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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 26/10/2015 Scarica PDF

Brevi note sulla chiusura della procedura fallimentare in pendenza di giudizi

Saverio Mancinelli, Dottore Commercialista in Pescara


Sommario: 1. Premessa – 2. Ragioni di credito – 3. Controversie insorte per iniziativa o contro la curatela – 4. Obbligo di chiusura del curatore – 5. Facoltà di chiusura del curatore – 6. Ultrattività degli organi – 7. Conclusioni


   

1. Premessa

Nell’ultima decretazione d’urgenza attuata mediante il D.L. 83/2015, convertito con mod. dalla L. 134/2015, il legislatore ha (ulteriormente e per l’undicesima volta[1]) modificato numerosi profili della legge fallimentare; tra le ultime novità introdotte, quella che statisticamente ha, senza alcun dubbio, un impatto maggiore per gli “addetti ai lavori” riguarda la modifica introdotta nell’art. 118, poiché coinvolge decine di migliaia di procedure in cui la pendenza di giudizi risulta ostativa alla chiusura.

Alla luce delle modifiche apportate nell’art. 118, L.F. dal legislatore del 2015, appare legittimo rivisitare le possibilità di cessazione di una procedura fallimentare in pendenza di giudizi, considerando che le controversie in cui potrebbe essere coinvolto un fallimento possono riguardare le ragioni di credito nei confronti della procedura, oppure essere riferite a cause insorte per iniziativa della curatela o contro la curatela.

 

2. Ragioni di credito

I giudizi che cadono nell’ottica della problematica delle ragioni di credito sono: l’opposizione allo stato passivo, l’impugnazione di crediti ammessi e la revocazione contro crediti ammessi, cui si aggiunge la pendenza dell’istanza di insinuazione tardiva di credito, che nella vigente normativa è disciplinata con le medesime regole dell’insinuazione tempestiva. Tali giudizi non sono mai stati ostativi alla chiusura di una procedura fallimentare.

Per i giudizi di impugnazione e revocazione, il legislatore del 1942 aveva elargito alcuni dati di esplicita lettura: la legge fallimentare ante riforma all’art. 100, comma 3, prevedeva un accantonamento obbligatorio per la quota spettante al creditore impugnato e all’art. 102, comma 4, prevedeva un accantonamento facoltativo per la quota spettante al creditore convenuto in un giudizio di revocazione.

Nell’art. 100, che disciplinava l’impugnazione, poiché la legge faceva riferimento a ogni specie di ripartizione, non vi era dubbio che la contestazione sul credito ammesso, con conseguente disposizione del giudice di accantonamento di quote spettanti, non impedisse anche la ripartizione finale e, conseguentemente, la chiusura del fallimento ex art. 118, nn. 2 e 3, L.F.

Invece, per il procedimento di revocazione contro crediti ammessi, l’accantonamento era rimesso al prudente, discrezionale apprezzamento del giudice, cui era demandato di valutare se ciò che dovesse prevalere era l’interesse che hanno tutti gli altri creditori e soprattutto, l’interesse che ha il fallito a vedere chiudersi il fallimento.

Quest’ultima possibilità di chiusura testimoniava, se non altro, che il legislatore non aveva voluto categoricamente subordinare la chiusura del fallimento all’accertamento definitivo del passivo. Tale riflessione era tanto più valida considerando che, nei casi di impugnazione di crediti ammessi, un provvedimento giurisdizionale di ammissione del credito, anche se provvisorio, c’era stato e che, nei casi di istanza di revocazione, un provvedimento giurisdizionale di ammissione del credito, anche con effetto di giudicato, c’era stato. Allora, se non vi era preclusione quando proseguiva un giudizio su un credito che, sia pure in sede di processo sommario di verifica, il giudice delegato aveva ammesso, a fortiori non vi poteva essere preclusione nei casi in cui neppure si era attuata una pronuncia positiva di ammissione. Inoltre, esisteva (ed esiste) nella normativa un riferimento diretto e specifico nell’art. 118, n. 2, L.F., laddove si prevede la chiusura del fallimento una volta pagati o comunque estinti i crediti ammessi. Ora, poiché dal novero dei crediti ammessi devono certamente escludersi i crediti tardivi in pendenza ed i crediti opposti, ne conseguiva il potere-dovere del giudice di dichiarare la chiusura del fallimento quando era avvenuta l’estinzione dei crediti ammessi, indipendentemente dal fatto che pendessero richieste d’insinuazione tardiva e giudizi di opposizione allo stato passivo [2].

Con la riforma la possibilità di chiusura in pendenza di ragioni di credito è stata ulteriormente ampliata; infatti, quella che era la fase necessaria della verifica del passivo (ovvero l’imprescindibile esame delle insinuazioni tempestive previsto dalla L.F. ante riforma) è divenuta “eventuale”. Dietro motivata istanza del curatore ex art. 102 L.F., il tribunale può decretare di non procedersi all’accertamento del passivo, anche in presenza di domande di ammissione e prima dell’udienza per la verifica, qualora risulti che non vi sia una prospettiva di realizzazione di attivo distribuibile ai creditori.

Ne discende il rafforzamento della possibilità di chiusura del fallimento in pendenza della verifica di qualsiasi ragione di credito, bilanciando tali ragioni con la prospettiva dell’attivo distribuibile.

La conclusione cui si perviene è che la “chiusura della porta in faccia” al creditore tempestivo, al fine di pervenire alla rapida cessazione della procedura, va sempre valutata dagli organi del fallimento nello specifico, alla luce del principio non scritto della ragionevolezza, connesso alla potenziale collocazione del credito in relazione all’attivo realizzabile e distribuibile.

 

3. Controversie insorte per iniziativa o contro la curatela

Prima del D.L. 83/2015, la “non chiusura” della procedura fallimentare coincideva frequentemente con la pendenza di controversie insorte per iniziativa della curatela o contro la curatela, che si consideravano (certamente) ostative alla chiusura della procedura, salvo la possibilità, introdotta medio tempore dalla riforma, di cessione delle azioni revocatorie (art. 106 L.F.).

Oggi, mediante l’intervento del 2015, si prevede che la chiusura del fallimento, per ripartizione finale dell’attivo, non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto cui il curatore mantiene la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell’art. 43 L.F.

La norma ha l’obiettivo di arginare l’effetto della legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. “legge Pinto”), che ha riconosciuto un’equa riparazione per la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, con risvolti non marginali sulle “casse dello Stato”[3].

Definito l’obiettivo del legislatore, occorre premettere che la modifica dell’art. 118, essendo di tipo procedimentale, è applicabile a tutte le procedure e non solo a quelle dichiarate dopo l’entrata in vigore del D.L. 83/2015. Nel contempo, prima facie, sembra assistersi ad uno “scollamento” della nuova norma innestata nel tessuto della preesistente normativa, in quanto con il D.L. 83/2015, conv. con mod. dalla L. 134/2015:

· il riferimento per la chiusura in pendenza di giudizi, introdotto nell’art.118, secondo comma, è (solo) alla chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3 («compiuta la liquidazione dell’attivo»), con richiamo finale (solo) all'art. 43 L.F. (che si riferisce ai “rapporti di diritto patrimoniale del fallito”);

· resta (forse colpevolmente) immutato l’art. 116, titolato “Rendiconto del curatore”, che premette “compiuta la liquidazione dell'attivo …” alla possibilità di presentazione del conto della propria gestione da parte del curatore;

· resta (forse colpevolmente) immutato l’art. 117, titolato “Ripartizione finale” che recita “approvato il conto e liquidato il compenso del curatore, il giudice delegato … ordina il riparto finale”;

· resta (forse colpevolmente) immutato il secondo comma dell’art. 120, dove si legge che dopo la chiusura “le azioni esperite dal curatore per l'esercizio dei diritti derivanti dal fallimento non possono essere proseguite”;

· è stato (correttamente) aggiunto un ultimo comma nell’art. 120, prevedendo per l’ipotesi di cessazione in pendenza di giudizi, (solo) in deroga al primo comma dell’art.120, l’ultrattività degli organi della procedura (il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini della gestione della liti e dei successivi riparti post chiusura).

Infine, resta il dubbio se l’art. 118 secondo comma, relativo alla chiusura anticipata pur in pendenza di controversie, costituisca un obbligo oppure una facoltà per il curatore[4].

Tutto ciò considerato, premesso e con un imprescindibile “forse”, la soluzione percorribile è quella che si aprano due strade, che potremmo definire (nella prima interpretazione) “strada dell’obbligo” e (nella seconda interpretazione) “strada della facoltà” di chiusura della procedura fallimentare da parte del curatore, in ipotesi di pendenza di giudizi.

 

4. Obbligo di chiusura del curatore

Dalla lettura della norma [“La chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) non è impedita dalla pendenza di giudizi”] sembra di capire che la «compiuta la liquidazione dell’attivo» (caso di cui al n. 3, dell’art. 118), dopo aver effettuato i “passaggi” del conto della gestione e della liquidazione del compenso al curatore, obbliga il curatore al riparto finale, che trascina la chiusura del fallimento come appendice obbligatoria ed ineludibile. Tuttavia, se è corretta tale interpretazione e quale “rovescio della medaglia”, potrebbe essere ostativa alla chiusura del fallimento qualsiasi controversia che possa in qualche modo incidere sulla composizione della massa attiva fallimentare, proprio perché non si è ancora «compiuta la liquidazione dell’attivo». Depongono per un’interpretazione in tal senso il fatto che l’art. 116 (titolato “Rendiconto del curatore”, che premette “compiuta la liquidazione dell'attivo …” alla possibilità di presentazione del conto della propria gestione da parte del curatore) e che l’art. 117 (titolato “Ripartizione finale”, che recita “approvato il conto e liquidato il compenso del curatore, il giudice delegato … ordina il riparto finale), siano rimasti invariati. Ne consegue che non dovrebbe essere ostativa alla chiusura (solo) una controversia che potrebbe incidere su una posizione “passiva”, in quanto il curatore nel riparto finale può (o meglio “deve”) accantonare la somma massima che potrebbe scaturire a debito all’esito di tale giudizio e sembra discenderne un obbligo del curatore di chiusura del fallimento soltanto ove ricorra tale fattispecie.

 

5. Facoltà di chiusura del curatore

Diversamente se la volontà del legislatore va letta come chiusura della procedura (anche) in attesa di un possibile, ulteriore attivo scaturente dalla pendenza di controversie, sembra aprirsi uno scenario che conduce a situazioni “magmatiche”, dense di problematiche, che certamente potrebbero condurre ad una facoltà “caso per caso” di chiusura, ma certamente non ad un obbligo assoluto da parte del curatore.

In particolare:

- sembrerebbe da escludere la possibilità di chiusura della procedura se il giudizio pendente ha come oggetto un’azione revocatoria finalizzata al recupero di beni in natura, per i quali post chiusura sarebbe necessario procedere ad un supplemento del programma di liquidazione e ad una procedura competitiva per ottenerne il realizzo; infatti, la norma introdotta consente solo riparti successivi alla chiusura e non liquidazioni supplementari[5];

- non è da sottovalutare l’eventualità che le somme da incassare a seguito di un felice esito del contenzioso pendente per la procedura, possano essere soggette a fatturazione (“attiva” da parte della procedura[6]). In tale fattispecie appare non proponibile la cessazione della procedura, in quanto la chiusura della posizione IVA può (solo) essere anticipata e non certo posticipata rispetto alla chiusura del fallimento, a meno che non intervenga una norma che consenta al curatore di mantenere la soggettività tributaria anche dopo la chiusura del fallimento (con connessi adempimenti fiscali);

- dopo la definizione di una controversia, vi sono quasi certamente somme soggette a fatturazione (“passiva” nei confronti della procedura) per le parcelle dei legali. Va da sé che, in caso di chiusura anticipata, sussiste una perdita del credito IVA che matura con i pagamenti che avvengono post chiusura[7];

- il riparto supplementare (cioè post riparto finale) potrebbe condurre ad una spirale non semplice; infatti, i creditori emettono nota di credito per il recupero dell’IVA in relazione al mancato pagamento in sede di chiusura e, nel caso in cui post chiusura, definita l’azione giudiziaria pendente, si vada a recuperare ulteriore liquidità da distribuire ai creditori, la nota di variazione IVA dovrebbe essere (ri)stornata con la (ri)emissione di una nuova fattura per la parte di credito successivamente recuperata, in proporzione al credito assegnato[8];

- necessita calcolare come voce di spesa futura il (maggior) compenso dovuto al curatore in relazione ad un eventuale esito positivo dei giudizi suddetti con le sopravvenienze attive che ne potrebbero derivare per la procedura o, preferibilmente, il tribunale dovrebbe liquidare un compenso in acconto al curatore sui parametri di attivo e passivo “certi” al momento della chiusura “anticipata”, salvo statuizione del definitivo all’esito dei giudizi, con liquidazione supplementare[9].

Ne consegue che dalla pendenza di controversie da cui potrebbe derivare un attivo per la procedura, sembra discendere solo una facoltà di chiusura da parte del curatore, da valutare nello specifico.

 

6. Ultrattività degli organi

Una volta chiuso il fallimento permane l’ultrattività solo del giudice delegato e del curatore, tant’è che, in deroga all’art. 35, che prevede la preventiva autorizzazione del comitato dei creditori, «anche le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato».

Appare indispensabile coordinare tale ultrattività “mirata” del curatore con varie problematiche connesse alla cancellazione della società fallita dal registro delle imprese, che dovrebbe intervenire in quanto “la chiusura della procedura di fallimento (è avvenuta) nel caso di cui al n. 3” dell’art. 118[10].

Tra le possibili problematiche, ci si limita a segnalarne solo due, ovvero:

a) l’esistenza del conto corrente bancario della procedura, che dovrebbe restare aperto nonostante la chiusura della procedura e la cancellazione di codice fiscale e partita IVA del soggetto fallito;

b) la permanenza dell’indirizzo p.e.c. della procedura, che dovrebbe restare attivo (e visibile) nonostante il curatore debba provvedere alla cancellazione della società dal registro delle imprese.

 

7. Conclusioni

E’ indubbio che le “ragioni di Stato” impongano al legislatore delle esigenze, tant’è che il filo conduttore della riforma fallimentare ha l’obiettivo della celerità delle procedura concorsuale, imposta anche dal diritto alla ragionevole durata del processo.

Tuttavia non andrebbe bypassato il diritto degli “addetti ai lavori” di avere una ragionevole comprensione e conseguente attuazione delle norme, non dimenticando che i migliaia di curatori, organi gestionali che attendono lumi sulla possibilità di chiusura per fallimenti ultrasettennali la cui cessazione era impedita dalla pendenza di giudizi, potrebbero essere ritenuti responsabili per un ingiustificato ritardo nella chiusura della procedura (che comprime i diritti del fallito e le attese dei creditori) e che, ove lo Stato dovesse subire una condanna ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 1989[11], potrebbe essere esercitata azione di regresso, per la condanna subita, nei confronti del curatore “responsabile”.



[1] Le prime norme di riforma venivano inizialmente introdotte nel nostro ordinamento nel marzo 2005, tramite decreto legge (D.L. 14 marzo 2005, n. 35); successivamente una riforma generale veniva varata nel gennaio 2006 (D.Lgs. n. 5 del 9 gennaio 2006), che veniva “corretta” nel settembre 2007 (D.Lgs. n. 169 del 12 settembre 2007). Tra i tre decreti “cardine” della riforma sono stati inseriti interventi legislativi minori, definibili di “aggiustamento ed evoluzione”, attuati mediante la seguente decretazione d’urgenza: - D.L. 30 dicembre 2005, n. 273 convertito dalla L. 23 febbraio 2006, n. 51; - D.L. 29 novembre 2008, n.185, convertito dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2; - D.L. 31 maggio 2010, n. 78 convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122; - D.L. 6 luglio 2011, n. 98 convertito dalla L. 15 luglio 2011, n.111; - D.L. 22 giugno 2012 n. 83, convertito, con modifiche, dalla L. 7 agosto 2012 n. 134; - D.L. 18 ottobre 2012 n. 179, convertito dalla L. 17 dicembre 2012 n. 221; - D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98; - D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015, n. 132.

[2] Apice, Diritto fallimentare,coordinato da Lo Cascio,Milano, 1996, p. 1012.

[3] Tutta la riforma fallimentare contiene l’obiettivo della celerità delle procedura concorsuale, imposta anche dal diritto alla ragionevole durata del processo. Una riflessione su detto profilo richiede di ricordare che la lunghezza dei procedimenti giudiziari italiani è divenuta una “questione giuridica”, quando, a partire dagli anni novanta, la Commissione europea dei diritti dell’uomo e la Corte europea dei diritti dell’uomo, avevano iniziato a sanzionare il nostro Stato per la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo. In particolare, sul finire dello scorso secolo, la Corte di Strasburgo aveva affermato che l’irragionevole durata della procedura fallimentare comporta per il fallito «la sussistenza di un pregiudizio materiale e morale risarcibile», in quanto egli è parte del processo. La “risposta” del nostro legislatore è stata la legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. “legge Pinto”), che ha riconosciuto un’equa riparazione per la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo (in argomento v. ampiamente Il Fallimento n. 9/2010, interamente dedicato alla “ragionevole durata delle procedure concorsuali”). Per quanto ci occupa, secondo la Suprema Corte (Cass. 4 novembre 2010, n. 22511) si individuano in sede concorsuale una pluralità di domande di ammissione al passivo, di ricorsi per insinuazione tardiva, di opposizioni allo stato passivo ed anche di azioni civili ordinarie, cosicché non appare ammissibile estendere nel procedimento di fallimento il termine ragionevole di durata stabilito per un processo di cognizione o di esecuzione individuale; la durata ragionevole potrebbe, quindi, essere individuata in tre anni solo nel caso di fallimento con unico creditore o, comunque, con ceto creditorio limitato, senza profili contenziosi, mentre quella di sei / sette anni potrebbe essere ritenuta congrua tenuto conto di tre gradi dei procedimenti incidentali e di un anno ulteriore per il riparto dell’attivo [cfr. Cass. n. 12936/2011 e, da ultima, v. Cass. n. 10233/2015 secondo cui la durata ragionevole delle procedure fallimentari può essere stimata in cinque anni per quelle di media complessità, elevabile fino a sette anni allorquando il procedimento si presenti notevolmente complesso; ipotesi, questa, ravvisabile in presenza di un numero elevato di creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.), della proliferazione di giudizi connessi alla procedura, ma autonomi e, quindi, a loro volta di durata condizionata dalla complessità del caso, oppure della pluralità delle procedure concorsuali interdipendenti].

[4] Dalla locuzione “non è impedita dalla pendenza di giudizi”, sembrerebbe propendersi per la seconda interpretazione, anche se il tutto va visto, come si espliciterà, in relazione alla “portata” che va attribuita alla novella.

[5] Dopo la chiusura della procedura di fallimento, le assegnazioni delle somme ricevute dal curatore per effetto dei provvedimenti definitivi e gli eventuali residui degli accantonamenti avvengono mediante un “riparto supplementare” fra i creditori, secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di chiusura del fallimento e «in relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento». La soluzione introdotta dal legislatore del 2015 è ripresa dall’art. 92, commi 7° e 8°, del Testo Unico Bancario ed in particolare nella norma dedicata agli adempimenti finali della liquidazione coatta amministrativa delle banche.

[6] Ad esempio per lo svincolo di ritenute a garanzia relative ad un preesistente appalto, dove tali somme vengono definite solo dopo l’esito del contenzioso.

[7] Non vi è neanche la possibilità di compensazione con le ritenute sui compensi pagati, in quanto una procedura chiusa non dovrebbe conservare la qualifica di sostituto d’imposta.

[8] V. Agenzia delle Entrate, risoluzione 127 E del 2008

[9] Problema non marginale potrebbe derivare da una procedura il cui unico (incerto) attivo è legato alla definizione di una controversia pendente: la chiusura anticipata con liquidazione provvisoria del compenso al curatore sui parametri di attivo e passivo “certi”, andrebbe posta a carico dell’Erario, salvo in caso di felice esito del contenzioso, porre il compenso definitivo a carico della procedura (con restituzione di quanto pagato dall’Erario … ?).

[10] La cancellazione della società fallita dal registro delle imprese, su richiesta del curatore, è limitata ai soli casi in cui alla cessazione del fallimento non vi siano più beni nel patrimonio sociale (chiusura ai sensi numeri 3 e 4 dell’art.118), evitandola negli altri casi (chiusura di cui ai numeri 1 e 2 del medesimo articolo).

[11] Nell’attuale orientamento della Suprema Corte il danno non patrimoniale va quantificato, per ogni creditore ricorrente, in euro 750 per ciascuno dei primi tre anni di ritardo ed in euro 1.000 per quelli successivi ed il giudice di merito, pur potendo discostarsi dagli ordinari criteri di liquidazione, non può assumere come vincolante e come limite massimo il valore del credito ammesso al passivo, in quanto, la maggiore o minore entità della posta in gioco può incidere sulla misura dell'indennizzo, consentendo al giudice di scendere anche al di sotto della soglia minima, ma non anche di parificare la liquidazione al valore della causa in cui si è verificata la violazione.



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