CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 14/10/2015 Scarica PDF

La gestione dell'impresa nella crisi "atipica"

Antonio Rossi, Professore associato di Diritto commerciale nell'Università degli Studi di Bologna


1) Crisi "tipiche" vs. Crisi "atipica"

Purtroppo, ancora oggi la crisi dell'impresa costituisce un tema à la page, in grado di catturare l'attenzione degli operatori economici e giuridici.
Se il legislatore, ormai da anni, ha riconosciuto nell'art. 160 c. 1° l. fall. la dimensione giuridica di questo fenomeno economico, come condizione oggettiva per l'accesso agli istituti del concordato preventivo e dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, ancora sembra sussistano margini di incertezza circa la sua incidenza sulle regole della diligente gestione delle imprese esercitate in forma societaria.

Già si è scritto circa le modalità di conformazione della gestione alle esigenze imposte dal deposito di una domanda c.d. protettiva (2), ora, invece, in una sorta di "prequel", interessa verificare come la crisi, evento connaturale all'agire imprenditoriale, sin dal suo manifestarsi all'interno delle stanze di governo dell'impresa (e, pertanto, a prescindere dalla pubblica emersione ed evidenza della crisi stessa), sia in grado di modificare le regole di azione cui i gestori di una società di capitali devono attenersi.
Se è pur vero che la nozione giuridica di "stato di crisi", oggi presupposto dall'art. 160 c. 1° l. fall., sfugge ai pur autorevoli tentativi di una precisa definizione della fattispecie, resta che chi partecipa alla gestione dell'impresa, se non è del tutto sprovveduto (3), è in grado di percepire, più o meno tempestivamente (spesso a seconda della struttura organizzativa dell'impresa stessa e della sua capacità di monitoraggio dell'andamento dell'attività), che le cose non vanno più come un tempo e che, pertanto, si è superata la soglia oltre la quale l'impresa si trova in uno "stato di crisi".
Che questa poi dipenda da uno sbilancio patrimoniale, da uno squilibrio finanziario, da una perduta redditività o da una combinazione di queste cause (ciò che avviene normalmente) poco importa: si tratta ora di capire se e come il gestore debba modificare i criteri di conduzione dell'impresa ai quali si è ispirato sino al giorno prima dell'acquisita consapevolezza della crisi.
Innanzitutto, la risposta alla questione sollevata è (sempre relativamente) semplice se la crisi ha una sua tipicità giuridica. Se la crisi è il frutto di uno choc ovvero è stata percepita tardivamente (a prescindere da eventuali responsabilità, in tal caso), questa può tradursi immediatamente in uno stato d'insolvenza ex art. 5 l. fall., ciò che non lascia dubbi sul fatto che i gestori si trovino dinanzi ad una secca alternativa: o instare per il fallimento in proprio del debitore o accedere ad uno strumento di composizione della crisi che presupponga siffatto stato (sicuramente comprensivo anche dello stato d'insolvenza ex art. 160 u.c. l. fall.): concordato preventivo o accordo di ristrutturazione dei debiti.
La scelta della soluzione, tra quelle comunque testé esposte e che comunque s'impongono, costituisce poi sempre un atto di gestione, in quanto tale sindacabile ex post solo in coerenza alla c.d. Business judgment rule e, dunque, i) se costituisce il frutto di un procedimento di adozione della decisione non adeguatamente istruito ovvero ii) se la scelta è manifestamente irrazionale cioè a dirsi, nel caso di specie, inevitabilmente destinata all'insuccesso (4).
Parimenti, lo squilibrio patrimoniale che incida sul capitale sociale e superi le soglie previste dagli artt. 2447 e 2482-ter c.c. non evidenzia problemi di disciplina, in quanto impone ai gestori la convocazione dell'assemblea dei soci e, in mancanza degli "opportuni provvedimenti" previsti dagli artt. ult. cit. e dall'art. 182-sexies l. fall., l'apertura di un procedimento di liquidazione.
Ancora una volta, peraltro, pur in mancanza di un vero e proprio stato d'insolvenza, ritengo che una situazione patrimoniale che evidenzi una perdita incidente su più di un terzo del capitale sociale, considerata ipso facto red flag per l'ordinamento societario, possa essere qualificata dai gestori come sintomatica di uno stato di crisi (5) e consenta quindi loro l'accesso ad un percorso di ristrutturazione del debito mediato dalla procedura di concordato preventivo o dalla disciplina di cui all'art. 182-bis l. fall. (6), con gli effetti previsti dall'art. 182-sexies cit.
Il problema che interessa affrontare nella presente sede, invece, riguarda una crisi "atipica", ovvero non specialmente già disciplinata dal legislatore.
E' certo, infatti, che la percezione dell'emersione della crisi da parte degli organi sociali possa (e, anzi, debba, di norma) essere anteriore alla sua decadenza in vero e proprio stato d'insolvenza ovvero ad una sua incidenza sul patrimonio netto tale da incidere sul minimo legale del capitale sociale nei termini previsti dagli artt. 2447 e 2482-ter c.c.
In questo caso, infatti, la disciplina posta dal legislatore per affrontare le crisi "tipiche" non aiuta e si tratta, dunque, di stabilire se i gestori possano proseguire imperterriti in una conduzione dell'impresa che, lasciata inalterata, proseguirà probabilmente sino a scontrarsi contro il muro dell'insolvenza o dello scioglimento della società, ovvero, al contrario, debbano, ben prima, adottare diverse regole di azione, la cui violazione li renda altresì responsabili nei confronti della società stessa e dei suoi creditori.
Il dubbio proposto, dunque, si articola in due sotto - quesiti: i) se esistano norme o principi dell'ordinamento che impongano agli amministratori di modificare i criteri di gestione dell'impresa in presenza di una crisi atipica; ii) in caso di risposta positiva, quali siano le regole di gestione cui gli organi sociali debbano conformarsi.


2) La gestione conservativa come principio generale della c.d. twilight zone: la necessità di precisazioni

Il tema non è certo nuovo nel panorama dottrinale, le cui riflessioni sono state stimolate dalla persistente crisi economica che ancor'oggi interessa, seppure in maniera non omogenea, il tessuto imprenditoriale nazionale.
La riconosciuta esigenza di anticipare il trigger di una risposta degli organi sociali alla crisi incipiente e, conseguentemente, il suo più efficiente trattamento, anche in funzione della conservazione del maggior valore dell'impresa stessa, ha portato ad una linea di pensiero piuttosto condivisa, che porta al centro degli interessi "sociali" perseguiti dagli amministratori i creditori della società amministrata: dal momento in cui la crisi, non ancora insolvenza, sia tuttavia già in grado di mettere a rischio, seppure anche solo prospetticamente, la loro aspettativa di integrale soddisfacimento, la gestione deve essere indirizzata al perseguimento di siffatto loro interesse, ciò che si deve tradurre in una condotta "conservativa".
Nella letteratura più "strutturata", questa conclusione è mediata da una particolare interpretazione dell'art. 2484 n. 2 c.c., per la quale la perdita di continuità aziendale costituirebbe una causa di scioglimento per impossibilità di conseguimento dell'oggetto sociale, con conseguente applicazione ipso jure dell'art. 2486 c.c. e, al fine, dell'obbligo per gli amministratori di adottare un criterio conservativo della gestione.
Quest'ultima suggestione esegetica mi è già parsa discutibile, sia perché la causa di scioglimento prevista dal n. 2 dell'art. 2484 c.c. sembra fare riferimento ad un "difetto" della programmazione dell'attività economica esplicitata dallo statuto (infatti rimediabile tramite sua modifica), piuttosto che ad un "difetto" delle concrete modalità di esecuzione del programma statutario, sia perché la libertà di iniziativa economica prevista dall'art. 41 Cost. dovrebbe portare comunque ad una lettura restrittiva della norma, specie allorché il patrimonio netto resti positivo e, dunque, il rischio d'impresa tendenzialmente ancora allocato in capo ai soci.

In generale, tuttavia, l'affermazione che la crisi d'impresa imponga una sua gestione conservativa, allorché i creditori sociali iniziano a condividere con i soci il rischio conseguente alla stessa, richiede alcune precisazioni.

Innanzitutto, ricondurre la necessità di modifica dei criteri gestionali alla perdita di continuità aziendale ovvero alla traslazione del rischio (anche solo in parte) dai soci ai creditori sociali può significare, in realtà, tornare alla nota disciplina delle crisi "tipiche", già sopra evocata.
Da una lato, infatti, la perdita di continuità aziendale, qualunque ne sia la causa, incide innanzitutto sulla valorizzazione dei cespiti dell'attivo patrimoniale, per la quale non sarà più possibile tenere conto ex art. 2423-bis n. 1 c.c. della "prospettiva della continuazione dell'attività".

Ne deriva la normale emersione di minusvalenze, riguardanti in particolare le immobilizzazioni immateriali e le rimanenze, che incidono pesantemente sull'equilibrio patrimoniale dell'impresa, spesso conducendo la società allo scioglimento per perdita del capitale sociale ex art. 2484 n. 4 c.c., senza la necessità, dunque, di forzare l'interpretazione del n. 2 dell'art. ult. cit. al fine di provocare l'applicazione del criterio gestionale imposto dall'art. 2486 c.c.
Da un altro lato, invece, sembra corretto ritenere che la prospettiva del rischio di insoddisfazione integrale e tempestiva dei creditori, allo stato dell'organizzazione dei fattori di produzione dell'impresa, sia già stato d'insolvenza, specie se di questa nozione si accolga una concezione dinamica, che consenta di attualizzare l'aspettativa di un'inevitabile (ma futura) incapacità di regolare adempimento (7).
Allora, però, la risposta corretta a questa crisi, in realtà già qualificata, non è la gestione conservativa dell'impresa ma, come sopra riferito, il necessario ricorso ad un tipico istituto previsto dall'ordinamento concorsuale per il trattamento dello stato d'insolvenza dell'imprenditore.
D'altra parte, allorché si opti (per qualunque motivo) per l'adozione di un criterio conservativo della gestione non appena il sole dell'impresa inizi a calare, resta da specificare cosa s'intenda per "gestione conservativa", specie considerata l'ambiguità dell'aggettivazione.
Non convince punto, innanzitutto, la traduzione del concetto nell'obbligo di evitare l'assunzione di un nuovo rischio, considerato che l'attività d'impresa è ontologicamente rischiosa e siffatto obbligo, dunque, dovrebbe comportare sempre e comunque la cessazione di qualsiasi attività, ciò che non è neppure necessariamente conseguente allo scioglimento della società.
Ma anche far corrispondere la gestione conservativa ad un'attività di "ordinaria amministrazione", con tutti i dubbi che derivano dal riferire tale concetto all'attività d'impresa, lascia un margine di insoddisfazione, se l'ordinaria amministrazione deve corrispondere a conservazione della formula aziendale, con il divieto di slanci innovativi volti alla rimodulazione dell'organizzazione d'impresa.
Va considerata, infatti, la possibilità (forse, meglio, la probabilità) che quella formula aziendale che si vuole conservare sia anch'essa (o solo essa) la causa della crisi e l'origine delle perdite nelle quali, di norma, la crisi si manifesta.
Sarebbe, pertanto, decisamente poco ragionevole imporre agli amministratori di continuare imperterriti a seguire una strada che ha già portato alla crisi e non potrebbe che alimentarne le conseguenze deleterie.
Forse è più convincente, al fine, ritenere che quando si deve iniziare a "conservare", il traguardo di riferimento non sia l'organizzazione imprenditoriale ma il patrimonio sociale.

Così facendosi, tuttavia, non si fa che dare applicazione all'at. 2486 c.c., che di siffatto patrimonio costituisce il presidio ma la cui applicazione presuppone l'avvenuto scioglimento della società.
Né la regola sembra così facilmente estensibile "a monte" di una causa di scioglimento, visto che costituisce una vistosa deroga al criterio "incrementativo" (piuttosto che conservativo) del patrimonio sociale imposto alla gestione delle società dall'art. 2247 c.c., vera e propria ragione (se non "causa") del vincolo di destinazione imposto al patrimonio anche in danno dei soci.
Il tema di come affrontare, dunque, una crisi "atipica" non sembra esaurito e, per provare a rispondere alle perplessità testé evidenziate, si vuole di seguito proporre un approccio al problema che guardi, in generale e ancor prima della crisi, a come la gestione di un'impresa, specie in quanto riferita ad una società di capitali, deve sempre (e, dunque, anche prima della percezione interna della crisi) fare i conti con i creditori sociali.


3) L'art. 2394 c.c. come covenant legale: in generale

Il dato normativo che consente siffatta conclusione è offerto dall'art. 2394 c.c. che, come noto, prevede una responsabilità diretta degli amministratori di S.p.A. nei confronti dei creditori sociali nel caso di "inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale".

Detta norma, per chi scrive, non costituisce soltanto una regola di legittimazione (dei creditori sociali) all'azione di responsabilità ma offre altresì una chiara indicazione della preesistenza (rispetto all'azione) di una vera e propria regola di azione degli amministratori, volta, per l'appunto, alla "conservazione dell'integrità del patrimonio sociale", regola che va a comporre il set dei principi di corretta amministrazione evocati, tra l'altro, dall'art. 2403 c.c.
Il dovere degli amministratori di conservare il patrimonio sociale (8) trova innanzitutto espressione in un ben preciso criterio gestionale, che prescinde dallo stato di crisi della società e che, per l'appunto, impone di considerare nella gestione gli interessi dei creditori sociali, senza che questa, tuttavia, sia piegata al loro conseguimento.
S'intende dire, in particolare, che il patrimonio netto costituisce un limite del rischio razionalmente ex ante accettabile: pur se possa corrispondere all'interesse dei soci (e, quindi, all'interesse "sociale"), un'operazione particolarmente rischiosa, dalla quale possano attendersi grandi guadagni ma anche grandi perdite, cessa di essere coperta dalla Business judgment rule, quanto meno dal lato della responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali, se le perdite possibili siano in grado erodere totalmente il patrimonio netto della società.
Dall'art. 2394 c.c. e dai principi di corretta amministrazione si desume dunque in primis un dovere di conservazione del patrimonio netto, che certo potrà subire le normali conseguenze (anche negative) dell'attività d'impresa ma non potrà essere deliberatamente messo in gioco nella sua totalità, pur nell'ambito di una scelta corrispondente all'assunzione di un rischio economicamente razionale.
Il dovere espresso dall'art. 2394 c.c., cioè, si pone come contrappeso rispetto alla responsabilità limitata dei soci ed al corrispondente incentivo all'azzardo morale.
Siffatta affermazione, peraltro, si trascina ulteriori considerazioni che, più in generale, attengono al rapporto tra struttura finanziaria e gestione dell'impresa.
Se si condivide la traduzione del dovere di conservazione dell'integrità del patrimonio sociale in divieto di assunzione di un rischio che ex ante metta nel conto la possibilità di perdita integrale del patrimonio netto, si conviene anche nella conclusione che, allora, i creditori sociali sono in grado di condizionare la gestione dell'impresa sempre e comunque, anche a prescindere dalla sua crisi.
Ovvero, l'art. 2394 c.c., come regola di azione, opera come un vero e proprio covenant legale, che impone agli amministratori limiti nell'assunzione delle decisioni gestorie.
Ciò non significa, si badi, che la gestione debba essere innanzitutto indirizzata al perseguimento degli interessi dei creditori, prima che a quello dei soci, ovvero che la "diligenza" prevista dall'art. 2392 c.c. significhi sempre e comunque "prudenza".
L'art. 2247 c.c., come scritto, impone agli amministratori di puntare all'incremento del patrimonio sociale, solo a seguito del quale sarà possibile generare gli utili da distribuire tra i soci.
La prevalenza degli interessi dei creditori sociali e, con essa, la mera conservazione del patrimonio sociale, è imposta agli amministratori come criterio gestionale solo a seguito dello scioglimento della società, ai sensi dell'art. 2486 c.c., non prima.
Con la regola sopra descritta, invece, s'intende stabilire un nesso tra struttura finanziaria dell'impresa e gestione, tale per cui la seconda debba essere adeguata alla prima.
Il ricorso alla leva finanziaria, la scelta di sottocapitalizzazione della società sono scelte degli amministratori e dei soci che hanno un "costo" gestionale implicito nella limitazione del rischio che può essere legittimamente assunto.
Ciò non confligge, peraltro, con la libertà di iniziativa economica prevista dall'art. 41 Cost.: nessuno obbliga i soci di una società di capitali a dotarla di un capitale sociale incongruo né i suoi amministratori sono costretti ad indebitarla.
La struttura finanziaria di un'impresa gestita da una società di capitali è il frutto di libere scelte di soci ed amministratori, ma se queste scelte sono orientate all'eccessivo ricorso a mezzi di terzi, ciò non può non avere ricadute sulla (più limitata) libertà di manovra consentita nella gestione quanto all'assunzione del rischio.
Anche nelle società di capitali, come negli Stati sovrani, esiste un trade off tra debito e libertà: il ricorso al primo significa sacrificio della seconda.


4) Segue: nella crisi
Una seconda manifestazione del dovere di conservazione del patrimonio sociale riguarda invece il momento della crisi dell'impresa.
In particolare, la crisi che qui interessa è quella che si manifesta nella emersione di perdite di esercizio costanti e ripetute, che lascino ragionevolmente presumere la loro futura reiterazione.
Si assume, cioè, una progressiva erosione del patrimonio netto, ancora positivo e, addirittura, ancora superiore al capitale sociale (9).
A prescindere dal fatto se siffatta sequenza di esercizi in perdita corrisponda anche a cessazione della continuità aziendale oppure no (10), il dovere di conservazione del patrimonio sociale non consente agli amministratori di assistere impotenti alla sua dispersione, pur se questa non costituisce il frutto di operazioni azzardate ma, più semplicemente, la conseguenza, attribuibile ad n fattori, della inadeguatezza dell'impresa rispetto al mercato.
Nel caso di specie, l'aspettativa dei creditori sociali per una tempestiva ed integrale soddisfazione delle loro rispettive ragioni non è (ancora) messa a repentaglio ma non per questo l'inerzia degli amministratori è un comportamento lecito, anche se avallato dai soci.
Dovere di conservazione del patrimonio sociale, inteso come principio di corretta amministrazione che prescinde dagli interessi in gioco, significa qui dovere di tempestiva reazione ad una situazione che ancora non è degenerata nell'insolvenza e che è possibile che, all'esterno dell'impresa (e a prescindere da ciò che espongono i bilanci), sia sostanzialmente asintomatica.
In questa situazione di crisi "atipica" ed anche precoce, rispetto alla situazioni tipicamente presupposte dal legislatore come causa di attivazione della disciplina della crisi prevista dal codice civile o dalla legge fallimentare, l'art. 2394 c.c. consente di intravedere già un dovere degli amministratori che, tuttavia, non corrisponde alla gestione "conservativa" della twilight zone ma, al contrario, impone loro una decisa rottura con il passato imprenditoriale, mediante l'adozione di scelte di gestione anche radicalmente innovative e funzionali a rimettere in carreggiata l'impresa stessa.
A tal fine, saranno ben possibili operazioni straordinarie, con l'assunzione dei relativi costi, finalizzate, ad esempio, alla ridefinizione del perimetro dell'organizzazione, in una logica ben poco "conservativa" della passata formula aziendale.
Nel caso immaginato, di crisi reddituale che ancora lasci alla società un patrimonio netto positivo ed una capacità di regolare adempimento, ciò che si deve conservare non è l'organizzazione d'impresa ma il patrimonio sociale e, per giungere a questo obiettivo, la prima può legittimamente essere stravolta, mediante una diversa modulazione della struttura finanziaria e patrimoniale o della dinamica dei costi.
Si tratta, dunque, di una "conservazione" diversa da quella prevista dall'art. 2486 c.c., ai sensi del quale gli amministratori della società disciolta, pur dovendo aspirare alla conservazione del patrimonio, non possono avventurarsi lungo percorsi di ristrutturazione dell'impresa ma devono limitarsi alla gestione del presente, per poi passare la mano delle scelte riguardanti la gestione della liquidazione ai soci, ex art. 2487 c. 1° c.c., e ai liquidatori, ex art. 2489 c.c.
E se siffatta conservazione della formula aziendale, nel tempo richiesto per la nomina dei liquidatori, sarà in grado di generare soltanto perdite non compensabili dall'aspettativa di realizzazione di una plusvalenza dalla cessione dell'azienda in esercizio, gli amministratori, al fine della conservazione del patrimonio sociale, dovranno prendere in considerazione la cessazione tout court di ogni attività d'impresa.

Dunque, il dovere di conservazione del patrimonio durante societate ed espresso dall'art. 2394 c.c. si traduce in regole di azione degli amministratori radicalmente diverse rispetto a quelle espresse dall'art. 2486 c.c.: dal punto di vista dell'organizzazione aziendale, si tratta di imporre l'innovazione rispetto alla conservazione, pur sempre, in entrambi i casi, avendosi come parametro di riferimento il patrimonio sociale.
Peraltro, l'attribuzione agli amministratori di un vero e proprio dovere di reazione in presenza di una crisi "atipica", che si manifesti in reiterate perdite di esercizio, comporta anche una decisa anticipazione del tempo di trattamento della crisi, con le note aspettative di una sua migliore e più soddisfacente soluzione.
Non occorre attendere che le aspettative dei creditori siano ridotte al lumicino o che il capitale sociale sia sceso sotto al livello di guardia perché gli amministratori di una società di capitali siano tenuti ad un comportamento reattivo, sulla base di un obbligo il cui inadempimento genera responsabilità, nei confronti della società e dei suoi creditori.
La violazione di tale principio di corretta amministrazione consente altresì, in caso di azione di responsabilità promossa in sede concorsuale, la retrodatazione, a monte della perdita del capitale sociale, del dies a quo della generazione del danno risarcibile, pur con tutti i problemi che attengono al nesso di causalità e alla quantificazione del danno (11).
Resta da chiedersi, infine, se la reazione degli amministratori ad una siffatta crisi "atipica" possa, o debba, essere pianificata all'interno di uno degli istituti di composizione della crisi d'impresa previsti dalla legge fallimentare.
In primis, non sembra potersi dubitare del fatto che, anche se "atipica", la crisi descritta (perdite costanti, in presenza di un patrimonio netto positivo e senza allarme dei creditori) rientri nello "stato di crisi" di cui al comma 1° dell'art. 160 l. fall. e, quindi, la programmazione della sua soluzione potrebbe in astratto trovare sede nell'ambito di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti.
Tuttavia, si ricorda che uno dei presupposti di fatto da cui si muove consiste nel mantenimento di normali rapporti con i creditori sociali che, dall'esterno, non percepiscono segnali di difficoltà dell'impresa e continuano ad essere tempestivamente ed integralmente soddisfatti.
Ebbene, in tali condizioni ha poco senso ricorrere agli istituti testé ricordati per procedere ad una rimodulazione della struttura organizzativa o finanziaria dell'impresa, sia perché, magari, è sufficiente dismettere, ad esempio, un ramo d'azienda non core per acquisire la liquidità necessaria a ridurre il debito e, quindi, gli oneri finanziari, sia, e soprattutto, perché la pubblicità imposta dal ricorso al concordato preventivo o all'accordo ex art. 182-bis l. fall. è comunque deleteria nei rapporti con i creditori e, più in generale, con il mondo degli stakeholders.
Finché la crisi resta confinata nelle stanze del governo dell'impresa, manifestarla all'esterno comporterebbe inevitabilmente un'immediata degenerazione della situazione, con una vera e propria eterogenesi dei fini rispetto a quanto impone il dovere di conservazione del patrimonio sociale.

Se, quindi, nel caso di specie la soluzione della crisi deve essere affrontata sulla base di una rigorosa riservatezza dell'intervento ovvero, comunque, dei motivi dello stesso, è immaginabile procedere alla reazione mediante il ricorso ad un altro istituto, che escluda un obbligo di pubblicità, quale il piano attestato di risanamento evocato e (poco) disciplinato dall'art. 67 c. 3°, lett. d), l. fall.
Con questo, sarà possibile incidere sia sul lato del debito, mediante una sua riprogrammazione collocata nel piano attestato, sia sul lato dell'organizzazione (12), con il compimento delle operazioni straordinarie in esecuzione del piano attestato, agevolando la formazione di accordi del debitore con i terzi chiamati a partecipare al turnaround programmato per il ripristino della redditività mediante l'attribuzione del bonus dell'esonero da revocatoria, rendendosi quindi utile alla riduzione dei costi di transazione e, in ultima istanza, ad agevolare una reazione dei gestori alla crisi che, per il carattere di innovazione che può recare con sé, è verosimilmente più rischiosa (in termini di alea bilaterale) della conservazione dell'esistente (13).



1) Si tratta della rielaborazione (aggiornata anche alla luce del D.L. n. 83/2015) di una relazione tenuta in occasione del convegno "Crisi di impresa e concordato: teoria e prassi a confronto", tenutosi a Vicenza il 12 giugno 2015 sotto l'egida dell'Osservatorio Triveneto di Diritto Fallimentare e Società, relazione che trae spunto dalle riflessioni già svolte dall'autore ne La governance dell'impresa in fase di ristrutturazione, nel Fallimento, 2015, p. 253, e che tiene conto della successiva lettura di M. FABIANI, Fondamento e azione per la responsabilità degli amministratori di s.p.a. verso i creditori sociali nella crisi d'impresa, in Riv. soc., 2015, p. 272. A questi testi, oltre che a M. FABIANI, L'azione di responsabilità dei creditori sociali e le altre azioni sostitutive, Giuffrè, Milano, 2015, si rinvia per ogni riferimento dottrinale e giurisprudenziale.
2) Cfr. La governance dell'impresa in fase di ristrutturazione, cit.
3) Ciò che non può escludersi in termini assoluti, in un sistema che non richiede ex lege professionalità alcuna neppure agli amministratori di S.p.A. (se non in casi eccezionali delle società di diritto comune - cfr. art. 2409 c. 3° c.c. - ed in settori speciali dell'ordinamento societario).
4) dubito fortemente, dunque, sulla base dei presupposti esposti nel testo, della possibilità di un sindacato giudiziario in merito alla scelta del debitore di proporre istanza di fallimento in proprio, anche se non si tratti della scelta più conveniente per i creditori. peraltro, oggi, alla luce del novellato art. 163 l. fall., in presenza di una pur astratta possibilità di proposte concorrenti al rialzo, il concordato preventivo potrebbe essere ex ante sempre più conveniente per i creditori dello stesso fallimento, ciò che, ab absurdo, conferma la convinzione della non sindacabilità dell'istanza di fallimento in proprio.
5) né ritengo che la qualificazione dello sbilancio patrimoniale come stato di crisi sia sindacabile da parte del tribunale chiamato a valutare la sussistenza dei presupposto di cui al comma 1° dell'art. 160 l. fall.: appartiene agli interna corporis della società stabilire se e quanto lo sbilancio abbia altresì incidenza sulla futura gestione dell'impresa e, pertanto, se possa o meno essere l'anticamera di un vero e proprio stato d'insolvenza.
6) A conforto dell'affermazione per cui lo squilibrio patrimoniale che determina una perdita superiore al terzo del capitale sociale, riducendolo al contempo sotto al minimo legale, è sempre "stato di crisi" ex art. 160 c. 1° l. fall., si segnala che l'art. 182-sexies l. fall., con il suo richiamo degli artt. 2446, commi 2° e 3°, e 2482-bis, commi 4°, 5° e 6°, del codice civile, presuppone la possibilità di deposito di una domanda c.d. protettiva anche soltanto in presenza di una perdita qualificata che lasci il capitale sociale al di sopra del suo minimo legale.
7) Cfr. D. GALLETTI, La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna, 2006, p. 191 ss.
8) I principi di corretta amministrazione, peraltro, valgono a prescindere dal tipo societario, sì che il dovere di protezione del patrimonio sociale vige, ad esempio, anche nella s.r.l., a prescindere dall'opinione in tema di estensibilità a questo tipo dell'azione di responsabilità ex art. 2394 c.c., e nell'esercizio di attività di direzione e coordinamento di società ex art. 2497 c.c.
9) L'integrità del capitale sociale, ai fini del ragionamento esposto nel testo, è peraltro una possibilità, non una necessità.
10) Il "documento n. 570" del CNDCEC in materia di continuità aziendale individua, tra gli indicatori finanziari sintomatici della perdita di continuità, "bilanci storici o prospettici che mostrano cash flow negativi" e "consistenti perdite operative o significative perdite di valore delle attività che generano cash flow", riconoscendo un'innegabile liaison tra perdite di esercizio e continuità aziendale.
11) Cfr. di recente Cass. civ., se. unite, 6 maggio 2015, n. 9100, ove pure si ripropone la possibilità, in ogni caso, di una valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.
12) Tale flessibilità operativa non può riconoscersi, invece, alla nuova convenzione di moratoria prevista dall'art. 182-septies l. fall., introdotto con il D.L. n. 83/2015, la quale, pur se non destinata ad essere pubblicata nel registro delle imprese, è funzionale solo ad operazioni di ristrutturazione del debito finanziario, in un contesto nel quale, peraltro, quanto meno il credito professionale del sistema bancario è già in stato di allerta.
13) Sul concetto giuridico di "rischio", cfr. M. MAUGERI, Note in tema di doveri degli amministratori nel governo del rischio di impresa (non bancaria), nella Rivista telematica di ODC, anno II, 2014, p. 6 ss.



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