Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1488 - pubb. 12/02/2009

Azione di responsabilità in sede fallimentare e onere della prova della novità delle operazioni

Cassazione civile, sez. I, 29 Ottobre 2008, n. 25977. Est. Salmè.


Fallimento - Azione di responsabilità esercitata dal curatore - Natura contrattuale - Conseguenze - Novità delle operazioni intraprese dopo lo scioglimento della società - Onere della prova - Spettanza - A carico dell'attore. , Azione di responsabilità nei confronti degli amministratori - Legittimazione del curatore - Natura contrattuale dell'azione - Conseguenze - Novità delle operazioni successive allo scioglimento della società - Onere della prova - Spettanza - A carico del curatore - Effetti.



L'azione di responsabilità esercitata dal curatore del fallimento ai sensi dell'art. 146 legge fall., ha natura contrattuale e carattere unitario ed inscindibile, risultando frutto della confluenza in un unico rimedio delle due diverse azioni di cui agli artt. 2393 e 2394 cod. civ.; ne consegue che, mentre su chi la promuove grava esclusivamente l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombe, per converso, su amministratori e sindaci l'onere di dimostrare la non imputabilità a sè del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti; pertanto, l'onere della prova della novità delle operazioni intraprese dall'amministratore successivamente al verificarsi dello scioglimento della società per perdita del capitale sociale, compete all'attore e non all'amministratore convenuto. (fonte CED – Corte di Cassazione)



  omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 24 gennaio 1990 il fallimento della Germani s.r.l. ha convenuto in giudizio davanti al tribunale di Roma S. A., chiedendone la condanna ai sensi della L. Fall., art. 146, al pagamento di una somma idonea a ripristinare il patrimonio sociale danneggiato dal comportamento dalla stessa tenuto quale amministratrice della società fallita.

Il fallimento ha esposto che:

- negli esercizi 1984, 1985 e 1986 la società aveva subito notevoli perdite, inizialmente fronteggiate con l'utilizzo delle riserve;

- nell'esercizio 1985 era stata pressoché esaurita la riserva di cui alla L. n. 72 del 1983, e l'assemblea, il consiglio di

amministrazione e il collegio sindacale avevano segnalato la necessità di adottare i provvedimenti di cui all'art. 2446 c.c.;

- a metà del 1986 il capitale sociale era stato completamente eroso da ulteriori perdite;

- nell'aprile 1997 la S. aveva presentato domanda di concordato preventivo e che la società era stata poi dichiarata fallita nel novembre dello stesso anno;

- l'attivo fallimentare era insufficiente a far fronte al passivo. Il fallimento ha quindi sostenuto che la S. era responsabile del disavanzo, essendo venuta meno ai suoi doveri inerenti alla conservazione del patrimonio sociale e imposti dalla liquidazione, dato che, in particolare, aveva violato, nel vano tentativo di cedere l'azienda, l'obbligo di immediata convocazione dell'assemblea, ai fini di cui agli artt. 2446 e 2447 c.c., impostole dall'incidenza delle perdite sul capitale.

Con sentenza del 12 maggio 2000 il tribunale ha accolto parzialmente la domanda condannando la S. al pagamento della somma di L. 850.000.000, (oltre interessi), pari all'importo, rivalutato alla data della decisione, di L. 507.164.882, corrispondente alla diminuzione del patrimonio sociale accertata dal c.t.u. nel periodo dal 12 settembre 1986 (data dell'assemblea che aveva dato mandato alla S. di convocare altra assemblea per deliberare la richiesta di ammissione al concordato) fino al 14 aprile 1987 (data della richiesta di ammissione al concordato).

La corte di appello di Roma, con sentenza del 18 marzo 2003, ha integralmente confermato la decisione di primo grado affermando, innanzi tutto, che correttamente il tribunale aveva posto a fondamento della condanna i comportamenti dell'amministratrice dedotti con la domanda (avere proseguito l'attività imprenditoriale non ostante il verificarsi dei presupposti dello scioglimento della società e avere omesso di adottare i provvedimenti diretti a ripristinare il capitale sociale eroso dalle perdite) escludendo quelli dedotti nel corso del giudizio e in ordine ai quali la convenuta non aveva accettato il contraddittorio (consistenti nell'infedele rappresentazione dei dati contabili, con sottovalutazione dei debiti e sopravvalutazione delle attività). Infatti il curatore che agisce per far valere la responsabilità dell'amministratore ha l'onere di dedurre specifici inadempimenti o inosservanze in relazione alle quali sorge l'onere del convenuto di fornire la prova dell'adempimento, non potendo invece limitarsi a una generica deduzione dell'illegittimità dell'intera condotta. La deduzione da parte del fallimento in corso di causa di comportamenti diversi da quelli indicati nell'atto introduttivo si era risolta in un inammissibile mutamento dei fatti costitutivi e del petitura (in quanto diretta a ottenere il risarcimento di effetti pregiudizievoli prodottisi in un periodo di tempo più ampio).

La corte d'appello ha inoltre confermato la dichiarazione di responsabilità, della convenuta per violazione degli artt. 2447 e 2449 c.c.. Infatti, da un lato, manca del tutto la prova dell'asserita convocazione dell'assemblea in data 18 novembre 1986, non risultando prodotto come allegato alla consulenza tecnica di parte - contrariamente a guanto sostenuto dall'appellante -il relativo verbale e, dall'altro lato è priva di sostegno probatorio, altresì, la tesi secondo la quale l'attività della società svolta dal 1986 avrebbe avuto natura sostanzialmente liquidatoria. Tale tesi, fondata su un passaggio della relazione del commissario giudiziale del concordato preventivo, secondo cui nel 1986 "l'attività imprenditoriale - era limitata al completamento dei lavori in atto e di durata ultrannuale", e su analogo rilievo del c.t.u., doveva ritenersi "generica, contestata dal fallimento e comunque insufficiente a giungere alla conclusione voluta dall'appellante", dato che, per quanto anche in presenza di scioglimento automatico della società non sia vietata all'amministratore l'esecuzione dei contratti in corso, tuttavia l'attività imprenditoriale in tale fase può proseguire solo nella misura in cui sia riconducibile alla funzione, tipica della liquidazione, di conservazione del valore aziendale. L'amministratrice, invece, non aveva fornito la prova che la cessazione dell'attività sarebbe stata pregiudizievole (le gravose penali in cui la società sarebbe incorsa non erano provate) o che comunque la scelta della prosecuzione fosse stata frutto di una seria valutazione dei relativi risultati comparati con quelli della scelta alternativa di cessare l'attività.

Quanto alla liquidazione del danno la corte territoriale ha inoltre affermato che la diminuzione del valore del patrimonio societario, in quanto "funzionalmente connessa" alla prosecuzione dell'attività, era conseguenza immediata e diretta delle predette violazioni dei doveri dell'amministratrice. Nè era condivisibile l'affermazione secondo cui gli oneri relativi al periodo in questione sarebbero rimasti comunque a carico della società - in quanto basata su mere supposizioni circa le conseguenze di una tempestiva sollecitazione dei poteri dell'assemblea. Ben poteva ipotizzarsi - ha osservato la Corte - che anche una tempestiva investitura dell'assemblea non avrebbe mutato la sorte della società, ma "anche in tal caso non potrebbe che affermarsi l'addebitabilità all'amministratrice - per il negligente ritardo nel provocare le decisioni dell'assemblea - degli effetti negativi dell'inutile prosecuzione dell'attività". Avverso la sentenza ricorre la S. sulla base di tre motivi, illustrati con memoria. Il curatore del fallimento resiste con controricorso e propone anche ricorso incidentale affidato a un unico motivo, al quale resiste la S. con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Premesso che i ricorsi vanno riuniti in guanto relativi alla medesima sentenza (art. 335 c.p.c.), deve essere innanzi tutto esaminato, per esigenze logiche, il ricorso incidentale, con il quale si deduce violazione degli artt. 2392 e 2394 c.c., nonché degli artt. 184 e 112 c.p.c., (testo anteriore alla novella del 1990);

omessa pronuncia sui capi di domanda legittimamente emendati dopo la notifica della citazione e alla stregua di circostanze emerse in epoca successiva; vizi di motivazione sul confronto fra domanda originaria e il thema decidendum risultante dai fatti sopravvenuti o emersi successivamente.

Il fallimento censura il rigetto dell'appello incidentale, con il quale era stato dedotto che, per quanto alcune inadempienze della sig.ra S. fossero state contestate solo nel corso del giudizio, l'atto di citazione faceva riferimento a "tutte le violazioni" e all'"intera condotta" della medesima, sicché nessun mutamento del fatto costitutivo della domanda era configurabile in relazione alle circostanze di fatto emerse nel corso dell'istruttoria". Il ricorrente incidentale lamenta, in primo luogo, che, essendo nella specie consentita la emendatio libelli (art. 184 c.p.c., nel testo anteriore alla novella del 1990 applicabile ratione temporis), i Giudici di merito avevano l'obbligo di pronunciare sulla domanda come emendata in corso di giudizio. In subordine, sostiene che la sentenza impugnata ha dato una interpre-tazione immotivatamente restrittiva della domanda. Deduce, in proposito, che il testo delle conclusioni dell'atto di citazione in primo grado faceva riferimento al pregiudizio conseguente alla "condotta di essa amministratrice" senza alcuna limitazione di ordine temporale o di altra natura, che l'atto esponeva una vasta gamma di titoli di responsabilità della convenuta - quali l'"insufficienza patrimoniale cagionata dalla inosservanza di obblighi relativi alla conservazione del patrimonio sociale" e il "danno prodotto alla società da ogni illecito doloso o colposo degli amministratori, per violazione di doveri imposti dalla legge e dall'atto costitutivo, ovvero inerenti all'adempimento delle loro funzioni con la diligenza richiesta" - che il medesimo atto menzionava anche gli artt. 2392 e 2394 c.c., con ciò smentendo un'interpretazione limitativa degli addebiti come circoscritti alla sola violazione degli obblighi di cui agli artt. 2446, 2447, e 2449 c.c., interpretazione oltretutto contraddetta dalla circostanza che erano descritte le vicende della società a partire dal 1982. Se, poi era vero che il fallimento aveva fatto valere anche circostanze di fatto non menzionate nella citazione, era pur vero che si trattava di circostanze sopravvenute alla notifica dell'atto introduttivo, atteso che sia le irregolarità contabili che le violazioni fiscali commesse dalla S. erano emerse solo dopo tale momento e che su tali circostanze la difesa della convenuta aveva avuto modo di interloquire, onde era stato rispettato il principio del contraddittorio. Su tali considerazioni, svolte nell'atto di appello incidentale, la corte d'appello non ha preso posizione. Il motivo non è fondato.

La corte d'appello, con argomentazione logica ed esauriente, ha qualificato come nuove le circostanze dedotte nel corso del giudizio e ha anche affermato che le stesse comportavano un mutamento della causa pretendi e del peti tura, pertanto una mutatio e non un'emendatio libelli, sulla quale non c'è stata accet-tazione del contraddittorio da parte della S.. Pertanto non sussiste alcuna violazione dell'art. 184 c.p.c., vecchio testo.

Inoltre, l'interpretazione della domanda originaria e dei successivi mutamenti degli elementi costitutivi, sulla quale si fonda il giudizio d'inammissibilità, è sorretta da argomentazioni esaurienti, giuridicamente e logicamente corrette, e logicamente della quale la corte d'appello ha

2. Con il primo motivo del ricorso principale sono denunciati la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 2447 e 2697 c.c., nonché il vizio di motivazione. La ricorrente lamenta che la corte di appello, incorrendo in una "madornale svista", abbia escluso che fosse stato prodotto il verbale dell'assemblea del 18 novembre 1986, che invece risultava ritualmente depositato con il fascicolo di parte.

Il motivo è inammissibile perché denuncia un errore revocatorio, e non un vizio di legittimità ai sensi dell'art. 360 c.p.c.. Infatti, qualora il Giudice fondi la propria decisione sull'affermazione dell'esistenza agli atti di causa di un documento la cui acquisizione agli atti risulti, al contrario, positivamente stabilita, la sentenza è viziata da un errore di fatto ai sensi dell'art. 395 c.p.c., n. 4, sempre che la questione dell'esistenza del documento non abbia costituito un punto controverso deciso dalla sentenza stessa (Cass. 6082/1992, 6556/1997, 1112/1999, la prima delle quali resa a sezioni unite).

3. Con il secondo motivo del ricorso principale è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 2392 e 2394 c.c., e dei principi che disciplinano la responsabilità degli amministratori;

dell'art. 2449 c.c.; dell'art. 2697 c.c., e dei principi che regolano l'onere probatorio; vizio di motivazione.

La ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia affermato la sua responsabilità, per aver intrapreso nuove operazioni successive al verificarsi dello scioglimento della società per perdita del capitale, nonostante l'attore, sul quale incombeva il relativo onere, non avesse provato la realizzazione di operazioni siffatte ed, anzi, esistesse la prova del contrario, costituita dall'affermazione contenuta nella relazione del commissario giudiziale del concordato preventivo, secondo cui "l'attività imprenditoriale della società già nel corso del 1986 era limitata al completamento dei lavori in atto e di durata ultrannuale", confermata dal CTU, secondo il quale "l'attività imprenditoriale della Germani s.r.l. si è ridotta nel 1986 al solo completamento dei lavori in atto, lavori che avevano durata ultrannuale".

Il motivo è fondato.

L'affermazione della responsabilità della S. si fonda sulla violazione (oltre che dell'art. 2447 c.c.) dell'art. 2449 c.c.. Come è stato osservato (Cass. n. 2772/1999) l'azione esercitata dai commissari liquidatori di un'impresa in amministrazione straordinaria nei confronti degli amministratori e dei sindaci D.L. n. 26 del 1979, ex art. 3, comma 6, e L. Fall., art. 206, al pari di quella disciplinata, con riguardo al curatore del fallimento, dalla L. Fall., art. 146,commi 2 e 3, ha natura contrattuale e carattere unitario ed inscindibile, risultando frutto della confluenza in un unico rimedio delle due diverse azioni di cui agli art. 2393 e 2394 c.c.. Alla natura contrattuale dell'azione consegue che, mentre su chi la promuove grava esclusivamente l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombe, per converso, su amministratori e sindaci l'onere di dimostrare la non imputabililità a sè del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti.

Ne deriva che, prima ancora di verificare se sia corretta la motivazione dell'insufficienza delle prove documentali raccolte a dimostrare la natura liquidatoria e non pregiudizievole per la società delle operazioni compiute dalla S., deve rilevarsi che erroneamente la corte territoriale ha ritenuto che gravasse sull'amministratrice l'onere di provare la predetta natura delle operazioni mentre l'onere della prova della "novità" delle operazioni medesime gravava sul fallimento, con la conseguente applicazione della regola di giudizio nel caso di accertata mancanza di tale prova.

La sentenza deve pertanto essere cassata in relazione al motivo accolto.

Dall'accoglimento del secondo motivo, dal quale deriva la necessità di un nuovo accertamento della responsabilità della S., discende l'assorbimento del terzo motivo che, denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 2393, 2394 e 2449 c.c., e dei principi che regolano la responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale e il relativo onere probatorio; del principio che, ai fini della quantificazione del danno, impone l'individuazione e la prova del nesso eziologico; vizio di motivazione, la ricorrente lamenta che la corte di appello, nel determinare l'entità del danno risarcibile non abbia considerato che il c.t.u. si era limitato ad individuare le perdite subite dalla società nel periodo dal 12 settembre 1986 al 14 aprile 1987, "senza nemmeno discernere le perdite da ricollegare normalmente ad una società in crisi da quelle da ricollegare all'amministratore convenuto in giudizio per pretesi addebiti".

La corte d'appello di Roma, in sede di rinvio, provvederà anche sulle spese di questo giudizio.

P.Q.M.

La corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso incidentale, dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo, dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla corte d'appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile il 12 marzo 2008.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2008


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