Bancario


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 03/08/2016 Scarica PDF

Le due facce della prescrizione - Nella capitalizzazione degli interessi si cela una mistificazione

Roberto Marcelli e Amedeo Valente, Consulenti Finanziari


Sommario. 1. Premessa. 2. I principi giuridici fissati dalla Cassazione S.U. n. 24418/10 e la Delibera CICR 9/2/00. (pag. 2). 3. L’apertura di credito e il criterio di priorità dell’art. 1194 c.c. (pag. 9).  4. Sintesi e conclusioni. (pag. 23).

 

 

1. Premessa

I comportamenti pregressi e correnti degli operatori bancari risultano pervasi da diffuse e radicate illiceità, poste in luce dai principi fissati dalla Suprema Corte che ha definito e circoscritto, al tempo stesso, l’ambito operativo della prescrizione delle azioni di ripetizione dell’indebito.

In base alla sentenza della Cassazione S.U. n. 24418/10 ogni annotazione di interesse illegittimo, pagato in conto con rimesse solutorie, non è più ripetibile decorso il termine prescrizionale dei dieci anni.

Nelle numerose vertenze che interessano la ripetizione dell’indebito, su indicazione dei quesiti posti dai giudici, i consulenti chiamati alla rideterminazione del saldo di conto corrente, in accordo ai principi posti dalla menzionata sentenza della Cassazione S.U. 24418/10, rivolgono le rimesse solutorie, accertate oltre il decennio a ritroso. In tale ricostruzione, le rimesse vengono imputate, prioritariamente ex art. 1194 c.c., a pagamento degli interessi, frequentemente senza distinzione alcuna fra interessi relativi al fido ed interessi relativi all’extra fido.

In linea con il medesimo assetto dei principi che presiedono i pagamenti, anche gli interessi a debito annotati in conto che risultino liquidi ed esigibili, decorso un quinquennio, ancorché legittimi, se non è intervenuta alcuna rimessa solutoria, si prescrivono e non possono essere pretesi dalla banca.

Se gli interessi sono liquidi ed esigibili, in assenza di rimesse di pagamento, perdurando l’inerzia dell’intermediario a pretenderne il pagamento, il diritto viene meno decorso il quinquennio. L’art. 2948 c.c. al punto 4) è chiaro nell’enunciato: ‘si prescrivono in cinque anni: gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi.

Nel principio di pagamento sancito dalla menzionata sentenza si dischiude implicitamente un limite ulteriore, che integra e completa il divieto disposto dall’art. 1283 c.c.: la prassi bancaria di praticare in via automatica l’anatocismo nei rapporti bancari induce un ritardo nella riscossione degli interessi che incontra un presidio temporale nell’art. 2948 c.c..

Questo limite può costituire un singolare ed inesplorato terreno di contestazioni che, per gli anni pregressi – prima e dopo la Delibera CICR 9/2/00 – può trovare un concreto e sostanziale fondamento giuridico nella stessa pronuncia della menzionata Cassazione n. 24418/10. Se da un lato la banca può avanzare la prescrizione sugli addebiti illegittimi, che risultano pagati da oltre dieci anni, dall’altro il correntista può esimersi dal pagare gli interessi, ancorché legittimi, che la banca ha mancato di esigere nei cinque anni successivi.

La tematica presenta tuttavia sfaccettature di particolare complessità, che coinvolgono pregnanti aspetti specialistici attinenti agli affidamenti in conto, al criterio di applicazione dell’art. 1194 c.c. e alla corretta applicazione della deroga al divieto di anatocismo consentita dalla Delibera CICR 9/2/00.

   

2. I principi giuridici fissati dalla Cassazione S.U. 24418/10 e la Delibera CICR 9/2/00

Con la menzionata sentenza delle Sezioni Unite si è ridimensionato il precedente orientamento giurisprudenziale di legittimità (Cfr. Cass. n. 5720/04, n. 19127/05) che, fondato sull’unicità del contratto, senza distinzione alcuna, rinviava esclusivamente al termine del rapporto la decorrenza della prescrizione. Quest’ultima, nel nuovo orientamento della Cassazione, per i pagamenti, viene riferita ai singoli atti giuridici.

Nel caso specifico di nullità della clausola di capitalizzazione, imprescrittibile a norma dell’art. 1422 c.c., la ripetizione di quanto indebitamente pagato a titolo di interessi illegittimamente computati è soggetta alla prescrizione decennale, che comincia a decorrere, ai sensi dell’art. 2935 c.c., dal giorno in cui il diritto alla ripetizione può essere fatto valere, cioè a dire dal pagamento all’intermediario bancario.

La sentenza, operando un distinguo fra conto corrente e apertura di credito,[2] circoscrive solo a quest’ultima il rinvio all’estinzione del saldo di chiusura del termine di prescrizione. Per l’operatività che esula dall’apertura di credito, alle rimesse viene riconosciuta una natura di pagamento, con risvolti di pregnante rilievo, oltre che nel termine di prescrizione, nell’applicazione stessa dell’art. 1194 c.c..

In presenza di un affidamento, qualora ‘il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto passivo (o, come in simili situazioni si preferisce di dire ‘scoperto’) cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire il passivo eccedente i limiti dell’accreditamento. Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere.’ (Cass. S.U. 24418/10).

E’ implicito, nel costrutto logico seguito dalle Sezioni Unite, il presupposto che le annotazioni e le chiusure periodiche del conto corrente bancario assumono un mero valore contabile, insuscettibile di modificare la natura degli interessi registrati in conto.[3]

La banca registra in un unico conto, oltre alle poste modificative del credito, anche gli interessi e competenze che calcola trimestralmente, incrementando il capitale a credito utilizzato dal cliente, senza riferimento ad alcuna rimessa di pagamento: quest’ultima, quando interviene, viene portata a deconto dell’esposizione.

Il saldo viene così influenzato dall’annotazione in conto degli interessi: questo induce una limitazione dell’indebitamento consentito dall’affidamento, ma non configura un pagamento anticipato degli stessi. Il correntista, per le illecite annotazioni a debito del conto, potrà agire per ottenerne la rettifica e recuperare in tal modo una maggiore disponibilità di credito entro i limiti del fido concesso, ma non potrà agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, non ha ancora avuto luogo.

Nel conto assistito da apertura di credito, la presenza di un passivo che non configuri uno scoperto, cioè che rimanga entro i limiti di fido, costituisce un debito del correntista non immediatamente esigibile e le rimesse che intervengono in conto non hanno una funzione solutoria, ma soltanto una funzione di ripristino della disponibilità (distinzione impiegata dalla giurisprudenza di legittimità per individuare le rimesse bancarie soggette a revocatoria).

Il valore nomofilattico del principio espresso dalla Cassazione, salvo sporadiche opinioni discordi, viene raccogliendo una generale condivisione e adeguamento della giurisprudenza di merito[4].

Tale principio non risulta derogabile per gli interessi e competenze regolati dalla Delibera CICR 9/2/00[5]: i termini anatocismo e capitalizzazione risultano confusi nell’opaco sistema di contabilizzazione dei conti correnti bancari, ma la Delibera CICR non puo’ consentire una loro assimilazione.

L’art. 1 della Delibera prevede che ‘gli interessi possono produrre a loro volta interessi secondo le modalità e i criteri indicati negli articoli che seguono’. Si ritiene pertanto che anche gli interessi annotati in conto successivamente al luglio ‘00, ancorché produttivi di interessi, conservino la loro natura e non possano fondersi con il capitale: non risulta, in altri termini, legittimo ritenere che l’annotazione in conto si risolva nel pagamento degli interessi attraverso la loro capitalizzazione, intesa nel senso di trasformazione dall’obbligazione accessoria d’interessi in obbligazione principale per sorte capitale. La norma delegante (D. Lgs 342/99) prevede la produzione di interesse su interessi e non anche la loro capitalizzazione, che ne muterebbe la natura.

Nella Delibera del CICR, tuttavia, si opera una equivoca commistione fra i termini, travisando il dettato della legge. Del tutto improprio risulta il reiterato termine ‘capitalizzazione’ impiegato nell’art. 6 della Delibera stessa dove si stabilisce: ‘I contratti relativi alle operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito stipulati dopo l’entrata in vigore della presente delibera indicano la periodicità di capitalizzazione degli interessi e il tasso di interesse applicato. Nei casi in cui è prevista una capitalizzazione infrannuale viene inoltre indicato il valore del tasso, rapportato su base annua, tenendo conto degli effetti della capitalizzazione. Le clausole relative alla capitalizzazione degli interessi non hanno effetto se non sono specificatamente approvate per iscritto.’.

Nei limiti del mandato assegnato dalla legge al CICR il termine ‘capitalizzazione’ non puo’ che essere inteso nel significato tecnico-matematico: gli interessi maturano, scadono, si rendono esigibili, contabilmente si fondono con il capitale, il cui montante produrrà nuovi interessi, ma conservano la loro natura.

Nell’alveo della delega assegnata dalla norma di legge al CICR, il termine capitalizzazione risulta, in chiave giuridica, ultroneo e non può che essere inteso matematicamente, come contabilizzazione di interessi su interessi. Più propriamente l’enunciato dell’art. 1 della Delibera CICR 9/2/00 replica pedissequamente quanto demandato dall’art. 25, 2° comma della norma di legge: ‘Il CICR stabilisce modalita' e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attivita’ bancaria’. In questi termini dovranno ineludibilmente essere intese le prescrizioni della Delibera stessa.

Una diversa interpretazione sortirebbe riflessi di apprezzabile rilievo. Si verrebbe a derogare dai principi stabiliti dalla Cassazione S.U. n. 24418/10 e, a partire dalla Delibera, per il pagamento degli interessi si prescinderebbe dalle rimesse di pagamento: con la semplice annotazione in conto si muterebbe la natura dell’obbligazione e si realizzerebbe ipso facto, il trasferimento patrimoniale, con tutti i risvolti giuridici che ne conseguono[6].

Così facendo si verrebbero a trattare gli interessi alla stregua di qualsiasi obbligazione pecuniaria, stravolgendo uno dei principio cardine dell’ordinamento: ‘il debito di interessi, pur concretandosi nel pagamento di una somma di denaro, non si configura come un’obbligazione pecuniaria qualsiasi, ma presenta connotati specifici, sia per il carattere di accessorietà rispetto all’obbligazione relativa al capitale, sia per la funzione (genericamente remunerativa) che gli interessi rivestono, sia per la disciplina prevista dalla legge proprio in relazione agli interessi scaduti’ (Cassazione S.U. n. 9653/01) [7].

Altre mistificazioni caratterizzano da un lato l’applicazione dell’art. 1194 c.c., dall’altro l’operatività dell’apertura di credito, interagendo con gli aspetti sopra illustrati e sollevando criticità, alle quali la giurisprudenza non ha dato, ad oggi, una compiuta, chiara e definitiva risposta.


3. L’apertura di credito e il criterio di priorità dell’art. 1194 c.c.

Come è noto, in precedenza la prevalente giurisprudenza ha costantemente ritenuto inapplicabile il disposto dell’art. 1194 c.c. al rapporto di conto corrente.

Si è ricorrentemente osservato che le operazioni di prelievo e versamento in conto non danno luogo ad autonomi rapporti di debito o credito tra la banca e il cliente, ma rappresentano momenti distinti di un’unica fattispecie contrattuale: se si desse credito all’autonomia di ogni movimento, trascurando completamente l’unicità del rapporto, l’applicazione dell’art. 1194 c.c. nei conti c.d. ‘mossi’, condurrebbe ad escludere ogni forma di anatocismo. Con la richiamata sentenza della Cassazione S.U. n. 24418/10 si sono ridimensionati i riflessi operativi conservando l’unicita’ del rapporto di durata. In presenza di un’apertura di credito non si configura nel corso del rapporto alcun credito liquido ed esigibile della banca a fronte del quale il pagamento da parte del cliente vada imputato in conto interessi.

Con i principi di pagamento introdotti dalla Suprema Corte, tuttavia, l’inapplicabilità dell’art. 1194 c.c. al rapporto di conto non rimane più assoluta. Ridimensionando il rinvio esclusivo al termine del rapporto della decorrenza della prescrizione e attribuendo un valore dirimente alla natura solutoria o ripristinatoria delle rimesse in conto, viene implicitamente ad essere riconosciuta, entro un perimetro delimitato e circoscritto, l’applicazione del criterio di priorità posto a tutela del creditore dall’art. 1194 c.c..

Nel caso di rimesse solutorie, prima di ripianare il credito in conto capitale, il pagamento deve essere rivolto a ripianare gli interessi; con la liquidazione degli interessi e il pagamento conseguente alla rimessa solutoria, non si determina alcuna forma traversa di capitalizzazione.

Il comma 2 dell’art. 1194 c.c. non sembra lasciare spazio a letture difformi da quella sopra illustrata: nel pagamento la priorità è accordata all’interesse.

Consolidata giurisprudenza, tuttavia, ritiene che, per l’applicazione del criterio legale di imputazione dell’art. 1194 c.c., si renda necessario che sia il capitale sia gli interessi risultino liquidi ed esigibili[8].

La Cassazione, in una sentenza del ‘03 (Cass. Civ., Sez. I, 16 aprile 2003 n. 6022, richiamata più recentemente dalla Cass. Civ. Sez. III, n. 16448/09) puntualizza: “La disposizione dell'art. 1194 c.c. secondo la quale il debitore non può imputare il pagamento al capitale piuttosto che agli interessi o alle spese senza il consenso del creditore, presuppone che tanto il credito per il capitale quanto quello accessorio, per gli interessi e le spese, siano simultaneamente liquidi ed esigibili”[9].

In precedenti sentenze la Cassazione aveva riferito la simultanea liquidità ed esigibilità del capitale ed interessi, oltre che al comma 1 anche al comma 2 dell’art. 1194 c.c. [10]. Relativamente ad una problematica attinente i versamenti effettuati in sede di esecuzione forzata, la Cassazione ha avuto modo di precisare: “… Ma non possono trovare applicazione nemmeno quelli legali quale appunto quello contenuto nel secondo comma dell’art. 1194 c.c., in quanto come già ritenuto da questa Corte (Cass. 26/10/60, n. 2911), la norma in esame secondo cui il pagamento fatto in conto di capitale ed interessi, debba essere imputato prima agli interessi, presuppone pur sempre la simultanea esistenza della liquidità ed esigibilità di un credito per capitale e di un credito per spese e interessi per cui in mancanza di tale simultaneità l’art. 1194 non trova alcuna possibilità di applicazione. Questa linea interpretativa seguita dal Giudice di merito, non è smentita da Cass. 4/7/87, n. 5874 ed è confermata da Cass. 26/7/86 n. 4798”. (Cass. Sez. I, 28/9/91, n. 10149; Cfr. anche Cass. Sez. III, 20/7/93, n. 8063)[11].

Ben si comprende che, per un capitale ed interessi liquidi ed esigibili, il debitore debba, di regola, prima pagare gli interessi e poi il capitale, per evitare pregiudizio al creditore. Per gli interessi relativi all’apertura di credito tuttavia il capitale diviene liquido ed esigibile solo alla scadenza.

In tal senso si è pronunciata recentemente la Cassazione (n.10941 del 26/5/16) la quale, dopo aver ribadito il principio secondo cui l’applicazione dell’art. 1194 c.c. “…postula che il credito sia liquido ed esigibile, dato che questo, per la sua natura, produce gli interessi, ex art. 1282 c.c.”, conclude che “…potrebbe quindi ritenersi la simultanea ricorrenza dell’esigibilità e liquidità di capitale ed interessi per il credito che superi il fido e per i relativi interessi, rimanendo differita tale simultaneità per il credito entro il fido al saldo di chiusura del rapporto e dell’apertura di credito…”[12]

Una commistione degli interessi relativi al credito entro il fido ed extra-fido e un’inderogabile e incondizionata applicazione del comma 2 dell’art. 1194 c.c., estesa agli interessi relativi al fido,  in presenza di conti attivamente movimentati, sono suscettibili di ingenerare un automatismo nel pagamento degli interessi prima della scadenza dell’apertura di credito, realizzando di fatto, in violazione dell’art. 1283 c.c., una forma surrettizia di quell’anatocismo che la Cassazione ha sempre ravvisato nell’annotazione in conto.

Appare del tutto coerente con il consolidato orientamento della Cassazione – nel corretto equilibrio fra tutela del creditore e presidio all’anatocismo - che il criterio  legale dettato dal comma 2 dell’art. 1194 c.c., cioè: “Il pagamento fatto in conto di capitale e d’interessi deve essere imputato prima agli interessi”, risulti esclusivamente applicabile ove entrambi i crediti,  per capitale ed interessi, siano liquidi ed esigibili.

Questa lettura risulterebbe avvalorata dallo stesso dettato della Cassazione S.U. n. 24418/10, la quale esclude la natura solutoria delle rimessa nel caso in cui, ancorché siano annotati in conto interessi scaduti, questa intervenga in un passivo che ancora non abbia superato i limiti di fido.

La mistificazione insorge nel sistema contabile ordinariamente impiegato dalle banche, che fonde e confonde in un unico conto, poste aventi natura giuridica diversa, determinando con l’annotazione un meccanismo di registrazione che automaticamente unisce gli interessi al capitale, ancor prima del pagamento.

Il pagamento degli interessi relativi ad un capitale che non è liquido ed esigibile, richiede una esplicita e specifica manifestazione di volontà del titolare del conto successivamente alla scadenza degli stessi.

Nel sistema di contabilizzazione adottato dalla banca, la rimessa che interviene in extra fido, per la parte solutoria, dopo aver pagato gli interessi relativi a quest’ultimo, dovrà essere rivolta al capitale in extra fido e per l’eventuale parte residua assume una natura ripristinatoria delle disponibilità del fido concesso: per l’inapplicabilità dell’art. 1194 c.c., si ritiene che nessuna rimessa, senza specifica indicazione, possa essere rivolta al pagamento degli interessi che, seppur liquidi ed esigibili, sono riferiti al capitale affidato.

E’ assai ricorrente che gli interessi sull’apertura di credito, addebitati in conto, pur erodendo le disponibilità comprese entro il fido, non ne determinino l’esubero: in tali circostanze una successiva rimessa, pur in presenza di interessi divenuti liquidi ed esigibili, rimane ripristinatoria, non potendo essere rivolta al pagamento degli stessi: viene, di converso, privilegiata la ricostituzione del margine disponibile.

In via del tutto analoga, rispetto agli interessi relativi al fido, non può che privilegiarsi la ricostituzione del margine di fido disponibile anche in presenza di rimesse che intervengono oltre il fido: tale rimesse, dopo aver pagato il capitale liquido ed esigibile (extra fido) e prima ancora di questo i relativi interessi (ex art. 1194 c.c.), per la parte residua andranno a ricostituire il margine di fido[13]; se si accedesse alla tesi che le rimesse intervenute in extra fido vengano rivolte tout court a pagare tutti gli interessi, compresi quelli relativi all’apertura di credito, per questi ultimi non si porrebbe un problema di anatocismo né prima né dopo il dies a quo della prescrizione: anche gli interessi addebitati nel corso dell’ultimo decennio, se pagati da rimesse solutorie, non produrrebbero alcun anatocismo da depurare dal conto.

Ancorché la Delibera CICR 9/2/00, nell’uniformare l’applicazione periodale degli interessi a credito e a debito, abbia consentito la produzione di interessi su interessi, i principi stabiliti dalla Cassazione S.U. 24418/10 e i criteri normativi che presiedono la corretta applicazione dell’art. 1194 c.c., hanno reso assai stridente ed opaco il sistema di contabilizzazione impiegato dagli intermediari bancari: tutte le rimesse a debito e a credito vengono ad incidere su un unico saldo nel quale sono ricompresi capitale, interessi ed anatocismo, che nel loro valore aggregato, vengono a costituire una pretesa non certa e, per la parte relativa al credito affidato, né liquida, né tantomeno esigibile

In una corretta rappresentazione contabile, fisiologicamente funzionale alla distinta natura del capitale e degli interessi (oneri e spese), la corrispondente registrazione ne dovrebbe fornire separata evidenza.

L’apertura di credito si configura come un contratto di durata a prestazioni periodiche, scaglionate nel tempo: contrattualmente è previsto il pagamento trimestrale degli interessi che la banca annota sul conto e da quel momento sorge il diritto ad esigere il pagamento.

Gli interessi maturati e scaduti non possono essere illecitamente pagati attraverso una capitalizzazione che li fonde con il capitale concesso a credito. Non si può operare una commistione fra gli interessi contrattualmente maturati, scaduti ed esigibili trimestralmente, e il credito in conto capitale che rimane inesigibile sino a scadenza o a revoca. Né si può confondere in un unico credito poste di diversa natura, oltre che di diversa scadenza.

Considerando separatamente capitale (saldo credito/debito) ed interessi via via maturati, senza commistione fra le due categorie di appostazioni, le rimesse che intervengono in presenza di extra-fido, vengono a costituire, secondo i dettami della Suprema Corte, effettivi pagamenti. Tali pagamenti, impiegati prioritariamente a ripianare gli interessi esigibili relativi all’extra-fido, per tale componente non contravvengono al rispetto dell’art. 1283 c.c. e, se legittimamente calcolati, non determinano alcun diritto a refusione di indebito soggetto a prescrizione decennale.

Tenendo separato capitale e interessi, si palesa e chiarisce il portato della menzionata sentenza della Cassazione, di concerto con l’applicazione dell’art. 1194 c.c..

In una corretta e separata rappresentazione di capitale di credito e dei relativi interessi, il conto risulterebbe in extra-fido esattamente per il credito liquido ed esigibile e la rimessa risulterebbe solutoria esattamente per l’ammontare delle poste (capitale e interessi) congiuntamente liquide ed esigibili. Nell’opaco sistema di contabilizzazione impiegato dalle banche, il conto rifluisce spesso in extra fido per le annotazioni degli interessi maturati e scaduti, ma in tali circostanze il  saldo risultante esprime una quota (capitale) illiquida ed inesigibile ed una quota (interessi, oneri e spese) liquida ed esigibile, ma che tuttavia non consente di considerare solutoria una successiva rimessa.

La tavola qui di seguito riportata esprime le fattispecie più frequenti.

La rimessa che interviene entro il fido (1° caso) viene rivolta alla ricostituzione del margine di credito; non vi è ragione alcuna che possa giustificare, nel saldo condotto in extra fido dagli interessi annotati in conto (2° caso), l’impiego della rimessa prioritariamente a pagamento degli interessi relativi al fido, in deroga al principio di simultaneità che presiede l’applicazione dell’art. 1194 c.c. Né tanto meno la rimessa che interviene nel saldo capitale in extra fido (3° caso) può essere rivolta agli interessi del fido, prima del pagamento del capitale in extra fido.

D’altra parte il credito concesso dalla banca nell’apertura di credito rimane, nella sua integrità e per l’intero rapporto, alla stessa indisponibile; sino al limite di fido, la banca si è impegnata a “finanziare” il correntista per tutta la durata del contratto di apertura di credito e rimane nella piena disponibilità dell’affidato utilizzare e ricostituire le disponibilità, in termini separati e distinti dall’onere di pagarne i relativi interessi alle scadenze convenute: all’erosione del fido, a seguito dell’annotazione degli interessi nel sistema di rappresentazione contabile adottato dalla banca, non risulta propriamente corrispondere alcun finanziamento.

Il capitale posto a disposizione nell’apertura di credito non è nelle disponibilità della banca sino alla scadenza o alla revoca: non può la banca disporne per saldare gli interessi scaduti ed esigibili, non può, in altri termini, portare questi ultimi a deconto del credito concesso a scadenza o a revoca.

Il codice civile prevede (artt. 1842/43): “L’apertura di credito bancario è il contratto col quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato”. “Se non è convenuto altrimenti, l’accreditato può utilizzare in più volte il credito, secondo le forme di uso, e può con successivi versamenti ripristinare la sua disponibilità.

Al riguardo la Cassazione S.U. n. 24418/10 rileva, in capo al correntista, la disponibilita’ del credito concesso per tutta la durata del rapporto:  l’apertura di credito si attua mediante la messa a disposizione, da parte della banca, di una somma di denaro che il cliente può utilizzare anche in più riprese e della quale, per l’intera durata del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte la disponibilità eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito accordatogli.[14].

La previsione contrattuale presente nel regolamento del conto corrente – all’articolo riferito alle aperture di credito in conto che la banca ritenesse eventualmente di concedere – recita altresì: “il correntista può utilizzare in una o più volte la somma messagli a disposizione e può con successivi versamenti ripristinare la sua disponibilità. (…) il correntista, in caso di apertura di credito a tempo determinato, è tenuto ad eseguire alla scadenza il pagamento di quanto da lui dovuto per capitale, interessi, spese, tasse ed ogni altro accessorio”.

L’apertura di credito è un contratto di durata, sviluppato su più atti esecutivi che conservano una sostanziale unitarietà nel rapporto giuridico. La serie successiva di addebiti e accrediti non dà luogo a singoli rapporti (costitutivi o estintivi), ma determina solo variazioni quantitative dell'unico originario rapporto costituito tra banca e cliente: solo alla chiusura si regolano i debiti e i crediti conseguenti (Cass. n. 1392/69; n. 2545/72; n. 2301/04; n. 10127/05; n. 1929/10).

La chiusura periodica (trimestrale) del conto ha solo una funzione contabile, con la quale la banca calcola gli interessi maturati, che poi tuttavia illegittimamente capitalizza, trasformandoli, in presenza di un’apertura di credito, in un capitale a scadenza o a revoca. Tenendo distinti gli interessi - che nella convenuta scadenza trimestrale divengono esigibili nell’immediato - dal capitale indisponibile alla banca, solo alla scadenza o alla chiusura del rapporto di finanziamento, si definisce e rende esigibile il saldo risultante dalle annotazioni contabili effettuate dalla banca.

Dalla natura poi di contratto di durata, in analogia con gli altri contratti della specie[15], discendono i termini prescrizionali posposti al rimborso finale dell’apertura di credito, distintamente dagli interessi maturati sullo stesso; prima della chiusura del conto – o della revoca/scadenza dell’apertura di credito – gli interessi, scaduti ed esigibili, sono sottoposti all’art. 1283 c.c.:

Il credito è concesso per tutto il periodo convenuto. Gli interessi maturati e scaduti, non divengono per questo un capitale finanziato e presentano un’esigibilità immediata che non può essere automaticamente trasfusa in un capitale a scadenza: questo risulterebbe disattendere il divieto disposto dall’art. 1283 c.c. Il fido concesso ha una natura di capitale, né si può comporre l’apertura di credito in una quota (capitale) a scadenza e in una quota (interessi) a esigibilità immediata; nella commistione generata dalla speciosità del sistema di contabilizzazione impiegato dalle banche, che capitalizza gli interessi al momento dell’annotazione, questi ultimi vengono impropriamente uniti al capitale e ricompresi nel fido utilizzato.

Questa chiave di lettura risulta coerente con la discriminazione operata dalla Cassazione S.U. 24418/10 fra rimesse solutorie e ripristinatorie. Il ‘passivo eccedente i limiti dell’accreditamento’ risulta riferibile esclusivamente al capitale posto a disposizione dalla banca, separatamente dagli interessi nel frattempo scaduti ed esigibili. Una diversa lettura presenterebbe l’ingiustificata discrasia che gli interessi relativi al fido diventerebbero automaticamente coperti alla prima rimessa non appena conducono il saldo contabilizzato dalla banca oltre il fido: per un fido sistematicamente utilizzato al limite, eventualità alquanto ricorrente, gli interessi addebitati lo porterebbero in extra fido, divenendo pagabili alla prima rimessa in conto, ciò che è pressoché equivalente alla pratica dell’anatocismo trimestrale. Il disposto dell’art. 1194 c.c. verrebbe di riflesso marcatamente alterato: il pagamento degli interessi non solo precederebbe il pagamento del capitale liquido ed esigibile ma precederebbe altresì la semplice ricostituzione del margine disponibile del fido, con un completo e sostanziale effetto di capitalizzazione traversa, che si realizzerebbe automaticamente con la rimessa che, ancor prima che il capitale venga a scadenza, viene impiegata a ripianamento degli interessi anziché a riespansione del credito utilizzabile.

Al contrario, come più volte ribadito dalla giurisprudenza, gli interessi scaduti ed esigibili rimangono delle mere annotazioni in conto che, salvo l’intervento di una rimessa con finalità specificata, solo dopo la chiusura o la revoca del rapporto, acquisisce la prelazione disposta dall’art. 1194 c.c.. 

La sentenza delle Sezioni Unite qualifica come rimesse solutorie i versamenti “eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire ‘scoperto’) cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento”. La sentenza, in un altro passo, riporta: “intanto questi ultimi (i versamenti) potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca”.

La natura di pagamento della rimessa è pertanto individuata nella ricorrenza di due elementi qualificanti: la rimessa interviene quando il saldo del conto presenta uno scoperto oltre il fido (o un passivo in assenza di fido) e la rimessa ha l’effetto, oltre che lo scopo, di determinare uno spostamento patrimoniale a favore della banca. Lo spostamento patrimoniale in favore della banca si può determinare solo per l’ammontare massimo corrispondente al credito in extra fido (o per l’ammontare del passivo in assenza del fido) e agli interessi ad esso relativi, maturati e scaduti: solo tali poste sono infatti liquide ed esigibili.

Per i versamenti effettuati su un conto passivo privo di apertura di credito, o quando gli stessi intervengono in un passivo eccedente il limite di fido, si configura un effettivo pagamento, atteso che lo scoperto di conto costituisce per la banca un credito esigibile e la rimessa non crea nuova disponibilità per il cliente, bensì assume carattere solutorio[16]. La rimessa acquisisce il carattere solutorio per l’importo commisurato al credito liquido ed esigibile preteso dalla banca e, prima ancora, a rispetto dell’art. 1194 c.c., per gli interessi e competenze maturati sullo stesso. L’elemento fondante il discrimine del pagamento viene ad essere costituito dalla presenza o meno di un capitale esigibile. Solo in tali circostanze le rimesse che affluiscono sul conto vengono ad assumere la veste di pagamenti aventi l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca[17].

In stretta aderenza al principio richiamato per l’applicazione dell’art. 1194 c.c., nei rapporti bancari affidati l’esigibilità e liquidità di capitale ed interessi ricorrono simultaneamente solo per il credito che deborda il fido e per gli interessi ad esso relativi, mentre tale simultaneità, per il credito entro il fido ed i relativi interessi, è differita, come detto, all’estinzione del saldo di chiusura del rapporto o dell’apertura di credito[18].

Il riferimento della prescrizione al termine del rapporto, che nelle precedenti sentenze della Cassazione veniva esteso all’intero coacervo dei rapporti negoziali confluenti nel rapporto di conto corrente bancario, con la sentenza della Cassazione S.U. n. 24418/10 viene ad essere circoscritto alla sola apertura di credito, alla quale rimane inapplicabile l’art. 1194 c.c., come baluardo posto a presidio dell’anatocismo, la cui “perversione” si configura appunto nell’indifferenziata ed automatica annotazione in conto, con un effetto contabile di pagamento degli interessi attraverso la loro implicita trasformazione in capitale, prima che questo venga a scadenza, determinando una lievitazione geometrica del debito.

Da quanto sopra esposto, nella ricostruzione del saldo del conto, si renderebbe opportuno tenere separati dal capitale gli interessi, distinguendo altresì gli interessi relativi al credito compreso nel fido da quelli relativi al credito in extra fido. Questi ultimi, ove legittimamente convenuti, risultano liquidi ed esigibili e, congiuntamente al capitale di riferimento, divengono pagabili nell’immediato alla prima rimessa che affluisce in conto: non si realizza alcuna forma spuria di capitalizzazione, più semplicemente, nel rispetto del creditore, prima del capitale esigibile viene onorato il pagamento del relativo interesse[19].

Per gli interessi relativi al fido non c’è rimessa, quale che sia la natura solutoria o ripristinatoria, che possa essere automaticamente rivolta al loro pagamento: senza un’espressa volontà – successivamente alla loro scadenza ed esigibilità - che destini la rimessa esplicitamente al pagamento degli interessi del fido, questi potranno essere coperti solo alla prima rimessa che interviene dopo la scadenza o revoca del fido.

La prescrizione decennale degli interessi illegittimi non può che riguardare gli interessi relativi all’extra-fido, non risultando consentito estendere l’applicazione dell’art. 1194 c.c. indifferentemente agli interessi extra-fido e intra-fido[20]: non è infrequente che nelle vertenze relative alla ripetizione dell’indebito si prospetti, da parte dell’intermediario, una prescrizione decennale estesa a tutti gli interessi.

Per altro, gli interessi relativi al fido si rendono liquidi ed esigibili alle singole scadenze periodiche e dall’applicazione dei principi dettati dalla Cassazione S.U. 24418/10, risulterebbe discendere che, in assenza di una specifica rimessa di pagamento, di un accordo o di un’azione dell’intermediario, decorso il quinquennio, divengono anch’essi soggetti a prescrizione nei limiti temporali disposti dall’art. 2948 c.c.[21].

Appare in tal modo coniugarsi, con maggiore equilibrio, un contemperamento tra lo spirito perseguito dall’art. 1194 c.c. e quello perseguito dall’art. 1283 c.c.: risulterebbe al contempo ridimensionato il reiterato rinvio del pagamento degli interessi che caratterizza l’apertura di credito a tempo indeterminato.

Un’attenta distinzione della diversa natura delle due forme di credito, entro il fido ed oltre il fido, rispondenti a due distinti rapporti negoziali, nonché il puntuale rispetto, per capitale e interessi, del criterio di simultanea liquidità ed esigibilità stabilito dalla menzionata sentenza della Cassazione n. 6022 del ’03 e ribadita dalla Cassazione n. 10941/16, appaiono, per altro, coerenti con la seconda parte della sentenza n. 24418/10, che fa discendere dalla nullità della previsione negoziale degli interessi trimestrali l’esclusione di ogni forma alternativa di capitalizzazione, a prescindere da rimesse in extra fido, intervenute prima o dopo il dies a quo. Cioè a dire, gli interessi relativi all’apertura di credito, ancorché liquidi ed esigibili, rimangono una mera annotazione sino alla scadenza o revoca del rapporto, a partire dalla quale si rende applicabile l’art. 1194 c.c. [22].

Queste, si ritiene, costituiscono le innovative modifiche non espresse nell’enunciato, ma sostanzialmente implicite nella menzionata sentenza della Cassazione S.U. n. 24418/10 ed avallate dalla Cassazione n. 10941/16. Rinviando, in presenza di rimesse ripristinatorie, la decorrenza della prescrizione decennale all’estinzione del saldo di chiusura del conto, la sentenza della Cassazione S.U. n. 24418/10 da un lato esclude il riferimento della decorrenza della prescrizione dall’addebito in conto degli interessi in quanto non costituente pagamento, dall’altro introduce, a contrariis, uno spazio giuridico, seppur definito e circoscritto (extra fido), nel quale, nella tipica alternanza di poste a debito e a credito, l’annotazione degli interessi troverebbe un pronto pagamento alla prima rimessa a credito: la circostanza non darebbe luogo ad una formale capitalizzazione, vietata dall’art. 1283 c.c., ancorché nella sostanza economica si realizzerebbe, per l’extra fido, una fattispecie del tutto analoga all’anatocismo.[23].

Si osserva, per altro, che questa forma spuria di deroga al divieto dell’anatocismo, che discende dalla sentenza, prescinde dalla prescrizione decennale, consentendo, attraverso le rimesse solutorie, il pagamento degli interessi legittimi relativi all’extra fido, prima e durante il decennio di prescrizione, senza alcun rinvio in capitalizzazione semplice al termine del rapporto.

Si vengono in tal modo a ridimensionare le precedenti pronunce della Cassazione, che avevano ravvisato proprio in tale forma di costrutto logico-contabile la fattispecie degli interessi anatocistici vietati dall’art. 1283 c.c., considerata dalla Cassazione stessa “norma imperativa, che presidia l’interesse pubblico ad impedire una forma, subdola, ma non socialmente meno dannosa delle altre, di usura” (Cfr. Cass. 3479/71 e n. 1724/77)[24].

 

4. Sintesi e conclusione

Le modifiche normative e la piu’ recente evoluzione giurisprudenziale vengono delineando un ampio arco di mistificazioni implicite nel sistema di contabilizzazione impiegato dalle banche che, nella commistione fra capitale ed interessi, hanno per lungo tempo perpetrato una forma di capitalizzazione contraria ai principi dell’ordinamento[25].

I principi giuridici rivenienti dalle pronunce della Suprema Corte –  in tema di pagamenti e applicazione dell’art. 1194 c.c., congiuntamente considerati con i principi che presiedono l’apertura di credito e la Delibera CICR – tracciano un alveo del processo di ricostruzione del legittimo rapporto di conto entro il quale i consulenti sono chiamati ad operare. I principi di prescrizione assumono un apprezzabile rilievo economico: come il pagamento degli interessi illegittimi da parte del cliente è colpito dalla prescrizione decennale,  così la mancata esazione degli interessi legittimi da parte dell’intermediario è colpita dalla prescrizione quinquennale. Ancor più se gli interessi relativi al fido vengono ritenuti esigibili e pertanto soggetti a prescrizione decennale dal momento della successiva rimessa solutoria – come spesso, con un’impropria lettura, si pratica nelle ricostruzioni ai fini della ripetizione dell’indebito – non si ravvisano elementi logici o giuridici per discriminare una stessa epurazione con riferimento alla prescrizione quinquennale degli interessi addebitati, privi di una formale costituzione in mora e non esatti.

Riepilogando, in una stringente interpretazione normativa, ormai condivisa dalla prevalente giurisprudenza, il divieto di produzione di interessi su interessi, ha subito una deroga per i conti accesi nel periodo 22/4/00 – 31/12/13, ed esclusivamente riferita al medesimo periodo: al di fuori di tale aggregato e del perimetro temporale indicato, rimane operativa la norma dell’art. 1283 c.c.. Mentre, per gli interessi e l’anatocismo consentito dalla Delibera CICR 9/2/00, il principio di pagamento rimane quello disposto dalla sentenza della Cassazione S.U. n. 24418/10, con i debiti risvolti di prescrizione che, al tempo stesso, riguardano sia la ripetizione degli interessi indebitamente pagati (prescrizione decennale), sia l’esazione degli interessi maturati, scaduti ed esigibili (prescrizione quinquennale).

Indiscutibile è la netta autonomia che viene riconosciuta al debito per interessi rispetto all’obbligazione principale. Il debito dell’accipiens per interessi si pone su un piano autonomo in considerazione della diversità di causa, nonché della configurabilità di una distinta possibilità di azione, o d’inerzia del solvens: il credito di interessi resta soggetto ad autonoma prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2948 n. 4 c.c.[26]

La Cassazione, con orientamento consolidato, ha stabilito che la prescrizione quinquennale prevista per gli interessi dall’art. 2948, n. 4 c.c. è applicabile, come si desume dall’interpretazione letterale e dalla ratio della citata disposizione, soltanto nell’ipotesi che la relativa obbligazione si riferisca a crediti da pagarsi con cadenza annuale o infrannuale e cioè nel caso in cui sia previsto – per legge o per contratto – che il creditore possa ottenere il pagamento a scadenza annuale (o inferiore);  qualora invece non sia previsto l'obbligo, per il debitore, di corrispondere periodicamente gli interessi al creditore, fa difetto lo stesso presupposto logico che giustifica la speciale prescrizione breve prevista dalla norma in esame (Cfr. Cass. n. 3348/03; n. 802/99; n. 2498/98)[27]. (così, in motivazione, Cass. n. 802/99 cit., proprio con riferimento agli interessi accessori a debito da restituzione di mutuo).

Così come gli interessi illegittimamente annotati – indifferentemente riferiti al fido e all’extra fido - se coperti da una rimessa di pagamento, divengono irripetibili decorsi dieci anni, gli interessi divenuti esigibili, annotati in conto, che la banca tuttavia ha omesso di pretendere nel quinquennio successivo, non potranno più essere esatti. La banca che impropriamente ha ritenuto, con l’annotazione, di capitalizzare gli interessi, si viene a confrontare con limitazioni che, congiuntamente, comprimono l’alveo di legalità fra gli stringenti presidi posti dall’art. 1283 c.c. e la tempistica dettata dall’art. 2948 c.c., con i criteri di pagamento dettati dalla Cassazione S.U. 24418/00, entro le circoscritte deroghe consentite dalla  Delibera CICR 9/2/00.

Con la nuova formulazione dell’art. 120 TUB, introdotta dalla legge n. 49/2016[28], si è espressamente previsto, per le aperture di credito e gli scoperti di conto, in assenza di fido o oltre il fido concesso – qualora sia presente una preventiva autorizzazione del cliente – che l’addebito degli interessi in conto nel momento in cui divengono esigibili, viene considerato ‘sorte capitale[29]. La criptica formulazione della norma presenta un singolare ‘bisticcio’ normativo: gli interessi non possono produrre altri interessi ma, nel momento in cui divengono esigibili, producono interessi di mora, o vengono considerati capitale; richiama il gioco delle tre carte: si cambia l’etichetta, ma l’anatocismo rimane[30].

Alla situazione di squilibrio contrattuale non può rimanere indifferente l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, la cui valutazione non può essere trascurata in sede di definizione della regolamentazione operativa dell’art. 120 TUB.

Occorrerà attende la Delibera CICR e l’interpretazione che la giurisprudenza esprimerà sull’equivoca e sconcertante formulazione del nuovo art. 120 TUB: l’obbligazione per interessi, verrebbe di fatto equiparata ad una qualsiasi obbligazione pecuniaria e, con un attributo di ‘sorte capitale’, se ne vorrebbe cambiare la natura accessoria! [31]

I principi dell’ordinamento non possono essere così facilmente ‘forzati’ da atti di imperio, seppur legislativi: si partoriscono figure giuridiche anomale che l’ordinamento, di regola, tende a rigettare.

Se la Delibera del CICR, per gli interessi di mora, derogherà dall’art. 1283 c.c. e se poi l’interesse, pur considerato sorte capitale, può invece essere inteso mantenere la sua natura accessoria e rimanere impagato, finché non interviene una rimessa solutoria – e questa lettura non sembra del tutto da escludere -  si aprono ulteriori scenari di contestazione, anche nel rispetto delle soglie d’usura, che contribuiranno ad alimentare il già poderoso ricorso alle vie giudiziarie.

Per gli interessi pregressi, un’accorta ricostruzione del distinto credito per capitale e per interessi dischiuderà la distinta natura del saldo del conto, permettendo di meglio evidenziare il rilievo assunto dagli interessi e dall’anatocismo, e la loro estensione nel tempo. Di riflesso, se da un lato potrà essere avanzata dagli intermediari la prescrizione per gli interessi indebitamente pagati oltre il decennio a ritroso, da parte della clientela, decorso il quinquennio, potrà essere avanzata la prescrizione degli interessi addebitati, rimasti scaduti ed esigibili, ma non richiesti.



[1] A cura di Roberto Marcelli e Amedeo Valente

[2] Il conto corrente bancario o di corrispondenza si configura principalmente nella prestazione da parte della banca di un servizio di cassa e di gestione del denaro, riconducibile allo schema del mandato senza rappresentanza. L’apertura di credito si qualifica come il contratto con il quale la banca si obbliga a tenere a disposizione del cliente una somma di denaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato, che il cliente può utilizzare in tutto o in parte secondo le proprie necessità, ripristinando con versamenti il credito disponibile e riconoscendo alla banca gli interessi, commisurati al tasso e all’ammontare del credito effettivamente utilizzato nel periodo. L’apertura di credito costituisce un contratto distinto dal contratto di conto corrente di corrispondenza, ha una vita autonoma, con separati momenti di apertura e chiusura. Per l’apertura di credito non si impiega, di norma, un’autonoma registrazione contabile, bensì essa viene inserita nel conto corrente, determinando di fatto una disponibilità ulteriore che si unisce a quella creata dal correntista mantenendo tuttavia la distinzione. In sede di pignoramento o di sequestro da parte dei creditori del cliente, il debito della banca oggetto di procedura è quello risultante a credito del cliente, senza tener conto della disponibilità creata con l’apertura di credito (Cfr.: Cass. 2915/92).

[3]Discostandosi, in questo, da quel qualificato orientamento dottrinario che – valorizzando un diverso percorso ricostruttivo, dal presupposto che ‘il correntista può disporre in ogni momento delle somme risultanti a suo credito’ (art. 1852 c.c.) – fa discendere la conseguenza che ad ogni variazione inerente il conto consegue un pagamento a favore del correntista o della banca. Nel commentare la sentenza, con riferimento all’annotazione, in termini assai critici, P. Ferro Luzzi rileva la non trascurabile differenza fra il conto corrente bancario e il conto corrente ordinario.

“a) che nel conto corrente bancario il “conto” inteso come documentazione contabile destinata alle relative scritture è unico, ed è presso la banca, tenuto dalla banca, il che implica una rilevante differenza rispetto al conto corrente civilistico, dove in realtà un “conto” dedicato in senso tecnico non c’è, ciascuna delle parti tenendo proprie registrazioni, da confrontarsi alle scadenze periodiche;

b) che, anche in connessione, soltanto la banca ha il potere di annotare in conto il che, sempre in connessione con quanto già detto, implica un’ulteriore differenza rispetto al conto corrente ordinario;

c) che l’annotazione è fenomeno che dal punto di vista concettuale e giuridico va analizzato sotto tre profili: il “fatto” (fatto, atto, negozio) che legittima la banca ad annotare; trattasi più precisamente per la banca di un potere-dovere, sia l’annotazione a favore della banca, venga cioè annotata a debito del cliente una somma di cui la banca è creditrice, o a sfavore di essa, venga cioè annotata a credito del cliente una somma di cui la banca è debitrice, in tutti e due i casi la banca “deve” annotare; poi viene l’ “annotazione”, parola che ha un duplice significato: attività di annotare ed il risultato di tale attività, cioè appunto il dato, la somma scritta; infine l’apposizione dell’annotazione (l’annotato) sul conto che determina (avrei qualche riserva sul piano giuridico a parlare di effetto) la “variazione del saldo”;

d) che oggetto dell’annotazione è una “somma” rappresentata da una cifra che esprime una quantità di denaro, e non crediti, come invece, ricordo ancora una volta, accade nel conto corrente ordinario, crediti che, sempre nel conto corrente ordinario, malgrado la loro annotazione in conto restano vivi (produttivi di interessi e assistiti dalle relative garanzie v. art. 1825 e 1828 c.c.) estinguendosi solo alla formazione periodica del saldo, si ritiene allora correttamente per compensazione;

e) che, invece, nel conto corrente bancario l’annotazione della somma provoca in automatico ed in continuità la variazione in positivo o in negativo del saldo, saldo che non conserva traccia della natura dei rapporti che hanno dato luogo all’annotazione delle somme, l’annotazione avendo così valore costitutivo (stavo per dire reale) del saldo, cioè di quantità di “moneta” disponibile;

f) che questo saldo è l’oggetto del potere di disposizione del cliente, e si osservi ancora che il potere di disposizione ha per oggetto il saldo “risultante” (v. art. 1852, comma 1, c.c.) dal conto, cioè dalla documentazione contabile, ogni discussione relativa alle singole poste che hanno determinato le variazioni del saldo essendo ininfluente sul potere di disposizione fino al momento in cui il saldo non venga variato, anche per effetto di rettifica.

(…) certo il principio generale per il pagamento dei debiti pecuniari è quello fissato dall’art. 1277 cod. civ. e cioè la dazione materiale della ‘cosa’ moneta, ma, ripeto, quanto meno fra banca e cliente, non avrei dubbi sul valore estintivo del rapporto che vi ha dato titolo delle variazioni del saldo, variazioni che avvengono con, e per effetto di, annotazioni. ”. (F. Ferro Luzzi, In cauda venenum, nota a " Cassazione Sezioni Unite, 2 dicembre 2010, n. 24418, Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, n. 4/20119.

[4]La Cassazione, tra l’altro, esclude che il versamento ripristinatorio costituisca pagamento, in quanto la banca non può far sue le somme che ne formano oggetto, ma è vincolata a tenerle a disposizione del cliente sino alla scadenza del rapporto, sicché si tratterebbe di somme inesigibili. Va però rilevato che, ai sensi dell’art. 1185 c.c., costituisce pagamento, in senso tecnico, anche quello fatto in costanza di termine o di condizione. Inoltre, se prima del pagamento al cliente sono stati applicati interessi, è evidente che la funzione ripristinatoria non si realizza appieno, perché, anche sulla base del criterio di imputazione di cui all’art. 1194 c.c., la somma va a ridurre o ad estinguere il debito degli interessi e, soltanto per l’eccedenza, il capitale, con l’eventuale ripristino della provvista. In conclusione, la tesi della Cassazione, pur costituendo un passo avanti rispetto al passato, non si sottrae del tutto a considerazioni critiche. Deve, però, rilevarsi che, pur vigendo nel nostro ordinamento il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge, è stato di recente introdotto per le Sezioni semplici della Cassazione l’obbligo di chiedere motivatamente la riconvocazione della Sezioni Unite, ove si prospetti una motivazione diversa da quelle poste a fondamento di una sentenza precedente da esse adottata. Inoltre, la riforma dell’ordinamento giudiziario stabilisce che costituisce illecito disciplinare disattendere, naturalmente senza dimostrare di averne contezza, un precedente della Cassazione. Si tratta di un assetto normativo recente che, mirando a realizzare una maggiore certezza, per quanto concerne l’applicazione giurisprudenziale della legge, non può che essere vista con favore, dal momento che questo obiettivo asseconda un’esigenza diffusa nella società, per molto tempo sacrificata. Pertanto, questo giudice, pur con le perplessità palesate, ritiene di doversi adeguare al dictum della Cassazione richiamato.” (Trib. Taranto, G. Coccioli, 25/10/12). Per un argomentato dissenso della sentenza della Cassazione S.U. Cfr. Trib. Lucca, C. Capozzi, 10/5/2013, in dirittobancario.it.

[5] I conti oggetto di esame nella sentenza delle Sezioni Unite iniziavano e terminavano prima dell’entrata in vigore della Delibera C.I.C.R. 9/2/00; pertanto si è fatto riferimento alla disciplina antecedente il 22 aprile ’00, che prevedeva la nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale. Per altro la prevalente giurisprudenza ritiene che, con la dichiarata illegittimità del 3° comma dell’art. 25 D. Lgs. 342/99 ad opera della Corte Costituzionale (sentenza 425/00), è venuto meno il presupposto legittimante l’art. 7 della Delibera C.I.C.R. 9/2/00, finalizzato a disciplinare i rapporti in essere al momento dell’entrata in vigore della Delibera stessa, per i quali, salvo nuova pattuizione scritta, rimane applicabile il regime precedente. Né il 2° comma dell’art. 25 conferisce al C.I.C.R. il potere di prevedere disposizioni di adeguamento, con effetti validanti la sorte delle condizioni contrattuali stipulate anteriormente.

[6] In questo senso è stata intesa la Delibera CICR dal Tribunale di Torino, B. Conca, n. 5292/12 che, con riferimento alla verifica dell’usura, ha stabilito: “Si ritiene infatti che la capitalizzazione degli interessi passivi non possa essere considerata ai fini del computo del tasso soglia e ciò perché mediante tale capitalizzazione (come già detto, legittima successivamente alla delibera CICR del 2000), il debito da interessi passivi viene conglobato nel capitale così mutando di regime giuridico, da obbligazione accessoria d’interessi a obbligazione principale per sorte capitale. (…) Va al riguardo sottolineato che anatocismo e capitalizzazione non costituiscono concetti equivalenti: mentre il primo designa la speciale attitudine degli interessi a produrre, a loro volta, interessi, la seconda indica il fenomeno in forza del quale una certa misura d’interessi viene tramutata in sorte capitale, con conseguente trasformazione di un’obbligazione accessoria in principale. Da ciò consegue che solo quest’ultima – non l’anatocismo di per sé – conduce al mutamento del regime giuridico dell’obbligazione d’interessi, solamente alla quale sono applicabili, per esempio, speciali norme in materia d’imputazione del pagamento (art. 1194 c.c.), quietanza (art. 1199 c.c.), cessione del credito (art. 1263 c.c.), privilegio (art. 2749 c.c.), pegno (art. 2788 c.c.), ipoteca (art. 2855 c.c.), prescrizione (art. 2948 c.c.). L’assorbimento dell’interesse passivo nel capitale esclude la computabilità dello stesso fra le voci di costo periodico del finanziamento, appunto perché, una volta capitalizzato, l’interesse non è più tale.”.

[7] In presenza di un formale affidamento, si pone per l’apertura di credito un’osservazione ancor più radicale, non risultando del tutto pacifica ed assodata l’estensione dell’applicazione della Delibera C.I.C.R. 9/2/00, riferita dalla stessa al contratto di conto corrente, anche all’apertura di credito. In un’applicazione letterale della norma, che conservi e rispetti la diversa natura del rapporto di conto e del rapporto di apertura di credito, il dettato dell’articolo 2 della Delibera CICR sembra riguardare esclusivamente il richiamato rapporto di conto corrente, riferendo il vincolo della pari periodicità agli interessi a credito e a quelli a debito che intervengono nello scoperto di conto previsto dagli artt. 4 e 6 delle norme uniforme bancarie che contemplano la possibilità di un’elasticità di cassa, non configurabile come un’apertura di credito. Appare stridente, nella lettura dell’art. 2 della Delibera, l’assimilazione tout-court del secondo rapporto al primo, in una concezione unitaria della gestione: nell’apertura di credito, come anche nelle altre forme di affidamento in conto, diverse sono le cause, diversi i periodi di riferimento, diverse le discipline regolanti i contratti. Né l’art. 1 della Delibera sembra consentire, di per sé, una lettura che estenda la produzione degli interessi sugli interessi ad ogni forma di rapporto di affidamento regolato in conto corrente. Infatti l’art. 1 della Delibera C.I.C.R. 9/2/00 prevede: (Ambito di applicazione)Nelle operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito poste in essere dalle banche e dagli intermediari finanziari gli interessi possono produrre a loro volta interessi secondo le modalità e i criteri indicati negli articoli che seguono.”. Gli articoli che seguono trattano esclusivamente il conto corrente e i finanziamenti con piano di rimborso rateale. Per i finanziamenti con rimborso rateale, si è avvertita l’esigenza di prevedere esplicitamente, all’art. 3 della Delibera C.I.C.R., la produzione di interessi, in capitalizzazione semplice, sulle rate scadute (compresa quindi la quota interessi). Ciò induce ad escludere, mancando un’esplicita previsione, per i finanziamenti a scadenza, la produzione di interessi su interessi prima della scadenza stessa. In una non recente sentenza del Tribunale di Milano (6 settembre ‘06, Vanoni) si è ritenuto che, solo ricorrendo un’unitarietà della causa, si possa giustificare un’interferenza delle discipline, estendendo all’apertura di credito le clausole espressamente stabilite per il conto corrente: “Allorquando tra la banca ed il cliente sia stato sottoscritto un unico contratto avente ad oggetto un rapporto di conto corrente “affidato” (da apertura di credito), è possibile estendere all’apertura di credito sullo stesso concessa, le clausole normative relative agli interessi ultralegali ed alla capitalizzazione trimestrale espressamente previste nel contratto di conto corrente”.

Per l’apertura di credito non si pone alcun problema di uniformità periodale degli interessi e frequentemente, unitamente alle altre forme usuali di affidamento – anticipi e sconti di carta commerciale – interviene in un momento successivo, con un contratto per il quale il conto corrente non costituisce elemento essenziale: anche se appoggiato funzionalmente allo stesso, conserva pur tuttavia la propria autonomia negoziale. Le altre forme di credito, soprattutto le anticipazioni e lo sconto di carta commerciale, vengono spesso gestite in appositi conti di servizio, separati dal conto ordinario e a questo collegati dalle movimentazioni del credito concesso e dall’addebito degli interessi trimestrali. Per una pluralità di negozi, distinti e separati – negli atti, nei tempi di manifestazione e nelle modalità di gestione – seppur collegati funzionalmente, si può ritenere esclusa ogni interferenza fra le discipline che presiedono ciascuno di essi.

Una posizione del tutto simile è stata assunta dall’A.B.F. in materia di carte di credito rimborsabili ratealmente (assimilabili all’apertura di credito): “Nel merito, risulta agli atti (e non è contestato) che parte resistente abbia provveduto mensilmente a computare a capitale gli interessi maturati (…) In proposito, questo Collegio ha già, in diverse circostanze, avuto modo di osservare che la nota deliberazione del C.I.C.R. del 9 febbraio 2000 (attuativa dell’art. 120, co. 2, del tub) autorizza tale capitalizzazione esclusivamente con riguardo ai conti correnti bancari, peraltro a condizione che sia assicurata la medesima periodicità nel conteggio degli interessi attivi e passivi, di guisa che il giudicante non può in proposito che confermare (…)  non sono da ritenere operanti eccezioni alla portata della più generale prescrizione di cui all’art. 1283 del codice civile, con conseguente impossibilità di riportare a capitale la quota di remunerazione già maturata finché non sopravvenga domanda giudiziale o convenzione tra le parti posteriore alla scadenza (cfr. le decisioni nn. 597/2011; 1043/2011; 1668/2011; 1172/2011; 1883/2011). (…) il rapporto in parola (caratterizzato dalla flessibilità di utilizzo del prodotto entro i limiti della disponibilità finanziaria concessa), nel creare a favore del sovvenuto una disponibilità di fondi, replica caratteristiche strutturali e tipologiche dell’apertura di credito bancario (art. 1842 segg. cod. civ.). La disciplina di tale contratto, al quale risulta maggiormente prossimo il fido in argomento, prevede che i versamenti effettuati dal cliente, in quanto aventi preminente natura di atti ripristinatori della disponibilità originariamente garantita, non potrebbero essere assoggettati alla disciplina dei pagamenti. Per l’effetto, gli importi versati andrebbero perciò per intero imputati a capitale e la remunerazione del finanziamento conteggiata separatamente. (Collegio Napoli, Decisione n. 1796/13).

[8] Un credito è liquido quando è determinato, o facilmente determinabile, nel suo ammontare, è esigibile quando non è sottoposto a condizione o termine ovvero, se subordinato a controprestazione, quando questa è stata eseguita. 

[9] Cfr. anche Cass. Civ. Sez. III, n. 10281/01; Cass. Civ. Sez. III, n. 5707/07; Cass. Civ. Sez. Lav. n. 6228/94; Cass. Civ. Sez. III n. 11014/91; Cass. Civ. Sez. III, n. 2352/88.

[10] Art. 1194 c.c. Imputazione del pagamento agli interessi.

Comma 1. Il debitore non può imputare il pagamento al capitale piuttosto che agli interessi e alle spese, senza il consenso del creditore.

Comma 2. Il pagamento fatto in conto di capitale e d’interessi deve essere imputato prima agli interessi.”

[11] “ (...) il criterio legale di imputazione del pagamento agli interessi anziché al capitale (in difetto del consenso del creditore) di cui all'art. 1194 c.c. non costituisce un fatto che debba essere specificamente dedotto in funzione del raggiungimento di un determinato effetto giuridico, ma integra una conseguenza automatica di ogni pagamento, sicché non al creditore incombe l'onere di dedurre i limiti estintivi del pagamento sul capitale, ma al debitore di allegare che il creditore aveva consentito che il pagamento fosse imputato al capitale anziché agli interessi.” (Cass. Sez. III, 9/10/03, n. 15053).

[12] La medesima sentenza precisa che “...le operazioni di prelievo e versamento, all’interno dell’unitaria struttura del rapporto di conto corrente e bancario, non configurano distinti ed autonomi rapporti di debito e credito reciproci tra banca e cliente, in relazione ai quali, nel corso dello svolgimento del rapporto, si possa configurare un credito della banca a fronte del quale il pagamento del cliente debba essere imputato in conto di interessi. Se tale è l’assunto di fondo, va osservato che la sentenza delle S.U. 24418/2010, pronunciandosi sulla decorrenza della prescrizione della domanda di restituzione delle voci indebitamente percepite dalla banca, ha chiaramente rilevato che, se al conto accede l’apertura di credito bancario ex artt.1842 e ss., e se il correntista, durante lo svolgimento del rapporto, ha effettuato non solo prelevamenti, ma anche versamenti, questi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, ove si tratti di versamenti su conto cd. scoperto, quando cioè siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento (o su conto in passivo a cui non acceda l’apertura di credito), mentre negli altri casi nei quali il passivo non superi l’affidamento, i versamenti fungono da atti ripristinatori della provvista di cui il correntista può anche godere.” 

Va da se che il pagamento non può essere rivolto agli interessi relativi al fido, se questi non è scaduto: dopo aver pagato gli interessi relativi al capitale in extra fido, per la parte eventualmente residua, il pagamento va a scomputare quest’ultimo.

[13] Ancor prima della sentenza della Cassazione S. U. n. 24418/10 si osservava: ‘Parimenti non può essere condiviso il richiamo operato dalla banca convenuta all’art. 1194 c.c., in quanto nel caso specifico del conto corrente non esiste in senso proprio e tecnico il pagamento degli interessi o del capitale e, per di più, non è il debitore (cioè il correntista) che imputa ‘il pagamento’, poiché il correntista si limita a versare somme (ovvero a consegnare somme alla banca) per la registrazione sul conto corrente. L’art. 1194 c.c. non può poi, altresì essere invocato poiché per imputare al pagamento una determinata somma occorre che il credito sia liquido ed esigibile e, quindi, occorre che il creditore abbia la disponibilità del credito. Tali elementi (liquidità e disponibilità) non esistono (per la banca) nell’ambito di un rapporto di conto corrente bancario, ancor più se affidato. La banca ha la disponibilità del suo credito e, dunque, ha la liquidità ed esigibilità solo quando revoca la linea di credito e chiede il rientro. Prima di allora la banca non può pretendere alcun pagamento, poiché è solo il cliente che può beneficiare della disponibilità delle somme versate e concesse dalla banca’ (Trib. Lecce 3/11/05, n. 46).

[14] Ancor più esplicito è l’enunciato di una successiva sentenza della Cassazione: ‘La disponibilità assicurata dalla banca deve necessariamente derivare da un contratto di apertura di credito: è, infatti, soltanto grazie alle caratteristiche di tale contratto (il quale comporta l’obbligo della banca di tenere a disposizione del cliente la somma prevista sino alla scadenza o al recesso con preavviso) che si afferma che, non essendovi credito esigibile della banca allorché il cliente utilizza il fido (il credito concesso con l’apertura sarà esigibile soltanto con la cessazione dell’apertura stessa), le conseguenti rimesse del medesimo cliente sul conto passivo non costituiscono pagamento, bensì meri atti ripristinatori della provvista messa a disposizione della banca e in precedenza da lui utilizzata.’ (Cass. Civ. Sez. I, 2/3/12, n. 3316).

[15] Per il contratto di mutuo, ad esempio, la Cassazione (Cass. Civ. Sez. III, 10 settembre 2010, n. 19291) ha previsto: “E' pacifico, infatti, che nella specie, trattandosi di contratto di mutuo, e quindi di contratto di durata, in cui l'obbligo di restituzione del capitale sia differito nel tempo, i singoli ratei non costituiscono autonome e distinte obbligazioni, bensì l'adempimento frazionato di un'unica obbligazione. Ne consegue che la prescrizione decennale, applicabile al caso in esame, non può che decorrere dalla scadenza dell'ultimo rateo previsto nel piano di ammortamento e, perciò, come è stato ritenuto dai Giudici di merito, dal giorno successivo alla data di scadenza per il pagamento dell'ultima rata del mutuo stesso e cioè dal 26.11.90.”.

[16] In tema di revocatoria fallimentare, si impiega più propriamente il termine “conto passivo” per indicare il saldo passivo compreso entro il fido e “conto scoperto” per indicare il saldo passivo in assenza di apertura di credito o la quota sconfinante il limite di fido.

[17]Non è mancato chi non condivida la ferma opposizione della Cassazione ad una lettura “lasca” dell’art. 1194 c.c. che aprirebbe il varco alla menzionata forma surrettizia di anatocismo. Si sostiene che il divieto di anatocismo preclude ogni forma di capitalizzazione degli interessi, ma non sussiste alcun impedimento a convenire la liquidazione degli stessi prima della scadenza del capitale, come in altre forme di finanziamento. Con la liquidazione in conto degli interessi, conseguente ad una rimessa, formalmente non si configura alcuna capitalizzazione. In questo senso si è espresso il Tribunale di Catania: “Devesi osservare che la regolamentazione pattizia del rapporto di conto corrente bancario, fino al mutato orientamento giurisprudenziale in materia di capitalizzazione trimestrale, contemplava all'art. 7 co. 2 n.u.b. la previsione della contabilizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal correntista: 'i conti che risultino, anche saltuariamente, debitori vengono chiusi contabilmente, in via normale, trimestralmente ... applicando agli interessi dovuti dal correntista e alle competenze di chiusura valuta data di regolamento del conto...'. Ora, se è vero che la clausola summenzionata deve ritenersi affetta da nullità, per come sopra evidenziato, avuto riguardo, tra l'altro, alla parte in cui prevede il c.d. anatocismo bancario per violazione dell'art. 1283 c.c., vero è anche che la detta clausola nelle sue due articolazioni segnalate (commi 2 e 3) mantiene una sua rilevanza giuridica ai fini della ricostruzione della comune volontà negoziale delle parti, con particolare riferimento alla debenza degli interessi dovuti dal correntista sulle somme messegli a disposizione dalla banca. Non può infatti seriamente dubitarsi del fatto che gli interessi in questione risultino dovuti, alla stregua della pattuizione citata, a cadenza trimestrale, in forza della chiusura contabile del conto prevista per l'appunto alla fine di ogni trimestre. Il fatto, poi, che la clausola in esame non possa ritenersi operante ai fini della capitalizzazione trimestrale non toglie che essa valga ad individuare la debenza degli interessi alla fine di ogni trimestre.

Non appare configurabile nel sistema alcuna norma che precluda alle parti di prevedere una scadenza trimestrale della obbligazione da interessi per la messa a disposizione di somme di denaro da parte dell'istituto bancario.” (Tribunale di Catania, Giudice Fichera, 5-6 agosto 2010, Cfr. anche: Corte di Appello di Catania, sez. I, n.1101/2006; A. Quintarelli, Anatocismo e usura nei rapporti bancari, Giornata di formazione ASSO-CTU, Centro Congressi Università Sapienza, Roma 24/2/12, in assoctu.it).

[18] Frequentemente il fido subisce nel corso del rapporto sia incrementi che riduzioni. In quest’ultima circostanza, per l’ammontare della riduzione, credito ed interessi divengono liquidi, esigibili e, di riflesso, oggetto di eventuali successive rimesse solutorie.

[19] Diversamente si realizzerebbe un effetto non molto dissimile ad una capitalizzazione se, prima della scadenza del capitale, la rimessa fosse sottratta alla disponibilità del cliente per pagare gli interessi.

[20] La irripetibilità del pagamento degli interessi illegittimi, coperti da rimesse solutorie, trascina con sé la irripetibilità dei successivi anatocismi connessi a tali interessi; intervenendo il pagamento degli interessi illegittimi non si ha alcuna produzione di interessi su interessi. Non si ritiene, infatti, che la prescrizione renda irripetibile solo il pagamento immediato degli interessi illegittimi, lasciando tuttavia ripetibili i pagamenti delle implicite capitalizzazioni indotte successivamente nel decennio di prescrizione. Con il pagamento dell’interesse illegittimo, si priva il capitale di credito dell’afflusso di un pari importo della rimessa: i maggiori interessi che conseguono sul capitale nel tempo risultano pertanto legittimi non avendo un diretto riferimento causale agli interessi illegittimi pagati.

Per gli interessi relativi all’apertura di credito, solo con la revoca/scadenza del fido, si ha la contestuale liquidità ed esigibilità del capitale ed interessi: venendo meno il fido, ogni rimessa successiva diviene solutoria e attribuita prioritariamente a ripianare gli interessi.

[21] Non sembra riferibile alla fattispecie in esame, la disapplicazione dell’art. 2948 c.c. prevista invece per gli interessi contenuti nelle rate di mutuo, in forza della circostanza che il pagamento di queste ultime configura un’obbligazione unica e il relativo debito scade con l’ultima rata.

[22] Qualora si accedesse ad una diversa interpretazione che, trascurando la simultanea liquidità ed esigibilità del credito e degli interessi, non operasse alcuna distinzione in questi ultimi, anche un piccolo debordo del fido verrebbe a precludere la ricostituzione del credito accordato, se prima non fossero interamente saldati tutti i pregressi interessi e competenze. Anche in presenza di un modesto scoperto di conto le successive rimesse verrebbero interamente rivolte a saldare interessi e competenze pregressi, sino al loro completo ripianamento, prima di pagare il credito in scoperto e passare a ricostituire il margine di fido. Con tale interpretazione verrebbe in buona parte vanificata la norma imperativa disposta dall’art. 1283 c.c.. I riflessi economici, in tale lettura, risulterebbero del tutto identici alla capitalizzazione: venendo meno l’esigenza della simultaneità di scadenza del capitale e degli interessi, il pagamento anticipato di questi ultimi si sostituirebbe alla riduzione del credito in conto capitale producendo in tal modo ulteriori interessi sino alla scadenza del credito stesso. Per i conti movimentati risulterebbe del tutto ininfluente il divieto di capitalizzazione.

[23] Risultando tipica del conto corrente l’alternanza e frequenza di poste a debito e a credito, qualora ricorra un saldo in extra fido, l’annotazione degli interessi a debito troverebbe un pronto pagamento alla prima rimessa a credito.

[24] “Tale tesi inficia in radice l'operatività, nella fattispecie in esame, dell'art. 1283 c.c., giacché si risolve nel sostenere che, per estinguere gli interessi passivi, che maturano giorno per giorno, verrebbero utilizzate le poste attive del conto corrente (o le aperture di credito concesse dalla banca al cliente). Se così fosse però, ovviamente alcun anatocismo maturerebbe (il debito da interessi verrebbe, infatti, immediatamente estinto) il che contraddice specificamente quanto statuito dalle Sezioni Unite che, come detto, hanno individuato nel contenuto delle clausole contrattuali “de quibus” proprio la fattispecie degli interessi anatocistici stabiliti in violazione della norma di cui all'art.1283 c.c.” (Trib. Torino, 5 ottobre 2007, in Foro It., 2008, 2, I, pagg. 646 ss.).

[25] Cfr. R. Marcelli, Anatocismo e capitalizzazione. Con il nuovo art. 120 TUB si ‘scardina’ il presidio dell’art. 1283 c.c., in www.assoctu.it.

[26] Osserva Pandolfini che l’accessorietà, intesa nel senso più classico del termine, si riferisce solo al momento genetico dell’obbligazione principale, dovendosi intendere ‘nel senso che l’obbligazione degli interessi presuppone l’esistenza di un debito relativo alla somma capitale. Viceversa, una volta venuta ad esistenza, l’obbligazione degli interessi acquista un’autonomia tale da renderla oggetto di rapporti giuridici separati e da farla sopravvivere anche al debito principale’, di modo tale che ‘non spiegano effetti sull’obbligazione di interessi eventuali vicende attinenti all’obbligazione principale, determinate da cause successive alla nascita della stessa’. A titolo esemplificativo: la prescrizione del debito principale non comporta la prescrizione del debito da interessi, né gli atti interruttivi della prima si riflettono sulla seconda; l’obbligazione di interessi può formare oggetto di atti di disposizione separatamente dall’obbligazione principale. (Cfr. V. Pandolfini, La disciplina degli interessi pecuniari, Padova 2004).

[27]Al contrario, nel caso di specie, il pagamento delle singole rate costituisce l’adempimento parziale dell’unica obbligazione restitutoria derivante dal mutuo e conseguentemente  per i ratei già scaduti non opera il termine prescrizionale di cui all’art. 2948 c.c. relativo alla prescrizione delle prestazioni periodiche.

La data di decorrenza dalla prescrizione deve quindi essere individuata con riferimento alla scadenza dell’ultima rata del mutuo in questione e non di certo prendendo in considerazione la data di stipula dello stesso. L’unicità del debito, seppur come  ricordato, ratealmente frazionato, impone la decorrenza di un unitario termine di prescrizione che, trattandosi di debito rateizzato, decorre dal termine contrattualmente statuito per il pagamento dell’ultima rata dato che prima di detta scadenza il mutuante non può legittimamente pretendere il pagamento e quindi non ha azione per costringere il debitore all’adempimento. L’unitarietà della prestazione e l’unicità della causa debendi determinano l’inapplicabilità anche per gli interessi  dell’art. 2948 c.c (cfr. Cass. 3 febbraio 1994, n. 1110): criterio informatore dell’art. 2948 c.c., nn. 1 – 4, è quello di liberare il debitore dalle prestazioni scadute, non richieste tempestivamente dal creditore, quando le prestazioni siano periodiche, in relazione ad una causa debendi continuativa; perciò, dalla previsione della citata norma resta esclusa l’ipotesi di debito unico, rateizzato in più versamenti periodici: e quando nei versamenti rateizzati siano inclusi gli interessi sulla somma dovuta, anche il debito di interessi si sottrae all’applicazione della prescrizione quinquennale, giacchè identica è la causa debendi sia della prestazione principale che di quella degli interessi (Cass. 15 luglio 1965,n 1546). (Cass. civ. Sez. III, Sent., 30/08/2011, n. 17798).

[28] Nel testo, a differenza della Delibera CICR 9/2/00, l’estensore si è premurato di precisare che gli interessi addebitati divengono, per ciò stesso, sorte capitale! Questo il contenuto:

ART. 17-bis. (Modifiche all’articolo 120 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, relativo alla decorrenza delle valute e calcolo degli interessi)

1. Al comma 2 dell'articolo 120 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, le lettere a) e b) sono sostituite dalle seguenti:

a) nei rapporti di conto corrente o di conto di pagamento sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori, comunque non inferiore ad un anno; gli interessi, sono conteggiati il 31 dicembre di ciascun anno e, in ogni caso, al termine del rapporto per cui sono dovuti;

b) gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito, non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale; per le aperture di credito regolate in conto corrente e in conto di pagamento, per gli sconfinamenti anche in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido: i)gli interessi debitori sono conteggiati al 31 dicembre e divengono esigibili il 1° marzo dell’anno successivo a quello in cui sono maturati; nel caso di chiusura definitiva del rapporto, gli interessi sono immediatamente esigibili; ii) il cliente può autorizzare, anche preventivamente, l’addebito degli interessi sul conto al momento in cui questi divengono esigibili; in questo caso la somma addebitata è considerata sorte capitale; l’autorizzazione è revocabile in ogni momento, purché prima che l’addebito abbia avuto luogo.

2. Conseguentemente, sostituire la denominazione del Capo IV con la seguente: «Disposizioni in materia di gestione e di tutela del risparmio».

[29] Quanto disposto si risolverà – nell’evidente asimmetria negoziale – in una clausola anatocistica preventiva, unilateralmente predisposta, non negoziata e non negoziabile, che verrebbe inserita nei contratti di adesione (facilmente estendibile a oneri, commissioni e spese), sottoscritti per accedere ad un sistema di credito connotato, come ribadisce la Suprema Corte, dalla regola del prendere o lasciare, scardinando, al tempo stesso, per questa via i criteri di qualificazione dei pagamenti fissati dalla Cassazione S.U. n. 24418/10. Sul tema dell’autorizzazione permane di grande ausilio la riflessione che il prof. Francesco Astone, ha curato nel dibattito sviluppatosi sulla proposta di Delibera CICR posta in consultazione lo scorso agosto: ‘Dunque, se semplicemente gli interessi non sono più tali, perché vengono riqualificati come debito capitale, il problema dell’anatocismo non si pone e, sul punto della riqualificazione, nulla dice la legge, sicché il principio generale dell’autonomia negoziale certamente lo consente. Senza pretendere di porre una parola definitiva al dibattito, è però necessario osservare che la questione relativa alla nullità dell’autorizzazione, all’eventuale violazione di norme imperative da parte di essa, appare mal posta dall’una e dall’altra parte, sia da parte del CICR, che risolve il problema attraverso il richiamo all’autonomia negoziale, sia da parte dell’ipotetico interlocutore che assumesse la nullità dell’autorizzazione di cui si discute per violazione di norma imperativa. Il problema – a differenza di quanto il CICR mostra di ritenere (e gli interpreti indipendenti non devono commettere l’errore di seguirlo su questa strada) – non è infatti in termini di autorizzazione, quanto piuttosto di qualificazione. L’attività giuridica con cui viene definita una determinata attività giuridicamente rilevante ovvero una operazione economica giuridicamente rilevante è infatti la qualificazione e – per pacifico e costante insegnamento della giurisprudenza (non solo italiana) – la qualificazione è un’attività rimessa dal giudice, senza che nessuna rilevanza possa assumere la qualificazione operata dai privati. In altri termini, la qualificazione non forma oggetto di autonomia privata ad opera del giudice, che deve basare la sua valutazione su dati oggettivi, senza che la volontà delle parti possa assumere qualsiasi rilievo. Tanto considerato, l’attività di qualificazione di un debito – come debito di sorte capitale ovvero come debito di interessi – è opera del giudice: l’autorizzazione che una delle due parti dia all’altra sul punto della qualificazione di un debito come «sorte capitale» ovvero come «interessi» non può essere tecnicamente classificata come valida ovvero come invalida o nulla, dovendo piuttosto essere classificata come giuridicamente irrilevante. Il giudice dovrà pertanto stabilire se il debito sia o meno «sorte capitale» (produttivo di interessi) ovvero come «interessi» (non produttivo di interessi in ragione del divieto di cui si è detto) e dovrà farlo, naturalmente, in base alla fonte dell’obbligazione di cui si discute: se si tratta di una obbligazione che deriva dal godimento di denaro (art. 820, 3° co., c.c.), sarà inevitabile classificarla come obbligazione avente ad oggetto interessi, non produttiva di altri interessi. È dunque necessario un cambiamento: un cambiamento nel nostro modo di procedere, nel nostro modo di riflettere, nel modo di pensare e di scrivere le leggi. Deve trattarsi di un percorso che deve operare in modo effettivo e non possiamo continuare a pensare che tutto cambia affinché nulla cambi’. (F. Astone, ‘Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi: l’articolata vicenda dell’anatocismo bancario’, Convegno ASSOCTU, Roma 16 ottobre 2015).

[30] Dalla formulazione della norma non sembra, tuttavia, che la mora possa essere sottratta ai limiti previsti dall’art. 1283 c.c.

[31] L’emendamento inserito in Commissione parlamentare, su un diverso corpo normativo sottoposto a fiducia, congiuntamente al documento posto a suo tempo in consultazione dalla Banca d’Italia, appaiono emulare talune tendenze – come la nota vicenda dell’art. 2, comma 61, del decreto ‘Milleproroghe’ – volte ad intervenire, in maniera alquanto disinvolta, per modificare radicati orientamenti giurisprudenziali e condizionare fermi principi dell’ordinamento giuridico.


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