Civile


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 15/12/2016 Scarica PDF

Il danno non patrimoniale da fatto illecito

Gaetano Anzani, Professore a contratto di Istituzioni di Diritto Privato nell'Università di Pisa


Sommario: 1. Le tipologie di tutela e le loro sfumature funzionali in ragione della natura patrimoniale o non patrimoniale del danno. - 2. La ricostruzione del sistema generale dei danni non patrimoniali. - 3. Il quantum dei danni non patrimoniali. - 4. I danni non patrimoniali “di riflesso”. - 5. I danni non patrimoniali “tanatologici”.

   


1. La responsabilità da fatto illecito si esplica con un rimedio che o consiste già nell’immediato in una somma di denaro o, almeno, è traducibile in un valore pecuniario succedaneo. Tuttavia, la generica funzione di tutela della responsabilità si tinge di una sfumatura più specifica, della quale l’intero istituto diviene partecipe in concreto, a seconda delle circostanze della lesione dell’interesse protetto e, soprattutto, del carattere patrimoniale o non patrimoniale del pregiudizio a cui bisogna reagire[1].

La tutela elargita in presenza di un “danno patrimoniale”, infatti, è propriamente “risarcitoria”, perché questo pregiudizio è stimabile attraverso parametri (di solito, “di mercato”) che consentono di fissare un equivalente monetario oggettivo del bene perso o alterato in conseguenza della lesione illecita. Ed il “risarcimento” è o, perlomeno, può essere “compensativo”[2], in quanto il denaro rientra nella gamma di valori del bene offeso, anche se le ricostruzioni tradizionali della responsabilità civile[3] imprimevano all’obbligo imposto al responsabile una forte componente “sanzionatoria”[4].

La tutela elargita in presenza di un “danno non patrimoniale”, invece, può essere esclusivamente “riparatoria”, perché questo pregiudizio non è mai convertibile in un’entità monetaria di valore esattamente equivalente al bene perso o alterato in conseguenza della lesione illecita, sicché una somma di denaro può essere riconosciuta al danneggiato solo in via equitativa (salva la questione intorno ai criteri di liquidazione dei quali il giudice possa avvalersi al fine di scongiurare arbitri)[5]. E la funzione della “riparazione”, in astratto e principalmente, potrebbe solo avere un connotato “sanzionatorio” (o “punitivo”)[6], “solidaristico”[7], “satisfattivo”[8], “deterrente”[9] oppure “composito”[10], in quanto il denaro ed il bene offeso sono valori tra loro incommensurabili ed eterogenei.

La funzione della tutela apprestata dalla responsabilità aquiliana, specialmente laddove si tratti di riparare un danno non patrimoniale, può dunque oscillare tra gli estremi della sanzione e della compensazione[11].


2. La materia del “danno alla persona”, grazie agli impulsi della dottrina, è stata progressivamente ripensata nel diritto vivente.

La nozione di «danno non patrimoniale» riparabile ai sensi dell’art. 2059 c.c. abbraccia ormai ogni rilevante pregiudizio afferente alla persona: il danno alla salute, che non viene più risarcito sotto le spoglie della patrimonialità ai sensi dell’art. 2043 c.c.; il danno morale, sia quello derivante da reato in virtù della previsione di cui all’art. 185 c.p. sia, adesso, quello derivante anche solo da un illecito civile; nonché qualunque altro danno non patrimoniale. Si è infatti giunti a ritenere che l’art. 2059 c.c., oltre a permettere la riparazione dei danni non patrimoniali in ipotesi tipiche, contenga (non una riserva di legge, bensì) un rinvio alla legge rivolto in primis alla Costituzione. Tuttavia, non basta che l’interesse o, con linguaggio pubblicistico, il “diritto” leso sia di rango genericamente costituzionale, giacché dev’essere altresì «fondamentale» ed «inviolabile»[12].

L’inviolabilità del diritto assorbe il carattere della fondamentalità, perché è un quid pluris. I diritti sono fondamentali ove risultino di importanza primaria e connotino un ordinamento. Essi sono inoltre inviolabili, cioè intangibili, ove abbiano ad oggetto aspetti inerenti alla “persona umana”, che ha la vocazione alla relazionalità e va presidiata anche nelle formazioni sociali nelle quali si realizza, e riflettano libertà tanto negative (da ingerenze pubbliche o private) quanto positive (di azione e partecipazione nel contesto sociale) in funzione di una forma di Stato pluralistica e democratica[13].

I diritti inviolabili hanno una latitudine maggiore rispetto ai «diritti della personalità», perché questi riservano a ciascuno il controllo sugli attributi corporei ed immateriali che ne costituiscono l’individualità in una dimensione statica, mentre i primi considerano le istanze sociali dell’essere umano e proteggono altresì la proiezione dinamica della persona[14].

È controverso se il catalogo degli interessi inviolabili, in virtù di un’interpretazione dell’art. 2 Cost. rispettivamente estensiva o restrittiva (cioè meramente riassuntiva delle disposizioni successive), sia aperto ovvero chiuso[15]. La Costituzione non sembra seguire approcci giusnaturalistici e, pur accogliendo l’idea dell’anteriorità dei diritti inviolabili rispetto allo Stato, allude a diritti superiori alla legge in quanto permanentemente validi e sottratti alle contingenti maggioranze parlamentari. Dal canto suo, la Corte Costituzionale ha nel tempo assunto una posizione mediana, poiché ha affermato che nuovi diritti inviolabili sono desumibili dall’art. 2 Cost. solo qualora, da un lato, conseguano di necessità a diritti previsti o presupposti da ulteriori norme della Carta e, dall’altro, abbiano una forza assiologica tale da giustificare la compressione di diritti concorrenti già riconosciuti, dato che ogni nuovo diritto rinvenuto nel tessuto costituzionale riduce l’esercizio legittimo di diritti preesistenti[16].

In questo quadro, gli interessi protetti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, ancorché proclamati fondamentali, non postulano la riparazione dei danni non patrimoniali se sono privi del crisma dell’inviolabilità, com’è ad esempio la proprietà[17]. D’altronde, la Corte Costituzionale ha chiarito che la C.E.D.U. non ha rango costituzionale ai sensi dell’art. 10 o dell’art. 11 Cost., bensì è fonte di obblighi internazionali pattizi che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost.. Ciò significa che la Consulta, se viene sollevata questione di costituzionalità intorno a disposizioni italiane per contrasto con la Convenzione di Roma come interpretata dalla Corte di Strasburgo, potrebbe dichiarare l’illegittimità delle norme interne solo dopo essersi sincerata che il parametro internazionale invocato risulti a propria volta compatibile con la Costituzione; e lo scrutinio di costituzionalità, a differenza di quello relativo al diritto dell’Unione Europea, non dev’essere circoscritto alla verifica di un conflitto con i principi supremi del nostro ordinamento[18].

La tutela degli interessi inviolabili della persona ha condotto la giurisprudenza ad interpretare restrittivamente l’art. 16 delle Preleggi, così da escludere che la regola della “reciprocità” tra cittadini italiani e stranieri anche extracomunitari valga riguardo al diritto di questi ultimi al risarcimento dei danni patrimoniali o non patrimoniali da lesione di un interesse inviolabile[19].

La riparazione del danno non patrimoniale da compromissione di interessi inviolabili, poi, è stata ammessa anche alla stregua di fattispecie civilistiche di responsabilità oggettiva[20].

La riparazione dipende ancora dalla ricorrenza almeno in astratto di un reato se non siano offesi interessi inviolabili. E l’art. 2059 c.c., di cui è stata esaltata in generale una funzione satisfattiva, mantiene in tal caso un’impronta sanzionatoria.

Sotto il profilo dei rapporti tra illeciti penali ed illeciti civili con imputazione oggettiva, però, bisogna considerare che i secondi, sufficienti per il risarcimento dei danni patrimoniali, hanno fattispecie autonome rispetto a quelle dei primi, perché la colpevolezza non rientra tra gli elementi costitutivi e ciò impedisce la contestuale integrazione di un reato anche solo in astratto. Pertanto, il danneggiato che voglia ottenere la riparazione dei danni non patrimoniali dovrà domandare l’accertamento di una fattispecie di reato suscettibile sia di sovrapporsi alla fattispecie civilistica di responsabilità oggettiva sia di aggiungersi ad essa come titolo capace di fondare una responsabilità estesa a quei danni, salva ai soli fini civili – per quanto si dirà infra – la possibilità di dimostrare l’elemento soggettivo con presunzioni e prove legali[21].

La fattispecie dell’art. 2059 c.c., quindi, non è stata né puramente integrata con il medesimo criterio selettivo dell’ingiustizia di cui è dotato l’art. 2043 c.c. né sottoposta ad una rilettura solo vagamente orientata dai principi costituzionali[22]. Tuttavia, il rango dell’interesse di per sé non esclude l’an dell’obbligazione riparatoria quando l’asserito danneggiato avanzi pretese “bagatellari”, sicché è stato precisato che bisogna contemperare le posizioni del danneggiante e del danneggiato valutando tanto la “gravità” dell’offesa quanto la “serietà” del conseguente pregiudizio, le quali devono entrambe superare il livello di tollerabilità esigibile nelle relazioni sociali, nonché la riprovevolezza della condotta lesiva e tutte le circostanze fattuali[23].

Ad ogni modo, l’an della riparazione non può identificarsi nella lesione dell’interesse protetto, perché il pregiudizio non è in re ipsa[24]. Ma la giurisprudenza, che già aveva a poco a poco sganciato l’imputabilità civile da quella penale[25], per un verso, ha cessato di richiedere che il danno morale, finanche quello da reato, rappresenti un nocumento ulteriore rispetto ad un danno alla salute o ad un danno patrimoniale[26], per altro verso, ha ammesso che si approfitti delle presunzioni civili di colpa per la dimostrazione dell’elemento soggettivo dell’illecito penale[27].

Infine, la riparabilità del danno non patrimoniale, che non coincide con la pecunia doloris, è stato riconosciuto anche in favore degli enti collettivi per le conseguenze pregiudizievoli della lesione di diritti immateriali della persona costituzionalmente protetti e compatibili con l’assenza di fisicità, come il diritto al nome, all’identità ed all’immagine. L’art. 2 Cost., infatti, garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si svolge la sua personalità, sicché gli enti godono di riflesso della tutela spettante alle persone di cui sono soggetti esponenziali[28].


3. La sorte futura del danno alla persona dipenderà dal quantum della riparazione, perché è indispensabile determinare gli indici da seguire nella liquidazione del pregiudizio, così da personalizzarla senza incorrere in duplicazioni[29].

Va dunque inteso cum grano salis l’invito della Cassazione, non condivisibile nella sua generalizzazione, a non ritagliare specifiche voci all’interno della categoria unitaria del danno non patrimoniale, onnicomprensiva ma non in tutto omogenea, tanto più a fronte della rimodulazione estensiva dei classici pregiudizi non patrimoniali. Secondo le Sezioni Unite del 2008, infatti, ora il danno morale anche non transeunte provocato da una patologia andrebbe incluso nel danno alla salute, la sofferenza cagionata da un reato rifluirebbe nel danno morale anche quando si protragga nel tempo e accompagni l’esistenza della vittima, e la sofferenza morale determinata da un «non poter più fare» (ad esempio, in caso di lesione del rapporto parentale) sarebbe una componente del danno non patrimoniale/esistenziale[30].

La stessa Suprema Corte ha d’altronde avuto occasione di precisare in senso correttivo la portata dei principi elaborati a Sezioni Unite nel 2008[31].

È stato chiarito che il principio di unitarietà del danno non patrimoniale «impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti»[32], perché significa solo «che non v’è alcuna diversità nell’accertamento e nella liquidazione del danno causato dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto ...»[33].

Il riferimento al principio della natura onnicomprensiva del danno «sta invece a significare che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti cd. bagatellari .... L’accertamento e la liquidazione del danno non patrimoniale ..., se ... non richiedono il ricorso ad astratte tassonomie classificatorie, non possono per altro verso non tener conto della reale fenomenologia del danno alla persona, negando la quale il giudice rischia di incorrere in un errore più grave, e cioè quello di sostituire una meta-realtà giuridica ad una realtà fenomenica», ferma la necessità che ogni voce di danno sia provata ed accertata con rigore: ad esempio, il danno alla vita di relazione, quale componente del danno biologico in senso ampio, consiste nella significativa alterazione della vita quotidiana e va distinto dal danno morale soggettivo, che consiste nel dolore interiore[34].

Rispetto al danno alla salute, pertanto, non dev’essere dispersa l’esperienza sui criteri oggettivi dei quali è possibile avvalersi. Per gli altri pregiudizi non patrimoniali, invece, sarà di notevole ausilio la comparazione tra precedenti giudiziari relativi a casi analoghi per la tipologia dell’interesse leso, delle circostanze del fatto lesivo e della situazione del danneggiato. D’altronde, la valutazione della serietà dell’offesa può orientare anche nell’eventuale e successiva fase della liquidazione pecuniaria. Se la responsabilità è a titolo oggettivo, tuttavia, la “serietà” sarà riscontrabile (non nella condotta lesiva, ma) solo nella lesione, e sul quantum non dovrà influire alcun intento sanzionatorio[35].

Il Codice delle Assicurazioni Private (d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 «Codice delle assicurazioni private»), in materia di circolazione di veicoli a motore e di natanti, aveva già adottato il criterio c.d. “tabellare” non più solo – come nella legge 5 marzo 2001, n.57 «Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati» – per le c.d. “micropermanenti” (ossia i pregiudizi che comportino fino al 9% di invalidità), ma per il pregiudizio di qualsivoglia entità[36].

Tuttavia, le tabelle per le macropermanenti, al contrario di quelle per le micropermanenti, non sono ancora vigenti. Secondo la Corte di Cassazione, in questa fase di stallo l’uniformità nell’applicazione del criterio equitativo ex art. 1226 c.c., ai fini della liquidazione sia delle macropermanenti nel settore della c.d. “r.c. auto” sia dei danni non patrimoniali occorsi in qualunque altro settore di responsabilità, va garantito su tutto il territorio nazionale con l’utilizzo delle tabelle adottate dal Tribunale di Milano, a meno che le circostanze della fattispecie inducano ad aumentare o ridurre l’entità della riparazione tabellare. La Suprema Corte ha anzitutto affermato che nell’ambito della r.c. auto la personalizzazione della riparazione, in considerazione di pregiudizi ulteriori rispetto a quelli discendenti dalla lesione della salute, è possibile solo nel limite stabilito dal Codice delle Assicurazioni. Inoltre, è stata esclusa l’estensione in via analogica delle tabelle elaborate per la responsabilità da circolazione stradale a settori differenti. Infine, è stato altresì statuito che l’equità, oltre ad essere «strumento di adattamento della legge al caso concreto», «ha anche la funzione di garantire l’intima coerenza dell’ordinamento .... Alla nozione di equità è quindi consustanziale non solo l’idea di adeguatezza, ma anche quella di proporzione. ... Così intesa, l’equità costituisce strumento di eguaglianza, attuativo del precetto di cui all’art. 3 Cost. ...». Tra l’altro, è stato ritenuto che l’individuazione dei criteri generali ai quali i giudici di merito devono attenersi nell’attuare l’equità di cui all’art. 1226 c.c. spetti alla funzione nomofilattica della Cassazione, e che le decisioni inosservanti di tali criteri (offerti appunto, in alcuni ambiti, anche dalle tabelle in uso presso il tribunale di Milano) siano censurabili in sede di legittimità per violazione di legge ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.. L’applicazione dei suddetti criteri, in quanto espressione dell’“equità-adeguatezza”, sarebbe invece censurabile solo per vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.[37]: la liquidazione non può avvenire attraverso meccanismi liquidativi di tipo automatico e l’onere di motivazione dev’essere stringente, così da rendere evidente e controllabile l’iter logico seguito dal giudice  di merito[38].

L’applicazione delle tabelle previste dagli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni Private per la r.c. auto è stata ora estesa dall’art. 3, comma 3, della legge 8 novembre 2012, n. 189 (che ha convertito in legge, con modificazioni, il decreto legge 13 settembre 2012, n. 158, «Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute») ai danni alla salute da malpractice sanitaria[39].

Orbene, il sistema tabellare congegnato dal legislatore, che in taluni settori, quanto al ristoro dei danni non patrimoniali, deroga parzialmente alla funzione riparatoria in nome di una funzione indennitaria, così da contemperare l’interesse individuale del danneggiato con interessi collettivi, è stato ritenuto costituzionalmente legittimo, almeno con riguardo alle micropermanenti[40].

In giurisprudenza, sia in generale sia ai fini di una maggiorazione dei valori massimi tabellari, è stato comunque affermato che «la gravità del fatto non è priva di rilievo per le modalità e il contesto in cui si è verificato, nella misura in cui le peculiarità dell’evento lesivo si riverberano sul danno effettivamente subito, e dunque pur sempre in un’ottica riparatoria o compensativa e non sanzionatoria»[41].


4. Il risarcimento dei danni c.d. “di riflesso” o “di rimbalzo” risentiti dai familiari della vittima primaria sopravvissuta all’illecito è stato a lungo negato per assenza sia del nesso di causalità giuridica, che veniva invece contraddittoriamente ravvisato se la vittima primaria era deceduta[42] o aveva almeno riportato postumi gravissimi equiparabili alla morte (come lo stato vegetativo)[43], sia dell’elemento soggettivo[44].

Ma la diga eretta sull’art. 1223 c.c. era malferma ed è ormai crollata, perché il danneggiato secondario non subisce danni mediati da quello eventualmente patito dalla vittima primaria, ma danni discendenti dalla lesione di un proprio interesse e rientranti in una serie causale di cui occorre valutare autonomamente la regolarità[45]. Ad esempio, il figlio di una persona illecitamente ferita potrebbe sopportare danno per la compromissione della relazione parentale, che è distinta ancorché contestuale rispetto a quella dell’integrità psico-fisica del genitore, dalla quale è derivato il danno alla salute di questi.

Inoltre, il danneggiante è rimproverabile pure sotto il profilo della colpa, giacché l’inserimento di ogni persona in un contesto familiare risponde alla comune esperienza e la plurioffensività di un illecito coinvolgente l’incolumità di qualcuno è quindi prevedibile.

Da una parte, la giurisprudenza ha concesso tutela non solo ai parenti ed al coniuge della vittima, ma anche a chi con questa coltivasse relazioni puramente affettive, come il convivente more uxorio di sesso tanto diverso quanto uguale. Dall’altra, è stato però sottolineato che il legame tra coloro che domandino il risarcimento ed il congiunto più immediatamente colpito dall’illecito, anche se deceduto, doveva essere effettivo e perdurante, sebbene l’accertamento possa avvenire mediante presunzioni semplici: ciò è possibile in particolare nel caso in cui il vincolo inciso fosse di coniugio, di parentela stretta oppure cementato dalla convivenza (a prescindere da qualificazioni formali o dal grado di una parentela), salva la prova contraria[46].

Peraltro, secondo un recente orientamento di legittimità[47], il danno da lesione del rapporto con soggetti estranei alla famiglia in senso ristretto di cui agli artt. 29 ss. Cost., composta dalla coppia genitoriale e dai figli, sarebbe riparabile purché anteriormente all’illecito sussistesse una situazione di convivenza, «quale connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali, anche allargati, caratterizzati da reciproci vincoli affettivi, di pratica della solidarietà, di sostegno economico». La previa convivenza tra parenti o affini di grado non prossimo, anziché fungere da mero indice presuntivo dell’intensità della loro relazione affettiva, assurgerebbe dunque ad elemento costitutivo di un’originaria «posizione giuridica qualificata» tra familiari (ad esempio, nonno e nipote), ritenuta indefettibile per la genesi di un diritto al risarcimento di pregiudizi anche non patrimoniali nell’eventualità di un’offesa.

Una sezione civile della Corte di Cassazione, per l’ennesima volta, si è così preoccupata di individuare un criterio di bilanciamento che, senza dilatare esageratamente la platea dei danneggiati secondari, assicuri tutela ai diritti della persona pure nelle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost., tra le quali rientra la famiglia “allargata”. Tuttavia, attraverso una controvertibile interpretazione sistematica di alcuni dati di diritto positivo, è stata elaborata una soluzione sproporzionata rispetto all’obiettivo.

Chi non rimanga irretito dal pragmatismo esibito nella motivazione della sentenza, infatti, è incapace di comprendere come la convivenza, significativo eppure non unico indizio dell’instaurazione di un’autentica comunione di affetti, sia insurrogabile con altri elementi fattuali, ugualmente valorizzabili in giudizio, solo qualora rimangano coinvolti congiunti estranei alla famiglia nucleare, tanto da subire per costoro un’impropria metamorfosi in requisito dell’interesse all’intangibilità della sfera familiare. Se è stato perso un concreto vincolo affettivo (ad esempio, con un nipote amatissimo), la riparazione dovrebbe spettare a prescindere dalla previa convivenza con la vittima primaria dell’illecito. Se invece nessun vincolo affettivo è davvero mancato, la riparazione non dovrebbe spettare mai (come nel caso della morte di un “padre-padrone” convivente, ma detestato).

Invero, una sezione penale della Corte di Cassazione, in consapevole contrasto con l’isolato precedente emerso in sede civile e ricomprendendo il rapporto tra ascendenti e discendenti nell’ambito della garanzia costituzionale offerta dall’art. 29 Cost., ha successivamente affermato che l’attribuzione di un rilievo decisivo al requisito della convivenza «porrebbe ingiustamente in secondo piano l’importanza di un legame affettivo e parentale la cui solidità e permanenza non possono ritenersi minori in presenza di circostanze diverse, che comunque consentano una concreta effettività del naturale vincolo nonno-nipote: ad esempio, una frequentazione agevole e regolare per prossimità della residenza o anche la sussistenza – del tutto conforme all’attuale società improntata alla continua telecomunicazione – di molteplici contatti telefonici o telematici. A ben guardare, anzi, è proprio la caratteristica suddetta di intenso livello di comunicazione in tempo reale che rende del tutto superflua la compresenza fisica nello stesso luogo per coltivare e consentire un reale rapporto parentale e ciò vale tanto per i nonni verso i nipoti quanto – il che è assai comune oggi, senza peraltro, significativamente, porre in dubbio o in una posizione di deminutio la risarcibilità – per i genitori verso i figli che lavorano o studiano in altra città o addirittura all’estero. ... Del resto, la condivisibile esigenza [di] certezza del diritto vivente nel senso di stornare pretese risarcitorie strumentali (o comunque dirette ad abusare del sistema assicurativo della responsabilità civile laddove è obbligatorio) da parte di soggetti di fatto distanti dalla rete affettiva familiare è già adeguatamente garantita da una corretta gestione della causa in sede di merito per pervenire all’accertamento del diritto risarcitorio, cioè dall’adempimento completo dell’onere probatorio da parte del soggetto che chiede risarcimento ...»[48].

Quest’ultimo insegnamento è stato prontamente accolto dalla giurisprudenza civile di merito[49].


5. Le vittime secondarie di un illecito mortale, oltre a ricevere jure successionis eventuali diritti risarcitori già spettanti alla vittima primaria, possono dunque acquisire jure proprio un diritto al risarcimento per danni derivanti dalla lesione di interessi dei quali siano personalmente titolari.

Ciò attenua per i congiunti il rigore del prevalente orientamento giurisprudenziale di legittimità che disconosce il c.d. “danno da perdita della vita”, il quale comporterebbe l’insorgere nel patrimonio del defunto, un istante prima della morte, di un credito al risarcimento in grado di cadere in successione. Invero, si riconosce la trasmissibilità jure hereditario solo dei danni c.d. “tanatologici” o “terminali”, cioè del danno alla salute da invalidità temporanea, del danno morale e (adesso anche) di ogni altro danno non patrimoniale subiti dal de cuius anteriormente – e non contestualmente – al decesso. In questa prospettiva, tra la lesione dell’integrità psico-fisica e la morte deve oltretutto intercorrere un “apprezzabile lasso di tempo”, che è un fattore costitutivo del pregiudizio e nelle decisioni giudiziali risulta in concreto piuttosto oscillante da alcuni minuti ad alcuni giorni[50].

Anche la Corte Costituzionale ha negato l’ammissibilità di un “danno da perdita della vita” (o – in questo senso – “da morte”) quale estrema compromissione della “salute”, che consegua alla lesione di un preteso “diritto alla vita” quale somma espressione del “diritto alla salute” e possa giustificare un diritto al risarcimento trasmissibile agli eredi. Vita e salute sono infatti da concepire come beni distinti e suscettibili di differenti regimi, in quanto la protezione della vita spetta solo alla responsabilità penale, a cui è demandata una funzione sanzionatoria, mentre la protezione della salute spetta pure alla responsabilità civile, a cui si addice una tutela riparatoria con funzione ormai perlopiù compensativa, satisfattiva o consolatoria (ma comunque non tipicamente sanzionatoria). A tacer d’altro, la morte fa perdere la soggettività giuridica, che è indefettibile per divenire titolari di qualsivoglia diritto[51].

D’altronde, la Corte di Cassazione ha realisticamente notato che la velleità di concedere una tutela riparatoria «“anche” al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti, non essendo sostenuto da alcuno che sarebbe in linea col comune sentire o col principio di solidarietà che il risarcimento da perdita della vita fosse erogato agli eredi “anziché” ai congiunti (se, in ipotesi, diversi) o, in mancanza di successibili, addirittura allo Stato: il risarcimento assumerebbe allora una funzione meramente punitiva ... [e] si risolverebbe in breve, come l’esperienza insegna, in una diminuzione di quanto riconosciuto iure proprio ai congiunti, che percepiscono somme comunque connesse ad un’onnicomprensiva valutazione equitativa ..., sicché risulterebbe frustrato anche lo scopo di innalzare i limiti del risarcimento»[52].

La giurisprudenza ha però dimostrato sensibilità nel personalizzare la riparazione del danno tanatologico, che va comunque ragguagliata al reale periodo di sopravvivenza dopo l’illecito e non a presunte aspettative di vita[53]. Invero, nella liquidazione di ogni voce di danno alla persona manifestatosi prima del decesso, ed in particolare del danno morale, è opportuno considerare che il pregiudizio affrontato nella lucida coscienza di una morte imminente[54], sebbene sia di durata limitata, è di intensità massima, perché non è paragonabile a quello patito da chi sopporta le sofferenze nell’attesa della guarigione o almeno della stabilizzazione delle menomazioni: si parla di danno “catastrofico” o “catastrofale”, una qualificazione che viene riferita in certi casi al danno morale ed in altri al danno alla salute di tipo psichico[55].

Oltre al danno alla salute da invalidità meramente fisica ed al correlato danno morale riferibili a persone coscienti, si dovrebbe delineare anche un danno non patrimoniale scevro da qualsivoglia connotazione psichica (ed il tema trascende il ristretto campo del danno terminale), eppure la giurisprudenza appare restia a compiere questo passo. Evidenti ragioni di giustizia sostanziale hanno nondimeno indotto a liquidare un danno morale in favore di vittime in coma, e dunque non senzienti, ma ciò è avvenuto con motivazioni incongruenti[56]. La soluzione più corretta del problema consisterebbe nell’ammettere claris verbis, specialmente dopo la rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., la plausibilità di un danno non patrimoniale interamente estraneo alla sfera emozionale e più in generale sensoriale; il che può essere guadagnato facendo leva sul concetto di “dignità della persona”[57]. Per non cadere nell’erronea teorizzazione di un danno-evento, tuttavia, bisognerebbe accertare un concreto minus di dignità, oggettivamente apprezzabile ancorché insuscettibile di consapevolezza soggettiva, come lo stato umiliante in cui ora versi l’esistenza del danneggiato ed il modo in cui la sua personalità, o anche soltanto il suo “essere uomo”, si proiettino nel contesto sociale[58].

Il maggioritario orientamento giurisprudenziale sul danno tanatologico è stato persistentemente avversato da una minoritaria corrente di merito, che ha speso soprattutto l’argomento secondo cui – stante la notevole onerosità della riparazione dei danni da lesioni gravissime – sarebbe paradossale se al responsabile dell’illecito convenisse la morte piuttosto che il solo ferimento della vittima[59].

Il disagio suscitato dalle rigorose condizioni di riparabilità del danno tanatologico ha fatto breccia in una recente sentenza di legittimità, in cui la categoria del danno-evento è stata accolta in via eccezionale proprio per giustificare il danno “da perdita della vita”. Un siffatto pregiudizio sarebbe così riparabile jure hereditario, seppure l’illecito abbia avuto un esito letale immediato o la vittima sia rimasta in stato d’incoscienza fino al sopraggiungere della morte (tra l’altro in considerazione, sotto quest’ultimo aspetto, della già riconosciuta riparabilità del danno non patrimoniale in favore del neonato e del nascituro). Premesso che «la perdita della vita, bene massimo della persona, non può lasciarsi invero priva di tutela (anche) civilistica», e dopo aver condiviso l’osservazione secondo la quale «le categorie dogmatiche create e poste dagli interpreti a base dell’argomentare non possono divenire delle “gabbie argomentative” di cui risulti impossibile liberarsi anche quando conducano ad un risultato interpretativo non rispondente o addirittura in contrasto con il prevalente sentire sociale, in un determinato momento storico», la Cassazione ha quindi statuito che «il ristoro del danno da perdita della vita costituisce in realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni-conseguenza. La morte ha infatti per conseguenza ... la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto», sicché non sarebbe necessario verificare quali conseguenze derivino dall’evento lesivo per distinguere quelle risarcibili da quelle irrisarcibili[60].

Le Sezioni Unite della Cassazione, chiamate a pronunciarsi sulla questione[61], hanno però riaffermato il consolidato orientamento di legittimità contrario al danno da perdita della vita, sia per le ragioni già evidenziate nei precedenti in materia sia in quanto l’invocazione di un’incerta coscienza sociale di segno evolutivo non può autorizzare l’interprete all’accoglimento di nuove soluzioni giuridiche del tutto eccentriche rispetto al diritto positivo. Il Supremo Collegio ha rilevato che l’argomento secondo cui sarebbe “più conveniente uccidere che ferire” «è in realtà solo suggestivo, perché non corrisponde al vero che, ferma la rilevantissima diversa entità delle sanzioni penali, dall’applicazione della disciplina vigente le conseguenze economiche dell’illecita privazione della vita siano in concreto meno onerose per l’autore dell’illecito di quelle che derivano dalle lesioni personali, essendo indimostrato che la sola esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi, comporti necessariamente una liquidazione dei danni spettanti ai congiunti di entità inferiore», tanto più che per la Costituzione non è affatto doverosa la risarcibilità di una perdita, ancorché da reato, insuscettibile di essere riferita ad un soggetto (tuttora) esistente che l’abbia subita. D’altronde, a parte che l’ipotizzata eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni-conseguenza «sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l’anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il “bene salute” e il “bene vita” .... Peraltro, se tale anticipazione fosse imposta dalla difficoltà di quantificazione del lasso di tempo intercorrente tra morte ... e lesione, ... sarebbe facile osservare, da un lato, che da un punto di vista giuridico è sempre necessario individuare un momento convenzionale di conclusione del processo mortale ... al quale legare la nascita del credito, e dall’altro, che l’individuazione dell’intervallo di tempo ... è operazione ermeneutica certamente delicata e che presenta margini di incertezza, ma del tutto conforme a quella che il giudice è costantemente impegnato ad operare quando è costretto a fare applicazione di concetti generali e astratti»[62].

 


[1] Sulle tipologie di tutela e sulle sfumature funzionali della responsabilità civile, seppure con l’avvertenza che in dottrina non vi è uniformità di vedute neanche sulla terminologia, v., in generale, A. di Majo, Tutela risarcitoria: alla ricerca di una tipologia, in Riv. dir. civ., 2005, I, 243; più in particolare, G. Cricenti, Persona e risarcimento, Padova, 2005, 169 ss.; G. Clerico, Incidente, livello di precauzione e risarcimento del danno, in Riv. crit. dir. priv., 2003, 271; L. Di Bona De Sarzana, Funzioni e modelli giurisprudenziali del danno non patrimoniale, in Danno e resp., 2004, 585; M. Franzoni, Il danno risarcibile, in Tratt. della resp. civ., diretto da M. Franzoni, 2a ed., II, Milano, 2010,699 ss. Inoltre, v. già le osservazioni di G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, 7a ed., V, Firenze, 1909, 399 ss.

[2] La funzione compensativa si attua con la sostituzione del bene perso o alterato con un bene (di solito, il denaro) di valore equivalente, sicché il patrimonio del danneggiato, nonostante una modificazione qualitativa, viene perfettamente reintegrato sul piano quantitativo.

[3] Una sintesi delle principali impostazioni tradizionali è offerta da M. Barcellona, Strutture della responsabilità e «ingiustizia» del danno, in Eur. e dir. priv., 2000, 416 ss.

[4] La funzione sanzionatoria punisce (anche, o quantomeno, sul piano della responsabilità civile) il responsabile della lesione illecita, perché lo grava di un’obbligazione pecuniaria nei confronti del danneggiato tramite una sorta di “sanzione civile indiretta”.

Tanto le “pene private” quanto le “sanzioni civili indirette” esprimono la fiducia dell’ordinamento verso la capacità di autoregolamentazione della società, ma mostrano elementi di diversità. Le prime sono irrogate da privati a privati senza il necessario intervento degli organi statuali ed hanno fonte contrattuale. Le seconde, seppure presuppongano l’iniziativa del privato che ne percepisce il vantaggio economico, devono invece essere previste dal legislatore ed irrogate dall’Autorità giudiziaria, giacché tendono a soddisfare anche un interesse pubblico.

Sulle funzioni della sanzione penale, v. F. Mantovani, Diritto penale, Parte generale, Milano, 2001, 739 ss.; T. Padovani, Diritto penale, Milano, 1999, 401 ss.

[5] La distinzione tra risarcimento e riparazione è riconosciuta anche da A. De Cupis (Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, II, Milano, 1979, 245 ss.), il quale però la respinge per ragioni di opportunità.

[6] V. la nota 4.

[7] La funzione solidaristica manifesta una sorta di “vicinanza” al danneggiato, a cui altrimenti l’ordinamento negherebbe ogni tutela.

[8] La funzione satisfattiva garantisce al danneggiato un bene alternativo a quello pregiudicato dalla lesione illecita, in base alla considerazione che sarebbe incongruo, nonché contrario a qualunque senso di giustizia, lasciare il danneggiante scevro da ogni responsabilità a causa dell’insussistenza dei presupposti di una tutela risarcitoria e compensativa.

[9] La funzione deterrente sprona i consociati ad astenersi da condotte lesive con la rappresentazione dei “costi” economici ai quali andrebbero incontro se a loro carico sorgessero obblighi di responsabilità civile.

Il medesimo scopo può essere perseguito anche tramite la commisurazione della somma monetaria dovuta al danneggiato all’entità del vantaggio economico che il responsabile abbia tratto dalla lesione illecita, così da azzerare quel vantaggio e rendere inutile il fatto illecito o l’inadempimento (come avviene negli U.S.A. con l’istituto del discorgement).

La previsione dell’eventuale assoggettamento a responsabilità, comunque, favorisce l’adozione da parte del potenziale danneggiante di ogni ragionevole cautela tesa a scongiurare pregiudizi a terzi, almeno nei limiti dell’equivalenza tra i costi delle cautele suggerite dalla diligenza e l’entità dell’eventuale risarcimento/riparazione che spetterebbe al danneggiato. Adoperando una terminologia penalistica, si potrebbe parlare di funzione “preventiva” (“generale” o “speciale”, a seconda che la prevenzione si rivolga alla generalità dei consociati o ad uno specifico soggetto che ha già realizzato una lesione illecita e potrebbe rendersi “recidivo”).

[10] La funzione della tutela riparatoria è composita quando risulta dalla variabile combinazione di sfumature di tipo sanzionatorio, solidaristico, satisfattivo e deterrente.

[11] Sulle plurime funzioni della responsabilità civile, «le quali, a seconda delle mode, sono ora l’una ora l’altra maggiormente in auge», v. P.G. Monateri, La responsabilità civile, in Tratt. di dir. civ., diretto da R. Sacco, Le fonti delle obbligazioni, 3, Torino, 1998, 19 ss.

[12] Si fa riferimento, per la giurisprudenza, alle storiche Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 (le pronunce si trovano commentate in Foro it., 2009, I, 120, con note di A. Palmieri, R. Pardolesi-R. Simone, G. Ponzanelli ed E. Navarretta; in Resp. civ. e prev., 2009, 38, con note di P.G. Monateri, E. Navarretta, D. Poletti e P. Ziviz; in Danno e resp., 2009, 19, con note di A. Procida Mirabelli di Lauro, S. Landini e C. Sganga), nonché alle precedenti Cass. civ., 31 maggio 2003, nn. 8828-8827, avallate con sentenza interpretativa di rigetto da Corte Cost., 16 luglio 2003, n. 233 (le pronunce si trovano commentate in Corr. giur., 2003, 1031, con nota di M. Franzoni; in Danno e resp., 2003, 816, con note di F.D. Busnelli, G. Ponzanelli e A. Procida Mirabelli di Lauro; in Danno e resp., 2003, 939, con note di M. Bona, G. Cricenti, G. Ponzanelli, A. Procida Mirabelli di Lauro e O. Troiano; in Resp. civ. e prev., 2003, 685 e 1041, con note di P. Cendon, E. Bargelli e P. Ziviz; in Foro it., 2003, I, 2201, con nota di E. Navarretta, e 2272, con note di L. La Battaglia e E. Navarretta).

La riparabilità del danno morale anche in mancanza di illiceità penale è stata ribadita in Corte Cost., 13 gennaio 2005, n. 58, ord. (in Resp. civ. e prev., 2005, 651, con nota di D. Poletti), con la quale è stato dissipato ogni dubbio sulla corretta lettura delle sentenze emesse dalla Cassazione nel 2003, nonché in Cass. civ., Sez. Un., n. 26972/2008, cit..

Si suole dire che l’art. 2059 c.c. subordina la riparabilità del danno non patrimoniale ad una riserva di legge, ma in dottrina è stato ricordato che «la Costituzione, la sola che abbia il potere di attribuire in via esclusiva al parlamento la competenza per una particolare materia ..., non contempla alcuna norma ... che conferisca al monopolio del legislatore l’individuazione dei casi in cui possano essere risarciti i danni non patrimoniali. ... [L]’art. 2059 c.c. evidentemente prevede un semplice rinvio alla legge, che esprime un precetto di tipicità, ma non di tassatività ...» (Così E. Navarretta, Danni non patrimoniali: il dogma infranto e il nuovo diritto vivente, nota di commento a Cass. civ., nn. 8828-8827-7283-7281/2003, cit., in Foro it., 2003, I, 2273).

Sull’assetto sistematico conseguente alle pronunce del 2003, v. in dottrina F.D. Busnelli, Chiaroscuri d’estate. La Corte di Cassazione e il danno alla persona, in Danno e resp., 2003, 826; F. Gazzoni, L’art. 2059 c.c. e la Corte Costituzionale: la maledizione colpisce ancora, in Resp. civ. e prev., 2003, 1292; M. Franzoni, Il nuovo corso del danno non patrimoniale, in Contr. e impr., 2003, 1193 ss., 1210 ss.; G. Ponzanelli, Le tre voci di danno non patrimoniale: problemi e prospettive, in Danno e resp., 2004, 5; C. Castronovo, Il danno alla persona tra essere e avere, in Danno e resp., 2004, 237; A. Scalisi, Il danno esistenziale. La «svolta» della Suprema Corte di Cassazione avallata «quasi in simultanea» dalla Corte Costituzionale, in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, 58; E. Navarretta, Ripensare il sistema dei danni non patrimoniali, in Resp. civ. e prev., 2004, 3. V., inoltre, M. Bona-P.G. Monateri, Il nuovo danno non patrimoniale, Milano, 2004, 229 ss.; i contributi di G. Ponzanelli, G. Comandé, L. Di Bona De Sarzana, G. Pedrazzi, S. Cacace, C. Amato, G. Maccaboni, R. Breda, C. Comai, C. Perfumi, A. Venturelli e F. Di Ciommo, in Il “nuovo” danno non patrimoniale, a cura di G. Ponzanelli, Padova, 2004; quelli di P. Cendon, P. Ziviz, F.D. Busnelli e G. Ponzanelli, in La nuova disciplina del danno non patrimoniale, a cura di U. Dal Lago-R. Bordon, Milano, 2005; nonché quelli di E. Navarretta, D. Poletti, E. Bargelli, R. Bellé e N. Bisordi, in I danni non patrimoniali, lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, a cura di E. Navarretta, Milano, 2004.

Sull’assetto sistematico conseguente alle pronunce del 2008, v. in dottrina E. Navarretta, Danni non patrimoniali: il compimento della Drittwirkung e il declino delle antinomie, in Nuova giur. civ. comm., 2009, II, 81; G. Ponzanelli, La prevista esclusione del danno esistenziale e il principio di integrale riparazione del danno: verso un nuovo sistema di riparazione del danno alla persona, in Nuova giur. civ. comm., 2009, II, 90; F.D. Busnelli, Le Sezioni Unite e il danno non patrimoniale, in Riv. dir. civ., 2009, II, 97; E. Lamarque, Il nuovo danno non patrimoniale sotto la lente del costituzionalista, in Danno e resp., 2009, 363; AA.VV., in Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, a cura di E. Navarretta, Milano, 2010.

Per una rassegna di dottrina e giurisprudenza, si consenta il rinvio a G. Anzani, I percorsi del danno non patrimoniale, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 395.

[13] V. A. Baldassarre, Voce «Diritti inviolabili», in Enc. Giur. Treccani, XI, Roma, 1989; G. Peces-Barba Martinez (trad. italiana di E. Rozo Acuna), Voce «Diritti e doveri fondamentali», in Dig. Disc. Pubbl., V, Torino, 1990, 139; L. Paladin, Diritto Costituzionale, 2a ed., Padova, 1996, 551 ss.; A. Pizzorusso, Istituzioni di diritto pubblico, Napoli, 1997, 19, 213 ss., 311 ss.

[14] V. E. Navarretta, Diritto civile e diritto costituzionale, in Riv. dir. civ., 2012, I, 656 ss.

È controverso se sia preferibile la configurazione di più diritti della personalità («teoria pluralistica»), che permetterebbe di tutelare la persona solo quando venga coinvolto uno specifico diritto nominato salvo il ricorso all’analogia, o piuttosto di un unico generale diritto della personalità («teoria monistica»), che limiterebbe il rischio di lacune nella tutela della persona [v. già D. Messinetti, Voce «Personalità (diritti della)», in Enc. Dir., XXXIII, Milano, 1983, 355; P. Rescigno, Voce «Personalità (diritti della)», in Enc. Giur. Treccani, XXXIII, Roma, 1990, 1], ma dopo iniziali incertezze la giurisprudenza sembra ormai orientata in questa seconda direzione (cfr. già Cass. civ., 20 aprile 1963, n. 900, in Giust.civ., 1963, I, 1280).

La persona racchiude un valore unitario, insuscettibile di tradursi ed esaurirsi, secondo la logica dell’avere piuttosto che dell’essere, in una gamma più o meno variegata – ma pur sempre ristretta – di diritti dei quali i soggetti riconosciuti dall’ordinamento abbiano la semplice titolarità. In primo luogo, ciò non significa negare che la realizzazione della personalità esiga il soddisfacimento di una pluralità di interessi, e dunque disconoscere tanto l’ammissibilità quanto l’opportunità – a fini sia descrittivi sia di disciplina – delle operazioni dogmatiche volte ad individuare e denominare le varie componenti della persona, ma implica l’esaltazione delle virtualità funzionali del concetto, nel contempo espansivo ed aggregante, di “dignità umana” (v. D. Messinetti, Recenti orientamenti sulla tutela della persona. La moltiplicazione dei diritti e dei danni, in Riv. crit. dir. priv., 1992, 174, 178 ss.). In secondo luogo, bisogna constatare che il ricorso allo schema del diritto soggettivo ed alle tradizionali tecniche predisposte per la sua protezione – incentrate a livello civilistico sul rimedio risarcitorio ed al più su quello inibitorio in senso stretto, che intervengono dopo la lesione ed hanno un contenuto negativo – è spesso insufficiente, giacché gli strumenti a tutela della persona devono essere anche «capaci di determinare, secondo moduli e tecniche variabili, strutture di contropotere, meccanismi di carattere pubblico, istituti capaci di assicurare in maniera diretta e positiva la garanzia del valore» (Così N. Lipari, Diritti fondamentali e categorie civilistiche, in Riv. dir. civ., 1996, I, 416 ss.).

[15] V. A. Baldassarre (op. cit., 18 ss.), il quale osserva che la formulazione ampia ed elastica del linguaggio costituzionale permette interpretazioni evolutive che, senza forzature del dato letterale, rendono inutile l’individuazione del fondamento positivo dei “nuovi diritti” enucleati in accordo alla coscienza sociale nell’art. 2 Cost., giacché ciascuno di essi è quasi sempre riconducibile a qualche specifica disposizione costituzionale; L. Paladin, op. cit., 562 ss.

[16] V. G. Cricenti, op. cit., 88.

[17] In questo senso, d’altra parte, si era espressa anche la giurisprudenza successiva al revirement del 2003: cfr., ex multis, Cass. civ., 25 luglio 2005, n. 15022, in Resp. civ. e prev., 2006, 86, con nota di P. Cendon.

Sarebbe altrimenti riparabile il pregiudizio non patrimoniale derivante dalla lesione di un qualsivoglia interesse di rango costituzionale, sebbene non attinente alla persona: cfr., in tal senso, Trib. Milano, 27 novembre 2000 (in Resp. civ. e prev., 2001, 669, con nota di P. Ziviz), in cui è stato riparato il danno esistenziale patito dal proprietario di una motocicletta danneggiata; nonché Trib. Firenze, 21 gennaio 2011 (in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 762, con nota di F. Azzarri), in cui è stato riparato il danno non patrimoniale patito dalla proprietaria di un appartamento per alcune infiltrazioni d’acqua.

[18] Nella giurisprudenza costituzionale, cfr. Corte Cost., 22-24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, in Foro it., 2008, I, 39, con note di R. Romboli, A. Travi, L. Cappuccio e F. Ghera.

In dottrina, v. C. Salvi, La proprietà privata e l’Europa. Diritto di libertà o funzione sociale?, in Riv. crit. dir. priv., 2009, 409; nonché F. Azzarri (Il sensibile diritto. Valori e interessi nella responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 2012, 31 ss.), il quale osserva che riguardo alla proprietà e agli altri beni patrimoniali, tra l’altro, l’art. 1 del Primo Protocollo alla C.E.D.U. – come si precisa nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – si limita ad esigere il rispetto del principio di legalità nelle cause ablative del diritto; E. Navarretta, op. ult. cit., 671 ss.

[19] Cfr. Cass. civ., 11 gennaio 2011, n. 450, in Danno e resp., 2011, 1025, con nota di L. Gremigni Francini.

[20] Cfr. Cass. civ., 1 giugno 2004, n. 10482, in Foro it., 2005, I, 1487, con nota di A. Bitetto; Cass. civ., 18 agosto 2011, n. 17344, in Danno e resp., 2012, 774.

[21] In giurisprudenza, cfr. Cass. civ., 27 ottobre 2004, n. 20814, in Nuova giur. civ. comm., 2005, I, 943, con nota di C. Pasquinelli.

In dottrina, v. G. Afferni, La riparazione del danno non patrimoniale nella responsabilità oggettiva, in Resp. civ. e prev., 2004, 862.

[22] L’impianto delineato dalle Sezioni Unite del 2008 deve ritenersi confermato in Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2009, n. 3677 (in Resp. civ. e prev., 2009, 754, con nota di P. Ziviz), dove la riparabilità del danno non patrimoniale, oltre che poter essere «prevista in modo espresso», è stata adagiata, «pur non essendo prevista da norma di legge ad hoc», sulla lesione di «un diritto della persona direttamente tutelato dalla legge», giacché una tale condizione, per non essere ripetitiva della prima e quindi contraddittoria, va letta come una sintetica allusione a quella compromissione di diritti inviolabili, rilevanti ai sensi della legge costituzionale, considerata nelle (esplicitamente menzionate) sentenze dell’anno precedente.

[23] Il criterio della valutazione della “gravità” o almeno – secondo una successiva e più approfondita riflessione – della “serietà” dell’offesa, suggerito in dottrina da E. Navarretta (ad esempio, nel contributo in I danni non patrimoniali, cit., 29), è stato recepito in giurisprudenza: cfr., in relazione ad alcune ipotesi in cui la gravità dell’offesa era implicita nell’integrazione di un reato (nelle ultime, addirittura l’omicidio doloso), già Cass. civ., 25 maggio 2004, n. 10035, in Danno e resp., 2004, 1065, con nota di G. Ramaccioni; Trib. Milano, 30 agosto 2004 (dec.), in Danno e resp., 2005, 755, con nota di G. Maccaboni; Trib. Milano, 24 ottobre 2003, Trib. Milano, 29 novembre 2003 e Trib. Milano, 9 marzo 2004, n. 3264, in Danno e resp., 2005, 73, con nota di A. Bonetta.

Le Sezioni Unite della Cassazione, tuttavia, hanno affermato che è indispensabile non solo la gravità della lesione, ma anche la serietà del danno-conseguenza: cfr. Cass. civ., Sez. Un., n. 26972/2008, cit.; nonché Cass. civ., Sez. Un., 19 agosto 2009, n. 18356, in Resp. civ. e prev., 2009, 2459, con nota di P. Ziviz. Ed in Cass. civ., Sez. Un., n. 26972/2008, cit., si rileva che la rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., «in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare» ai sensi dell’art. 113, comma 2, c.p.c. [come inciso dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale pronunciata in Corte Cost., 6 luglio 2004, n. 206 (in Giur. it., 2005, 539, con nota di G. Finocchiaro), che ha comportato il superamento del contrapposto orientamento espresso in Cass. civ., Sez. Un., 15 ottobre 1999, n. 716 (in Giust. civ., 1999, I, 3243, con nota di R. Martino)].

Secondo P. Ziviz (Lo spettro dei danni bagatellari, in Resp. civ. e prev., 2007, 517), al contrario, il problema dei pregiudizi minimali ed insignificanti andrebbe risolto sul piano della rilevanza del danno, non su quello logicamente antecedente della rilevanza della lesione.

La riparabilità dei danni bagatellari è invece propugnata da M. Bona-P.G. Monateri (op. cit., 241 ss.), i quali la ritengono strumentale all’efficienza del sistema aquiliano per la capacità di indurre i consociati, mediante la forza dissuasiva della prospettiva di un obbligo risarcitorio, ad uno “spontaneo” adeguamento alle regole.

In generale, e per la rivalutazione a talune condizioni di una funzione anche sanzionatoria e deterrente della riparazione del danno morale in ipotesi di responsabilità soggettiva (nel solco già tracciato da G. Bonilini, Il danno non patrimoniale, Milano, 1983, 256 ss.), v. C. Scognamiglio, Il danno morale soggettivo, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 237. Per una lettura dell’art. 2043 c.c. come clausola generale riferibile ai danni di qualunque natura e dell’art. 2059 c.c. come regola riferita al solo danno morale, a cui riservare ancora una funzione afflittiva nei casi discrezionalmente prescelti in via esclusiva dal legislatore, v. poi R. Scognamiglio, Il danno morale mezzo secolo dopo, in Riv. dir. civ., 2010, I, 609. Per una reinterpretazione estensiva dell’art. 2043 c.c. ed il mantenimento di una connotazione sanzionatoria all’art. 2059 c.c., v. inoltre F.D. Busnelli, Atto illecito e contratto illecito: quale connessione?, in Contr. e impr., 2013, 905 ss.

[24] Cfr., tra le altre, Cass. civ., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572, in Corr. giur., 2006, 787, con nota di P.G. Monateri; in Resp. civ. e prev., 2006, 1041, con note di M. Bertoncini e F. Bilotta; Trib. Milano, 29 marzo 2005 (in Resp. civ. e prev., 2005, 751, con nota di G. Gennari), in cui, accertata la lesione del “diritto all’autodeterminazione” rispetto a trattamenti sanitari, non è stato riconosciuto alcun risarcimento a causa dell’assenza di pregiudizio.

[25] V. la rassegna giurisprudenziale offerta da G. Visintini, I fatti illeciti, II, L’imputabilità e la colpa in rapporto agli altri criteri di imputazione, 2a ed., Milano, 1998, 1 ss.; nonché P.G. Monateri, op. cit., 265 ss.

[26] Il danno morale veniva riconosciuto solo a condizione che sussistesse anche un danno alla salute (o almeno un danno patrimoniale), tanto che per opinabile prassi il primo è sovente liquidato in una misura percentualmente ragguagliata al quantum pecuniario spettante al danneggiato per il secondo: cfr., in relazione al famoso disastro di Seveso, Cass. civ., 24 maggio 1997, n. 4631, in Giur. it., 1998, 1363, con nota di M. Bona. Solo con Cass. civ., Sez. Un., 21 febbraio 2002, n. 2515 (in Danno e resp., 2002, 499, con note di G. Ponzanelli e B. Tassone), ancora una volta relativa alla vicenda di Seveso, è stata affermata l’autonomia del danno morale da altre voci di danno (e sulla stessa vicenda si sono poi pronunciati i giudici di merito in Trib. Milano, 9 giugno 2003, in Danno e resp., 2004, 73, con nota di S. Cacace, ed in Trib. Milano, 27 marzo 2003, in Resp. civ. e prev., 2004, 807, con nota di D. Feola), sebbene con la riproposizione in un primo tempo del fatiscente binomio danno-evento/danno-conseguenza e l’attribuzione anche al danno morale della qualifica di danno-evento.

[27] Il dolo o la colpa dovevano essere concretamente accertati pur in presenza di fatti che integrassero in astratto fattispecie di reato: cfr., ex pluribus, Cass. civ., 17 novembre 1999, n. 12741, in Danno e resp., 2000, 844, con nota di M. Bona. Ma questo orientamento è stato sorpassato con le pronunce rese in Corte Cost., n. 233/2003, cit., e, poco prima, in Cass. civ., 12 maggio 2003, nn. 7281-7282-7283, in Danno e resp., 2003, 715, con nota di G. Ponzanelli.

Contra, in dottrina, C. Salvi (La responsabilità civile, 2a ed., in Tratt. di dir. priv., a cura di G. Iudica-P. Zatti, Milano, 2005, 72 ss.), il quale attribuisce al combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. una peculiare funzione sanzionatoria e, di conseguenza, ritiene necessario per la loro applicazione l’accertamento in concreto della colpa del danneggiante.

[28] In proposito, cfr. di recente Cass. civ., 16 novembre 2015, n. 23401, massimata in Giur. it., 2015, 2545.

[29] Per un’idea sui modelli liquidatori astrattamente applicabili e riscontrabili nella prassi, v. A. Liberati, La liquidazione del danno esistenziale, Padova, 2004, 241 ss.

[30] Cfr. Cass. civ., Sez. Un., nn. 26972, 26973, 26974 e 26975/2008, cit.

[31] Per una lettura correttiva, cfr. già Cass. civ., 20 novembre 2012, n. 20292, in Resp. civ. e prev., 2013, 108, con nota di P. Ziviz.

[32] Così si legge in Cass. civ., 11 ottobre 2013, n. 23147, in Danno e resp., 2014, 279, con nota di G. Ponzanelli.

[33] Così si legge in Cass. civ., 20 aprile 2016, n. 7766, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2016, 1274, con nota di R. Breda.

[34] Così si legge in Cass. civ., n. 7766/2016, cit.

[35] In questa direzione, v. AA.VV., in Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, cit.

[36] Nondimeno, l’impiego delle tabelle deve tener conto della ricomprensione in un’unica voce pure di ciò che prima veniva liquidato ad altro titolo, ed alcuni – osteggiati dalla giurisprudenza di legittimità e da quella costituzionale – ritengono che a tal fine debbano ammettersi superamenti al tetto risarcitorio previsto dal Codice delle Assicurazioni Private, anche oltre le maggiorazioni percentuali massime che esso consente nella personalizzazione della riparazione.

[37] Così si legge in Cass. civ., 7 giugno 2011, n. 12408, in Danno e resp., 2011, 939, con note di M. Hazan e G. Ponzanelli.

In dottrina, v. D. Spera, Tabella milanese e Cassazione, in Danno e resp., 2012, 121.

[38] Cfr. Cass. civ., 4 febbraio 2016, n. 2167, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1006, con nota di D. Ponzanelli.

[39] V. C. Treccani, Prime osservazioni sull’estensione degli artt. 138 e 139 c.a.p. all’esercente la professione sanitaria, in Danno e resp., 2013, 447.

[40] Cfr. Corte Cost., 16 ottobre 2014, n. 235, reperibile sul sito www.cortecostituzionale.it.

In proposito, v. G. Facci, La legittimità costituzionale della disciplina delle micropermanenti, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 424.

[41] Così si legge in Trib. Torino, 3 giugno 2015, n. 4007, in Danno e resp., 2015, 723, con nota di P.G. Monateri.

[42] Cfr., tra le pronunce meno datate, Cass. civ., 11 febbraio 1998, n. 1421, in Danno e resp., 1998, 895, con nota di E. Pellecchia.

La giurisprudenza era tributaria della dominante posizione dottrinale, per la quale v. A. De Cupis, op. cit., 112 ss.; G. Bonilini, op. cit., 449 ss. Contra, già G. Giorgi, op. cit., 322 ss.; S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984, 201 ss.

La coeva giurisprudenza statunitense si attestava su una linea similare ed era parimenti assillata dalla delimitazione del danno risarcibile e dei legittimati a chiedere il risarcimento, nonché dai risvolti sociali ed assicurativi di un’estensione della tutela aquiliana: v. S. Patti, op. cit., 153 ss.

[43] Per gli opportuni riferimenti giurisprudenziali, v. P.G. Monateri (La responsabilità civile, cit., 491 ss.), che auspicava l’integrale overruling dell’orientamento restrittivo.

[44] Cfr. Corte Cost., 27 ottobre 1994, n. 372, in Foro it., 1994, I, 3297, con nota di G. Ponzanelli; in Resp. civ. e prev., 1994, 996, con nota di E. Navarretta; in Giust. civ., 1994, 3035, con nota di F.D. Busnelli.

[45] V. M. Franzoni, Il danno risarcibile, cit., 71 ss.

[46] Il revirement giurisprudenziale è avvenuto con Cass. civ., Sez. Un., 1 luglio 2002, n. 9556, in Corr. giur., 2002, 1127; ma cfr. già Cass. civ., 23 aprile 1998, n. 4186, in Resp. civ. e prev., 1998, 1409, con nota di E. Pellecchia.

In dottrina, per la legittimazione alla pretesa risarcitoria anche del convivente more uxorio della persona deceduta a seguito di un illecito aquiliano, v. già S. Patti, op. cit., 186 ss.

In favore della legittimazione del convivente more uxorio a domandare il risarcimento del danno derivante dalla lesione della propria libertà sessuale in seguito ai postumi invalidanti subiti dalla vittima primaria, cfr. Trib. Verona, 26 settembre 2013, in Danno e resp., 2014, 627, con nota di V. Barba.

In favore della legittimazione del convivente omosessuale a domandare il risarcimento per danni non patrimoniali, cfr. App. Milano, sez. pen., 20 novembre 2012, in Resp. civ. e prev., 2014, 641, con nota di M.M. Winkler; Trib. Milano, 12 settembre 2011, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 205, con nota di A. Lorenzetti.

In Trib. Venezia, 31 luglio 2006 (in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, 864, con nota di C. Valle), si giunge incongruentemente ad affermare che una considerazione del sistema giuridico «basato sulla piena tutela dei diritti dell’individuo sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si sviluppa la sua personalità, prescindendo dalla corrispondenza ad un modello di tipo naturale», permette di concedere la tutela aquiliana anche a chi intrattenesse una convivenza more uxorio incestuosa con un partner defunto a causa di un fatto illecito altrui. Ma questa affermazione, che a rigor di logica si sarebbe dovuta accompagnare alla denuncia di una pretesa incostituzionalità, per contrasto con i diritti inviolabili della persona, del reato di incesto ex art. 564 c.p., punito addirittura in forma aggravata in caso di relazione incestuosa, è smentita già dalla sola presenza nel sistema giuridico di tale reato. Quest’ultimo, per un verso, esclude la plausibilità di un “diritto” alle relazioni incestuose, per altro verso, si giustifica con la necessità di comprimere la libertà sessuale allo scopo di attuare valori ritenuti prevalenti, quali proprio la “naturalità” – sia pure in senso strettamente laico – delle relazioni umane nel contesto familiare: il tabù dell’incesto, infatti, garantisce in tutte le culture sia la salute psico-fisica delle nuove generazioni sia la preservazione della struttura sociale.

Secondo C. Castronovo (Danno esistenziale: il lungo addio, in Danno e resp., 2009, 7 ss.), il «rapporto parentale» troverebbe riconoscimento costituzionale non – come si è soliti affermare – nell’art. 29, comma 1, Cost. («La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio»), che atterrebbe ai soli diritti della famiglia, bensì nell’art. 2 Cost., che è in grado di ricomprendere anche i diritti nella famiglia.

Sul piano dell’accertamento processuale, già A. De Cupis (op. cit., 118 ss.) precisava che «[l]a prova della lesione dell’interesse morale del superstite è, certamente, molto agevolata dall’esistenza del vincolo familiare; ma non può dirsi che la prova dell’uccisione del familiare sia, per se stessa, prova sufficiente ed assoluta della lesione dell’interesse morale del congiunto superstite: potrà anche risultare, invero, che un tale interesse non corrisponde, nella concreta fattispecie, al vincolo familiare coll’ucciso». V. anche G. Bonilini, op. cit., 382, 464 ss.

[47] Cfr. Cass. civ., 16 marzo 2012, n. 4253, in Corr. giur., 2012, 1059, con nota di P. Morozzo della Rocca; in Danno e resp., 2013, 35, con nota di M. Rossetti.

[48] Così si legge in Cass. pen., 4 giugno 2013, n. 29735 (in Foro it., 2014, 2, 86), in cui tra l’altro si evidenzia l’inconferenza del richiamo contenuto in Cass. civ., n. 4253/2012, cit. a Cass. civ., 23 giugno 1993, n. 6938, perché in quest’ultima la situazione di convivenza è stata menzionata solo quale esempio di indice da cui desumere l’effettività in concreto di un rapporto parentale.

[49] Cfr. Trib. Torino, n. 4007/2015, cit.

[50] Cfr. Cass. civ., 24 marzo 2011, n. 6754, (con Cass. civ., 13 maggio 2011, n. 10527) in Danno e resp., 2011, 1091, con nota di G. Ponzanelli; Cass. civ., 14 dicembre 2010, n. 25264, ord., Cass. civ., sez. Lavoro, 7 giugno 2010, n. 13672 e Trib. Piacenza, 29 giugno 2010, n. 458, in Danno e resp., 2011, 254, con nota di C. Medici; Cass. civ., 14.7.2003, n. 11003, Cass. civ., 16.5.2003, n. 7632 e Cass. civ., 4.4.2003, n. 5332, in Resp. civ. e prev., 2003, 1049, con nota di G. Facci; Cass. civ., 24 febbraio 2003, n. 2775, in Resp. civ. e prev., 2003, 1370, con nota di G.L. Righi; Cass. civ., 2 aprile 2001, n. 4783, in Danno e resp., 2001, 820, con nota di M. Bona.

[51] Cfr. Corte Cost., n. 372/1994, cit.

[52] Così si legge in Cass. civ., n. 6754/2011, cit.

[53] Su questo aspetto, cfr. Cass. civ., 18 gennaio 2016, n. 679.

[54] Sull’indispensabile permanenza di uno stato di vigile coscienza, tra le altre, cfr. Cass. civ., 28 novembre 2008, n. 28423, in Arch. giur. circ., 2009, 441.

[55] Per una rassegna di giurisprudenza in proposito, cfr. Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2015, n. 15350, in Corr. giur., 2015, 1203, con nota di F.D. Busnelli.

[56] Ad esempio, in Cass. civ., 6 ottobre 1994, n. 8177 (in Foro it., 1995, I, 1852, con nota di R. Caso), dopo aver tralatiziamente ribadito che il danno morale rappresenta un «non duraturo turbamento dello stato d’animo», i giudici aggiungono contraddittoriamente che «può consistere nella riduzione e nello squilibrio delle capacità intellettive del leso»; in Cass. civ., 4 aprile 2001, n. 4970 (in Resp. civ. e prev., 2002, 154, con nota di C. Favilli) si argomenta che la pretesa al danno morale, qualora non risulti con assoluta certezza la totale incapacità della vittima di percepire il dolore, dev’essere nel dubbio ritenuta fondata, ponendo così soltanto un’inversione dell’onere della prova a carico del danneggiante; in Cass. civ., 1 dicembre 2003, n. 18305 (in Danno e resp., 2004, 143, con nota di M. Bona) si afferma apoditticamente che anche la vittima in stato d’incoscienza subisce sofferenze fisiche e morali; in Cass. civ., 19 ottobre 2007, n. 21976 (in Danno e resp., 2008, 313, con nota di R. Foffa) ci si accontenta di richiamare a sostegno della configurabilità del danno morale in capo a persone in stato comatoso il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità.

[57] In dottrina, v. F.D. Busnelli, Prospettive europee di razionalizzazione del risarcimento del danno non economico, in Danno e resp., 2001, 5; D. Messinetti, Sapere complesso e tecniche giuridiche rimediali, in Eur. e dir. priv., 2005, 605.

In giurisprudenza, cfr. Cass. civ., 15 marzo 2007, n. 5987, in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, 1202, con nota di M. Sella.

[58] V. E. Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996, 329 ss.

[59] Cfr. Trib. Venezia, 15 giugno 2009, in Danno e resp., 2010, 1013, con nota di C. Medici; Trib. Terni, 20 aprile 2005, in Giur. it., 2005, 2281, con nota di P. Porreca.

[60] Così si legge in Cass. civ., 23 gennaio 2014, n. 1361, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 396, con nota di A. Gorgoni, in cui viene inoltre affermato che il danno morale va inteso anche come «lesione alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana».

In senso critico, v. in dottrina, E. Bargelli, Danno non patrimoniale iure hereditario. Spunti per una riflessione critica, in Resp. civ. e prev., 2014, 723.

[61] L’ordinanza di rimessione è Cass. civ., 4 marzo 2014, n. 5056, ord., reperibile sul sito www.cortedicassazione.it.

[62] Così si legge in Cass. civ., n. 15350/2015, cit.


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