censura in relazione ad entrambi i suoi profili.
Anche questo motivo appare privo di fondamento.
La decisione impugnata risulta corretta laddove si sostiene che il c.t.u., siccome ha condotto la sua valutazione sulla base dei valori di mercato, ha legittimamente interpellato, com'era del resto necessario e come gli era consentito, operatori del settore. È pacifico infatti che il consulente tecnico può avvalersi dell'opera di specialisti "al fine di acquisire mediante gli opportuni e necessari sussidi tecnici tutti gli elementi di giudizio, senza che sia necessaria una preventiva autorizzazione del giudice, ne' una nomina formale, purché assuma la responsabilità morale e scientifica dell'accertamento e delle conclusioni raggiunte dal collaboratore" (cfr. per tutte Cass. n. 7243/2006). È dunque legittima l'acquisizione di dati di ricerca attinta da informazioni rese da operatori di settore, dato che "il consulente è chiamato anche ad acquisire le folti del suo convincimento, anche al di là dell'attività istruttoria delle parti, senza che possa ritenersi in tal modo vulnerata l'esigenza di controllo del suo operato, giacché tale esigenza viene soddisfatta sia mediante la possibilità della partecipazione al contraddittorio tecnico attraverso il consulente di parte, sia, a posteriori, con la possibilità di dimostrazione di elementi rilevanti in senso difforme".
Nella sua articolazione il mezzo in esame appare inoltre inammissibile. Ribadisce infatti la doglianza, respinta in sede d'appello in ragione del fatto che la mancata ammissione della produzione difensiva non era sostenuta dall'allegazione del concreto interesse difensivo che con essa s'interebbe soddisfare e non si capirebbe inoltre perché avrebbe dovuto prescindersi dalla preclusione posta dall'art. 184 c.p.c., riproducendola con la medesima genericità. Non espone tuttavia omesso esame di uno specifico rilievo da cui il giudice d'appello avrebbe potuto desumere il lamentato vulnus al diritto di difesa, ne' spiega la ragione per la quale eventuali obiezioni non siano state espresse nella relazione del consulente di parte. Pretende infine di superare la preclusione posta dall'art. 184 c.p.c., che non ammette deroga se non nel caso di cui all'art 184 bis, neppure invocato.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
Con ricorso incidentale il Pardini denuncia omessa ed insufficiente motivazione in ordine alla determinazione del valore della quota, assunta sulla scorta delle risultanze della consulenza tecnica, senza adeguata valutazione delle doglianze espresse circa il calcolo dell'avviamento espresse dal suo consulente di parte, valutato in relazione a soli 2 anni, anziché in relazione a tre annate come previsto in caso di cessione di farmacia dal R.D. 27 luglio 1265, n. 1265, art. 110.
I resistenti deducono inammissibilità del mezzo siccome teso al riesame del merito.
La sentenza impugnata ha scrutinato le censure mosse al metodo di calcolo dell'avviamento in concreto adottato dal c.t.u., e le ha quindi respinte perché non le ha ritenute indirizzate a confutarne la correttezza, ma solo a smentirle secondo opinione dottrinale contraria sprovvista di fondamenti che le conferiscano prevalenza. La censura non indirizza critica contro tale motivazione. L'approdo peraltro appare corretto.
I criteri legali posti dalla disposizione rubricata contenuta nel R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, art. 110, secondo cui l'avviamento deve essere calcolato in misura corrispondente a tre annate del reddito medio imponibile della farmacia accertato agli effetti dell'applicazione dell'imposta di ricchezza mobile (oggi IRPEF) nell'ultimo quinquennio, sono vincolanti ma solo se ricorrono in concreto tutti gli elementi di fatto che ne consentono la puntuale applicazione (Cass. n. 9670/2000). Nella specie la partecipazione del socio Pardini è perdurata per un periodo inferiore al quinquennio, come egli stesso ha riferito dal 27.8.90 al 31.8.94; per l'effetto, il consulente non era vincolato al criterio legale ed il giudice a sua volta poteva liquidare l'indennità sulla base di dati, affidati al suo prudente apprezzamento, secondo valutazione complessiva della fattispecie (Cass. n 13891/2003). Si è quindi mosso in tale solco in maniera corretta.
Il motivo deve pertanto essere respinto.
Col secondo motivo si censura la decisione impugnata per violazione degli artt. 2289 e 1224 c.c. in relazione al rigetto della domanda di rivalutazione del credito che si assume spettante ancorché il credito controverso abbia natura di debito di valuta, siccome la svalutazione assume rilevanza non essendo l'adempimento avvenuto entro il termine previsto dall'art. 1289 c.c. e la natura imprenditoriale dell'attività esercitata, affrancava dall'onere di provare il maggior danno, che ben poteva desumersi secondo l'id quod plerumque accidit.
I ricorrenti principali deducono infondatezza del mezzo. Il motivo deve essere respinto.
La sentenza impugnata rigetta la domanda di maggior danno perché non vi è prova del suo vetrificarsi. Suddetta conclusione appare immune dal vizio denunciato.
È principio pacifico (cfr. Cass. nn. 5732/1999, 3800/2003) che l'obbligazione de qua, avendo ad oggetto sin dalla sua origine una somma di denaro ha natura di debito di valuta e dunque soggiace al principio nominalistico di cui all'art. 1227 cod. civ.; nondimeno, laddove non sia adempiuta entro il termine di sei mesi previsto dall'ultimo comma dell'art. 2289 c.c. trovano applicazione i principi sul risarcimento del danno da "mora debendi".
È vero anche che, secondo costante giurisprudenza (di recente innovata a seguito dell'intervento delle S.U. n. 19499/2008), se la rivalutazione è domandata da creditore che rivesta la qualità d'imprenditore commerciale, e tale qualità svolta professionalmente è sicuramente attribuibile al socio receduto, non è necessaria la prova concreta del maggior danno ragguagliato alla perdita del potere d'acquisto della moneta, in quanto può ritenersi, secondo l'id quod prelumque accidit, che la somma dovuta, se tempestivamente pagata, sarebbe stata reimpiegata e quindi sottratta al deprezzamento della moneta. Occorre pur tuttavia rilevare che, dato l'elevato ammontare del saggio degli interessi legali vigente alla data in cui, secondo quanto premesso, nella specie ne doveva essere collocata la decorrenza (portato dalla L. n. 353 del 1990, art. 1 alla misura del 10% sino alla data dell'1.1.97, da tale data L. n. 662 del 1996, ex art. 1 determinato nel 5%, cui sono seguiti successivi aggiornamenti, mai inferiori al 2,5%), l'attore non poteva confidare cout court sulla mera presunzione discendente dalla detta sua qualità, ma era onerato quanto meno dell'allegazione che il tasso di svalutazione annuo fosse effettivamente superiore a quello degli accessori, sicché il maggior danno derivante della mora non fosse stato assorbito dalla liquidazione degli interessi. Tale allegazione non vi è stata.
Tanto premesso, il ricorso incidentale deve essere respinto. L'esito della controversia giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio nella metà, tenuto conto della prevalente soccombenza dei ricorrenti principali, sui quali grava il residuo liquidato come da dispositivo.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa per la metà le spese del presente giudizio, che liquida per l'intero in Euro 3.500,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, condannando i ricorrenti principali al pagamento del residuo, oltre spese generali e accessori di legge. Così deciso in Roma, il 26 novembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2009