CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 02/02/2016 Scarica PDF

La contendibilità dell'azienda in crisi. Dal concordato in continuità alla proposta alternativa del terzo

Paola Vella, Giudice nella Corte di Cassazione


Sommario: I.) Una questione di metodo (prima ancora che di merito); II.)  Qualche accenno alle questioni di merito; III.)  Le principali questioni di fondo; IV.)  I punti salienti della nuova disciplina sulle proposte concorrenti; V.) Alcune criticità del nuovo istituto; V.1) il sospetto di illegittimità costituzionale; V.2) il profilo soggettivo del competitor; V.3) il conflitto di interessi nel voto; V.4) la dissociazione tra legittimazione attiva e responsabilità; V.5) l’ammissibilità di una proposta concorrente “con riserva”; VI.) Conclusioni.


 

I.) Una questione di metodo (prima ancora che di merito)

L’ennesima “mini-riforma” concorsuale dell’estate 2015 – ancora una volta consegnata ad una decretazione d’urgenza (il decreto legge 27 giugno 2015, n. 83) poi significativamente incisa in sede di conversione (dalla legge 6 agosto 2015 n. 132, in vigore dal successivo 21 agosto) – pone stavolta, oltre alle consuete questioni di merito, anche una questione di metodo, mettendo a nudo una sorta di “strabismo” normativo, accompagnato da una qualche “miopia”.

E’ noto, infatti, che appena pochi mesi prima il Ministro della Giustizia aveva istituito (con D.M. 28 gennaio 2015, integrato dal D.M. del 18 febbraio 2015) una apposita “Commissione per elaborare proposte di interventi di riforma, ricognizione e riordino della disciplina delle procedure concorsuali” – che dal suo Presidente ha preso il nome di “Commissione Rordorf” – composta da ben trentaquattro membri di variegata estrazione professionale (Consiglieri della Corte di Cassazione, Professori universitari, Avvocati, Dottori commercialisti, Giudici e Presidenti di vari Tribunali e Corti d’appello, responsabili degli Uffici legislativi di Confindustria ed Associazione bancaria italiana, oltre ad un componente del Nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica della Presidenza del Consiglio dei ministri ed un managing director), supportata da un Comitato scientifico – con compiti anche di segreteria tecnica – composto da ulteriori tredici membri (Magistrati dell’ufficio del Massimario della Cassazione, dell’Ufficio legislativo del Ministero della giustizia, di Tribunali, Procura ed Ispettorato generale, nonché il Vice capo di Gabinetto del Ministro dello sviluppo economico) e con la partecipazione ai lavori – con voto deliberativo – del Capo di Gabinetto e del Capo dell’Ufficio legislativo del Ministro della giustizia, del Capo del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi della Presidenza del consiglio dei ministri nonché dei Capi degli Uffici legislativi del Ministero dell’Economia e delle Finanze e del Ministero dello Sviluppo Economico.

Un parterre oggettivamente affidabile, perchè capace di esprimere caleidoscopicamente l’ampio spettro delle professionalità e competenze coinvolte nella materia della crisi di impresa. Senza contare poi l’apporto finale delle audizioni dei Presidenti del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili, del Consiglio nazionale Forense, di Confindustria, dell’Associazione fra le società italiane per azioni (Assonime) e dell’Associazione bancaria italiana (Abi), disposte prima della elaborazione definitiva delle proposte.

Ad una siffatta Commissione il Ministro aveva affidato il compito, tra l’altro, di operare una «razionalizzazione, semplificazione e uniformazione dei procedimenti previsti dalla legge fallimentare, anche in relazione al raccordo con la disciplina del processo civile telematico», nonché la «individuazione di strumenti diretti a favorire una maggiore uniformità degli orientamenti giurisprudenziali in funzione della certezza del diritto, della competitività dell'ordinamento, e del più ampio supporto alle esigenze di continuità dell'impresa».

Ed a tal fine aveva osservato –  aspetto, questo, di capitale importanza – «che la rilevanza e la complessità delle modifiche normative susseguitesi in materia di procedure concorsuali e crisi d’impresa ovvero da sovraindebitamento, rendono opportuna un’analisi organica delle stesse, al fine di monitorarne gli effetti e di valutare la necessità di ulteriori interventi normativi di riordino».

A fronte di tali premesse e tenuto conto che, addirittura con ampio anticipo rispetto alla scadenza assegnata per la predisposizione delle proposte (31 dicembre 2015), già a giugno-luglio 2015 la Commissione aveva predisposto un testo completo, che si accingeva a consegnare ufficialmente al Ministro per l’eventuale recepimento in un disegno di legge-delega, sfugge la coerenza di un intervento normativo d’urgenza che, esattamente in quel periodo, non si è limitato ad adottare poche e specifiche misure, rese in ipotesi necessarie da pressioni di natura economico-finanziaria, anche a livello europeo – idonee semmai a giustificare i nuovi istituti dell’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria (art. 182-septies l.fall.), la nuova categoria dei finanziamenti urgenti nel concordato con riserva (art. 182-quinquies, comma 3), e forse anche le proposte ed offerte concorrenti di terzi nella procedura di concordato preventivo (artt. 163, commi 4-7, e 163-bis l.fall.), nonché, a tutto voler concedere, la chiusura del fallimento in pendenza di giudizi (artt. 118 comma 2  e 120 l.fall.) – ma si è spinto oltre, sino ad incidere, talvolta anche con vere e proprie “inversioni a U” (si pensi all’eliminazione del voto per c.d. “silenzio-assenso” nel concordato preventivo, introdotto appena tre anni prima nell’art. 179, comma 4, l.fall., con la legge 7 agosto 2012 n. 134), quasi tutti gli istituti concorsuali: dai requisiti per la nomina a curatore (art. 28 l.fall.) al suo compenso (art. 39 l.fall.), dai rapporti processuali (art. 43 l.fall.) agli atti a titolo gratuito (art. 64 l.fall.), dal programma di liquidazione (art. 104 l.fall.) alle modalità delle vendite (art. 107 l.fall.), dai presupposti per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo (art. 160 l.fall.) alla domanda di concordato (art. 161 l.fall.), dai compiti del commissario giudiziale (art. 165 e 172 l.fall.) alle norme fallimentari applicabili al concordato (art. 169 l.fall.) ed ai contratti pendenti (art. 169-bis l.fall.), dalle operazioni da compiersi nell’adunanza dei creditori (art. 175 l.fall.) alla maggioranza necessaria per l’approvazione del concordato (art. 177 l.fall.) ed alle relative adesioni (art. 178 l.fall.), dalla chiusura della procedura di concordato (art. 181 l.fal.) alla disciplina delle cessioni (art. 182 l.fall.), per arrivare sino all’esecuzione del concordato (art. 185 l.fall.) ed alle sanzioni penali (artt. 236 e 236-bis l.fall.).

Volendo ricorrere ad una vivace metafora, è come se, mentre una qualificata equipe di medici specialisti, dopo attente anamnesi e diagnosi, sta per somministrare al paziente le medicine ritenute appropriate, attorno al letto del malcapitato sopraggiungono, sovrapponendosi ai primi, altri medici, che propinano al malato alcuni farmaci per la cura dei sintomi di alcune delle sue patologie, senza disporre di un quadro clinico chiaro e completo, e dunque senza poter intervenire con una consapevole strategia di cura unitaria: se il paziente sopravviverà a tanta confusione, sarà comunque un successo, ma si dovrà poi vedere con quali risultati complessivi e – soprattutto – a quale prezzo.

Il prezzo per ora pagato dagli operatori ed utenti del sistema concorsuale è una ulteriore iniezione di instabilità ed incertezza in un panorama che aveva già visto faticosamente sedimentare, nel corso di due lustri – e tra plurime correzioni di rotta – la spinta riformatrice fortemente innovativa contenuta in nuce nel decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e poi sistematizzata con il decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, a sua volta corretto dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169; per non enumerare le ulteriori modifiche normative succedutesi da allora ad oggi, con frequenza talvolta addirittura infrannuale.


II.)  Qualche accenno alle questioni di merito

Per comprendere il retroterra di questa assai diffusa critica, che si registra tra interpreti ed operatori del settore, è sufficiente pensare a quante delle recentissime innovazioni abbiano minato le proclamate esigenze di stabilità e certezza del diritto, nonché di semplificazione delle regole, tanto necessarie soprattutto in un settore del diritto così contiguo agli interessi dell’economia.

Si vedano, a titolo meramente esemplificativo:

a) quanto all’esigenza di stabilità del sistema: 1) la sostanziale (re)introduzione di una sorta di “meritevolezza oggettiva” per l’accesso al concordato liquidatorio, attraverso l’imposizione, con l’ultimo comma dell’art. 160 l.fall., di una soglia elevata di soddisfacimento (rectius pagamento) dei creditori chirografari, pari ad almeno il 20%, in una logica punitiva dell’imprenditore che non riesca a raggiungerla, destinato perciò solo al fallimento (in controtendenza rispetto al declamato favor del legislatore per la soluzione concordataria); 2) la speculare erosione della sfera di autonoma valutazione della convenienza del concordato, che le riforme avevano progressivamente inteso attribuire in via esclusiva ai creditori, ora invece esautorati dalla facoltà di ritenere più conveniente un concordato liquidatorio che li soddisfi nella misura del 19%, rispetto all’alternativa fallimentare; 3) il rischio che la predeterminazione di questa soglia “secca” di accesso al concordato preventivo liquidatorio mandi “in soffitta” la sofferta, criticata, ma ormai acquisita elaborazione giurisprudenziale (a partire dalla miliare sentenza delle Sezioni Unite n. 1521/2013, seguita sul punto da tutte le successive pronunce nomofilattiche) del concetto di “causa concreta” del concordato – intesa come regolazione della crisi mediante una sia pur minimale soddisfazione dei creditori chirografari, in un tempo ragionevole – e delle connesse nozioni di fattibilità economica e giuridica, che, per quanto controverse, costituiscono ormai diritto vivente; 4) la maggiore rigidità che quella stessa regola proietta sulla valutazione dell’inadempimento rilevante ai fini della risoluzione del concordato ex art. 186 l.fall., quando in passato l’indicazione della percentuale offerta non assumeva valore vincolante a quegli stessi fini; 5) il clamoroso (specie in assenza di proposte concorrenti) contro-revirement sulla facoltà dei creditori di aderire alla proposta concordataria attraverso il c.d. “silenzio-assenso”, cui si è già fatto cenno; 6) il ripristino di profili marcatamente pubblicistici, con la rinforzata presenza del pubblico ministero all’interno della procedura concordataria, attraverso l’obbligo ex art. 161, comma 5, l.fall., di trasmettere all’organo inquirente non solo copia della domanda, ma anche degli atti e documenti del debitore nonché della relazione ex art. 172 l.fall. del commissario giudiziale, e soprattutto il gravoso e pregnante obbligo di quest’ultimo, introdotto nell’art. 165, ultimo comma, l.fall., di comunicare «senza ritardo al pubblico ministero i fatti che possono interessare ai fini delle indagini preliminari in sede penale e dei quali viene a conoscenza nello svolgimento delle sue funzioni»;

b) quanto all’esigenza di certezza del diritto: 1) l’enorme dibattito già maturato sul significato da assegnare al termine “assicurare”, contenuto nell’ultimo comma dell’art. 160 l.fall., con riguardo al «pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari», discutendosi se ai fini dell’ammissione della proposta occorra la certezza o anche solo la probabilità di quella misura di soddisfazione, se ad assicurarla debba essere il debitore o l’attestatore e, soprattutto, se detta percentuale debba essere riferita a ciascuno dei creditori ovvero – in media – all’intera categoria, con possibilità quindi di un diverso trattamento di eventuali classi, come il riferimento al 20% non già dei crediti chirografari, bensì del loro “ammontare”, lascerebbe supporre (ed identiche considerazioni valgono per le percentuali del trenta e quaranta per cento contemplate dalla norma sulle proposte concorrenti); 2) l’analogo tormento ermeneutico suscitato nelle prime applicazioni del novellato art. 118 l.fall., laddove, con disposizioni tanto stringate nella forma, quanto gravide di complicanze processuali nella sostanza, si è introdotta la possibilità (da taluno letta come vero e proprio escamotage ai fini delle strettorie della c.d. Legge Pinto) di chiudere il fallimento nonostante la “pendenza di giudizi”; 3) il dilemma se la preclusione delle proposte di concordato concorrenti ex art. 163, comma 4, l.fall. – laddove sia assicurato «il pagamento di almeno il quaranta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari o, nel caso di concordato con continuità aziendale, di almeno il trenta per cento» (art. 163, comma 5, l.fall.), sia strettamente (e rigorosamente) subordinata al pagamento – inteso come estinzione del debito in denaro – ovvero questo possa essere inteso più genericamente (e non solo per la parte eccedente quella soglia) come “soddisfazione”, tenuto conto che: il primo comma, lett. a), dell’art. 160 l.fall., continua ad ammettere la «soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma» (in ciò risiedendo anzi il valore aggiunto della flessibilità del nuovo concordato); il secondo comma, lett. e) dell’art. 161 l.fall. fa ora un esplicito riferimento alla «utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore», confermando il superamento della pedissequa equazione tra soddisfazione e pagamento (sicchè quest’ultimo termine sarebbe stato utilizzato in senso atecnico); ma soprattutto l’ultimo comma dell’art. 161 l.fall. esclude nel concordato con continuità aziendale l’obbligo di assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari, sicché quantomeno in quella tipologia di concordato sarebbe ammessa una soddisfazione del 40% dei crediti senza un pagamento in senso stretto; 4) i fondati sospetti di illegittimità costituzionale suscitati dalle forti limitazioni del diritto di difesa del terzo destinatario di atti a titolo gratuito di cui all’art. 64 l.fall., che il novellato secondo comma comprime nella ristrettezza dei tempi e dell’oggetto del reclamo ex art. 36 l.fall.; 5) le perplessità suscitate dal diritto di voto sulla loro stessa proposta, attribuito dall’art. 163, ultimo comma, l.fall. ai creditori che abbiano presentato una proposta concorrente, sol che inseriti in una autonoma classe, in distonia con la tendenza dell’ordinamento ad eliminare le ipotesi di conflitto di interessi;

c) quanto all’esigenza di semplificazione delle regole: 1) l’esasperato ricorso – quasi in un accesso “ragionieristico” – ad una serie di soglie percentuali di ogni genere (10% per le proposte concorrenti dei creditori, 20% per l’ammissibilità del concordato liquidatorio, 30% per la preclusione delle proposte concorrenti in quest’ultimo e 40% per l’analoga preclusione in quello con continuità aziendale), che ancorano rigidamente gli snodi cruciali del percorso concordatario – condizionandone pesantemente l’esito – a stime intrinsecamente aleatorie; 2) l’adozione di scansioni procedimentali alquanto farraginose, come la successione dei termini – di 45, 30, 15 e 10 giorni prima dell’adunanza dei creditori (peraltro non sempre congruenti con i restanti termini fissati dagli artt. 163, comma 2, n. 2) e 181 l.fall.) – riferiti alle varie attività dei soggetti che prendono parte al percorso concordatario, in una sequenza sincopata che agita lontanamente lo spettro della fallace esperienza del rito societario, introdotto nel 2003 e presto abbandonato.

Tuttavia, con onestà intellettuale va sottolineato quanto sia di più facile declinazione la pars destruens rispetto alla pars construens; e dunque, in un’ottica positiva e costruttiva, l’ultima mini-riforma può ben costituire una sorta di banco di prova sperimentale, quantomeno sui grandi punti di novità da essa dischiusi – primo fra tutti proprio quello della contendibilità dell’impresa in crisi – che solo una vera riforma organica può al meglio sviluppare ed armonizzare nell’ordinamento.

Frattanto, all’esito di una revisione del testo dopo la pausa estiva, proprio per tener conto delle sopravvenienze normative “di mezza estate”, il 29 dicembre 2015 il Presidente Rordorf ha ufficialmente consegnato al Ministro, unitamente alla relazione accompagnatoria, la versione finale dello “Schema di disegno di legge delega recante Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza” (di seguito, breviter, “Proposta”).

Vi è quindi da sperare che si riesca finalmente a compiere, quanto prima possibile, quel salto di qualità – ormai da tutti invocato – nella tecnica di (necessaria) revisione di una disciplina, quale quella concorsuale, ormai risalente nel suo impianto originario a più di settant’anni orsono.

   

III.) Le principali questioni di fondo

Le frequenti oscillazioni del nostro legislatore in materia concorsuale hanno indotto spesso gli interpreti a porsi l’interrogativo se il nostro sistema di regolazione della crisi d’impresa e dell’insolvenza possa considerarsi creditor or debtor oriented.

A ben vedere, la polarità della soluzione al quesito, frutto delle continue correzioni di rotta poste in essere negli ultimi due lustri, affonda le sue radici nella stessa Carta Costituzionale, il cui art. 41 esordisce affermando che «l’iniziativa economica privata è libera», ma subito dopo aggiunge che essa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale»; laddove i due capisaldi del principio sembrano tendere la mano ora agli interessi del debitore, ora a quelli dei creditori (ma anche degli altri stakeholders dell’impresa, primi fra tutti i dipendenti, per i riflessi sociali del livello occupazionale).

D’altro canto, lo stesso confine tra le nozioni giuridiche di crisi ed insolvenza ­– che costituiscono il sostrato di quell’orientamento – è alquanto labile, come testimonia l’attuale terzo comma dell’art. 160 l.fall. che, sia pure solo ai fini della soluzione concordataria, sin dal 2005 equipara sostanzialmente i due concetti (nel senso che il secondo sarebbe incluso nel primo).

E che si tratti di una differenza piuttosto sfumata emerge anche dalla Raccomandazione 12 marzo 2014 n. 2014/135/UE della Commissione europea “su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all’insolvenza”, il cui (16°) Considerando intercetta in chiave programmatica lo stato di crisi in quelle «difficoltà finanziarie del debitore che comportino con tutta probabilità l’insolvenza», il cui art. 1) individua l’obbiettivo principale di «istituire un quadro giuridico che consenta la ristrutturazione efficace delle imprese sane in difficoltà finanziaria» ed il cui art. 5, infine, definisce espressamente alla lett. a) il debitore come «la persona fisica o giuridica che versa in difficoltà finanziaria e per la quale sussiste una probabilità di insolvenza».

Di qui il sentore che quella di crisi sia una nozione “ancillare” rispetto all’insolvenza, della quale rappresenta, in fondo, uno stadio prodromico a sviluppo probabilistico, tanto che la stessa Commissione Rordorf ha indicato tra i criteri direttivi di cui all’art. 2, lett. c) della Proposta quello di «introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza».

Ma anche nella prospettiva aziendalistica, i tratti distintivi tra le due condizioni dell’impresa finiscono per sfumare laddove si adotti una concezione dinamica dell’insolvenza (in senso lato) e di conseguenza si intenda la crisi come successione di perdite di esercizio costanti e ripetute, con progressiva erosione del patrimonio netto; di qui l’idea della crisi, non fronteggiata con efficaci rimedi, come “insolvenza prospettica”.

Una sorta di “polarità inversa” si registra anche nel ruolo svolto dai due principali protagonisti dell’universo concorsuale: se infatti per il debitore si è assistito all’evoluzione da una concezione prettamente soggettiva (l’imprenditore) ad una concezione prevalentemente oggettiva (l’impresa) – come il trend legislativo verso il concordato con continuità aziendale e l’ultima frontiera della contendibilità dell’impresa inequivocabilmente attestano – per i creditori si sta assistendo invece ad un processo inverso, in cui dalla prospettiva oggettiva (il credito) si punta ad una visione soggettiva (il creditore), come testimonia il sempre più frequente ricorso ai principi della “soddisfazione” e della “utilità” per i creditori, sino a rendere concepibile l’idea della c.d. ZeroKlass, in cui – anche qui nel terreno di elezione del concordato con continuità aziendale – il credito in sé non è soddisfatto con il pagamento (sia pure falcidiato) e tuttavia il creditore è “soddisfatto” da altre “utilità”, come – tipicamente – la possibilità di continuare a fornire i propri beni all’impresa debitrice. 

Ciò che conta è comunque il progressivo affermarsi di una diversa visione del mercato, in cui le imprese non sono considerate come singole monadi, ma piuttosto come parti di un unicum corpus, in cui la cura della patologia dell’una ridonda a vantaggio anche delle altre.

In questa prospettiva si colloca, ancora una volta, la cruciale Raccomandazione n. 2014/135/UE, il cui (1°) Considerando pone espressamente come obbiettivo «garantire alle imprese sane in difficoltà finanziaria, ovunque siano stabilite nell’Unione, l’accesso a un quadro nazionale in materia di insolvenza che permetta loro di ristrutturarsi in una fase precoce in modo da evitare l’insolvenza, massimizzandone pertanto il valore totale per creditori, dipendenti, proprietari e per l’economia in generale»: dove è chiaro che l’obbiettivo di intervenire, prima che la crisi sfoci in insolvenza, risponde ad un interesse generale il cui valore olistico supera quello dei singoli protagonisti coinvolti, tra i quali figurano, emblematicamente, gli stessi proprietari, oltre che, in posizione finale e sussuntiva, “l’economia in generale”.

Un ulteriore tassello, in questo quadro di insieme di respiro euro-unitario, lo ha posto il nuovo Regolamento (UE) 2015/848 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 maggio 2015 relativo alle procedure di insolvenza – rifusione del regolamento (CE) n. 1346/2000 del Consiglio sulla insolvenza transfrontaliera – il cui art. 1 (Ambito di applicazione) recita, al comma 1: «Il presente regolamento si applica alle procedure concorsuali pubbliche, comprese le procedure provvisorie, disciplinate dalle norme in materia di insolvenza e in cui, a fini di salvataggio, ristrutturazione del debito, riorganizzazione o liquidazione, a) un debitore è spossessato, in tutto o in parte, del proprio patrimonio ed è nominato un amministratore delle procedure di insolvenza, b) i beni e gli affari di un debitore sono soggetti al controllo o alla sorveglianza di un giudice, oppure c) una sospensione temporanea delle azioni esecutive individuali è concessa da un giudice o per legge al fine di consentire le trattative tra il debitore e i suoi creditori, purché le procedure per le quali è concessa la sospensione prevedano misure idonee a tutelare la massa dei creditori e, qualora non sia stato raggiunto un accordo, siano preliminari a una delle procedure di cui alle lettere a) o b)». 

Ed ancora, subito dopo: «Laddove le procedure di cui al presente paragrafo possano essere avviate in situazioni in cui sussiste soltanto una probabilità di insolvenza,  il loro scopo è quello di evitare l’insolvenza del debitore o la cessazione delle attività di quest’ultimo».

Si tratta, all’evidenza, di direttrici assai chiare, che segnano il percorso cui i Paesi dell’Unione europea sono invitati ad adeguarsi.

Nella prima parte, esse tracciano innanzitutto una lineare progressione degli obbiettivi da perseguire, che muovono dal salvataggio dell’impresa, passando attraverso la ristrutturazione dei suoi debiti o la sua riorganizzazione, lasciando solo in fondo, quale soluzione residuale, la liquidazione.

In secondo luogo, esse individuano l’arco degli strumenti da allestire per la regolazione della crisi e dell’insolvenza, tra i quali figurano, accanto ai tradizionali istituti assimilabili al nostro fallimento (lett. a) ed al nostro concordato preventivo (lett. b), anche le più innovative soluzioni riconducibili, nell’ordinamento interno, agli accordi di ristrutturazione dei debiti già previsti, ed alle procedure di allerta di (auspicabile) prossima introduzione (lett. c), significativamente individuati mediante il riferimento alla “rete protettiva” («sospensione temporanea delle azioni esecutive individuali») necessaria al proficuo svolgimento delle trattative che essi presuppongono, con la imposizione, però, di una duplice condizione: 1) che siano adottate idonee misure a tutela degli interessi dei creditori; 2) che il  mancato raggiungimento dell’accordo comporti il passaggio alle procedure strutturate di cui alle lett. a) e b).

Ed è quest’ultimo un tratto di assoluto rilievo, che dà vigore e fondamento alla nuova prospettiva assunta dalla Commissione Rordorf, in base alla quale l’ordinamento offre al debitore un’ampia gamma di strumenti per regolare la crisi, posti tra loro in sequenza logica non necessaria ma vincolante, nel senso che, una volta percorse senza esito positivo tutte le soluzioni “preliminari”, di natura lato sensu conservativa – che godono indiscutibilmente del favor dell’ordinamento – non può che accedersi alla soluzione ultima e residuale della liquidazione; prospettiva inserita nei principi generali della Proposta, e tradotta nell’art. 2, lett. g), per cui il criterio direttivo da assumere è «dare priorità di trattazione, salvi casi di abuso, alle proposteche comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche per il tramite di un diverso imprenditore, e riservando la liquidazione giudiziale ai casi nei quali non venga proposta una soluzione alternativa adeguata».

In altri termini, l’origine comune dei vari esiti possibili, nonchè la collocazione del momento giudiziale “a valle” dei possibili strumenti negoziali, consentono di prevedere che un iniziale percorso di prevenzione (i.e. concordato preventivo), ove rivelatosi impraticabile, possa convertirsi automaticamente in un esito di tipo liquidatorio (i.e. liquidazione), senza necessità di una nuova domanda (e dunque anche con risparmio di tempi e di costi), poichè l’iniziale domanda di prevenzione/regolazione della crisi sussume in sè tutti i prevedibili esiti del percorso giudiziale.

Nella seconda parte del primo comma dell’art. 1, sopra trascritta, il Regolamento (UE) 2015/848 legittima invece l’idea che la regolazione preventiva della crisi abbia un senso laddove si tratti di evitare l’insolvenza e, soprattutto, la cessazione dell’attività del debitore; ed anche questo conferisce in ultima analisi un crisma europeo alla proposta della Commissione Rordorf di ammettere proposte di concordato preventivo «esclusivamente liquidatorie solo in caso di apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori» (art. 6, comma 1) dal momento che, tendenzialmente e per sua natura, il concordato preventivo ha senso quando accompagnato dalla continuità aziendale, soprattutto una volta rivisitata la soluzione liquidatoria, con espunzione delle residue connotazioni “infamanti”, anche solo di tipo lessicale (di qui la prevista abolizione del lemma “fallimento”).

A ben vedere, si tratta di una linea programmatica che risale al Piano d’azione imprenditorialità 2020 [COM(2012) 9 gennaio 2013], non a caso specificamente richiamato nel (9°) Considerando della Raccomandazione n. 2014/135/UE, laddove tra i principali obbiettivi indicati si legge proprio quello di «offrire servizi di sostegno alle imprese in tema di ristrutturazione precoce, di consulenza per evitare i fallimenti e di sostegno alle P.M.I. per ristrutturarsi e rilanciarsi»; come dire, nel momento in cui si realizzi che non vi è alcuna possibilità né di ristrutturazione, né di rilancio – e quindi del recupero della continuità aziendale – non resta altro che procedere alla liquidazione.

E’ questo il crocevia in cui si può intravedere il giusto bilanciamento tra gli interessi del debitore e dei creditori: il valore aggiunto della continuità aziendale può giustificare un sacrificio di questi ultimi, ma la loro tutela torna a prevalere laddove non vi siano interessi da proteggere ulteriori rispetto alla mera soddisfazione del credito, perseguita mediante la liquidazione dei beni del debitore a ciò destinati dall’art. 2740 cod. civ.

   

IV.) I punti salienti della nuova disciplina sulle proposte concorrenti

Come anticipato, una delle più qualificanti innovazioni introdotte dal decreto legge n. 83/2015 è costituita dalle “proposte concorrenti” la cui disciplina, contenuta nei nuovi commi  4, 5, 6 e 7 dell’art. 163 l.fall., è applicabile ai procedimenti di concordato preventivo introdotti successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione n. 132/2015 (21 agosto 2015), e spiega particolare rilevanza nell’ipotesi in cui il debitore abbia veste societaria, poiché, attraverso la possibilità di un aumento di capitale con esclusione o limitazione del diritto di opzione, è stato profondamente mutato lo stesso statuto concordatario, ora idoneo – quantomeno con riguardo alle proposte di terzi – ad incidere non solo sul patrimonio della società, ma anche sulle partecipazioni dei soci (possibilità questa che, secondo i più, resterebbe ancora preclusa alla proposta di concordato proveniente dalla società debitrice, che richiederebbe la rituale adozione delle ordinarie delibere di competenza degli organi sociali).

Nella Relazione di accompagnamento si legge che la possibilità di depositare una proposta concorrente completa di piano – attribuita solo ad uno o più creditori che rappresentino, anche per effetto di acquisti successivi alla presentazione della domanda di concordato, almeno il dieci per cento dei crediti (soglia ai cui fini «non si considerano i crediti della società che controlla la società debitrice, delle società da questa controllate e di quelle sottoposte a comune controllo» e che, nelle intenzioni del legislatore, «dovrebbe svolgere una prima funzione di filtro di iniziative non rilevanti, che finirebbero solo per rischiare di appesantire la procedura») – ha allineato il nostro ordinamento concorsuale a quello della Germania (ove dal 1 marzo 2012 la ESUG - Gesetz zur weiteren Erleichterung der Sanierung von Unternehmen consente che il piano di ristrutturazione, o Insolvenzplan, presentato dai creditori preveda qualsiasi misura consentita dal diritto commerciale, ivi compreso l’aumento di capitale, senza necessità di una apposita deliberazione in tal senso da parte dell'assemblea degli azionisti, vista come una sorta di cram down degli azionisti), della Francia (ove nel 2014 è stata introdotta la possibilità, nelle procedure di redressement judiciaire, di superare l’eventuale veto dei soci dissenzienti attribuendo al mandataire en justice il potere di convocare l'assemblea e votare l’aumento di capitale mediante la sua sottoscrizione da parte di creditori o terzi, e poi, con la Loi Macron del 10 luglio 2015, sono state consentite forme di “esproprio delle partecipazioni sociali” nelle società con almeno centocinquanta dipendenti, per evitare la cessazione dell’attività ed i conseguenti gravi danni all’economia), nonché della Spagna (ove i creditori rappresentanti un quinto dei crediti possono presentare un piano di ristrutturazione alternativo a quello del debitore, ed i soci che irragionevolmente rifiutino di deliberare l'aumento di capitale eventualmente previsto dal piano assumono una responsabilità risarcitoria verso i creditori).

Invero, grazie alle contestuali modifiche dell’art. 185 l.fall., sono state adottate misure atte ad agevolare l'esecuzione di un piano concordatario diverso da quello proposto dal debitore ­– che può prevedere l'intervento di terzi e, se si tratta di s.p.a. o s.r.l., anche un aumento di capitale con esclusione o limitazione del diritto d'opzione – imponendo al debitore medesimo l’obbligo di compiere ogni atto funzionale o necessario, e consentendo al tribunale, in caso di suo inadempimento, di attribuire al commissario giudiziale i relativi poteri, su istanza dello stesso commissario ovvero dei creditori proponenti.

In particolare, se il debitore rivesta la forma societaria sarà possibile la revoca dell'organo amministrativo e la nomina di un amministratore giudiziario (che può coincidere con il liquidatore nominato ai sensi dell'articolo 182 l.fall.), autorizzato anche a convocare l'assemblea e votare egli stesso l'aumento di capitale previsto dal piano, onde evitare che i soci esercitino un potere di veto su operazioni societarie straordinarie, a scapito dei creditori.

Anche le scansioni temporali della procedura sono stata rimodulate, per consentire l’agevole inserimento della proposta concorrente nell’ordinario iter concordatario: è stato introdotto per la sua presentazione il termine di trenta giorni prima dell’adunanza dei creditori; è stato aumentato sino a centoventi giorni il termine entro cui questa va fissata, ai sensi dell’art. 163, secondo comma, n. 2), l.fall.; è stato imposto al commissario giudiziale l’obbligo di depositare la relazione ex art. 172 l.fall. entro quarantacinque giorni prima dell’adunanza, per salvaguardare l’esigenza dei creditori proponenti di avere un quadro informativo adeguato (tanto che per costoro la relazione attestativa di cui all’art. 161, comma 3, l.fall. può essere limitata alla sola fattibilità del piano, per gli aspetti che non siano già oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale, e può addirittura essere omessa, qualora tali aspetti manchino); si è inoltre previsto che, a fronte del deposito di proposte concorrenti, il commissario integra la sua relazione con una particolareggiata comparazione tra tutte le proposte e la deposita almeno dieci giorni prima dell'adunanza (analoga relazione integrativa è contemplata nel caso in cui «emergano informazioni che i creditori devono conoscere ai fini dell'espressione del voto»); infine, è stata data la possibilità di modificare le proposte di concordato fino a quindici giorni prima dell'adunanza medesima, per consentire ai proponenti e (soprattutto) al debitore di offrire condizioni migliorative, al fine di conseguire l’approvazione della propria proposta.

Con il nuovo terzo comma dell'articolo 165 l.fall., è stata posta attenzione all'esigenza di garantire la riservatezza sulle informazioni ottenute in ordine all'impresa in crisi ed ai rischi di abuso che inevitabilmente lambiscono l’istituto, prevedendosi un vaglio preliminare del commissario – apparentemente avulso da ogni controllo giudiziale – circa la congruità e serietà dei creditori che chiedano tutte le informazioni necessarie ai fini della due diligence per la presentazione di proposte alternative (ad esempio assumendo impegni specifici a garanzia del rispetto degli obblighi di riservatezza); analogamente, onde evitare la strumentalizzazione delle informazioni ad una successiva proposta di concordato fallimentare, il creditore che abbia potuto visionare la documentazione dell'impresa in crisi viene sottoposto alle stesse limitazioni temporali previste per la presentazione di una proposta di concordato fallimentare da parte del fallito, o di società cui egli partecipi, o sottoposte a comune controllo, ai sensi dell’art. 124, primo comma, ultimo periodo, l.fall. (e quindi non prima del decorso di un anno dalla dichiarazione di fallimento e non oltre due anni dal decreto di esecutività dello stato passivo).

Al fine di indurre il debitore a presentare proposte concordatarie satisfattive, il legislatore ha previsto che egli può liberarsi della “concorrenza” dei creditori assicurando il pagamento, ancorché dilazionato, di almeno il quaranta per cento dell'ammontare dei crediti chirografari, ove si tratti di concordato liquidatorio, e di almeno il trenta per cento, ove si tratti di concordato in continuità; segno, questo, dell’accentuato favor dell’ordinamento per le soluzioni concordatarie conservative del bene “azienda”.

Favor che tra l’altro – si evidenzia – rinviene indirettamente anche dall’apposizione della soglia di accesso del venti per cento al (solo) concordato liquidatorio, in quanto l’attestazione ex art. 186-bis, comma 2, lett. b), l.fall., che  «la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori» viene a perdere il termine comparativo – quantomeno a livello concordatario – di concordati liquidatori “sotto-soglia”, i quali, quand’anche in ipotesi più convenienti per i creditori, sarebbero in quanto tali inammissibili, ai sensi del novellato ultimo comma dell’art. 160 l.fall. (quindi con prevalenza, ad esempio di un concordato con continuità che assicuri il 10% piuttosto che un concordato liquidatorio che assicuri il 19%).

A meno di ipotizzare, diversamente, che la soggezione (anche) del concordato in continuità aziendale al presupposto di ammissibilità del venti per cento ­– pur espressamente esclusa dall’art. 160 l.fall. – riemerga, sotto altre spoglie, proprio dal giudizio comparativo di cui all’art. 186-bis l.fall., rendendo comparativamente migliore il soddisfacimento dei creditori attraverso la liquidazione fallimentare tutte le volte in cui esso non riesca a garantire ai creditori chirografari il pagamento del 20%; percentuale, questa, che finirebbe così per assumere il ruolo di una sorta di “franchigia”, al di sotto della quale l’unica soluzione ammissibile sarebbe esclusivamente – sia pure per diverse vie – il fallimento.

Non va peraltro trascurato che, ai fini del «miglior soddisfacimento dei creditori» ex art. 186-bis, comma 2, lett. b), l.fall., rilevi non solo la percentuale del pagamento, ma anche, più ampiamente, quella «utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile» che ai sensi del novellato art. 161, comma 2,  lett. e), l.fall., «il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore».

In ogni caso, si è di fronte ad un bel “guazzabuglio” di percentuali, che meriterebbe una migliore sistemazione.

Tornando alla soglia del 40%, nella Relazione si legge che «la possibilità di un'apertura al mercato al di sotto di tale soglia, più alta della media di soddisfacimento attualmente realizzata, dovrebbe rappresentare un incentivo per il debitore a far emergere prima la crisi; la previsione di tale soglia minima inoltre ha la funzione di garantire la serietà della proposta del debitore. In difetto di tale promessa, infatti, l'imprenditore in crisi confessa l'incapienza del proprio patrimonio che, in base ai princìpi generali in tema di responsabilità patrimoniale, deve ritenersi a questo punto integralmente sottoposto a un vincolo di soddisfazione dei creditori».

Anche il sistema di voto è stato significativamente modificato.

In primo luogo, con una previsione indubbiamente distonica, l’art. 163, sesto comma, l.fall., prevede che anche i creditori proponenti hanno diritto di voto sulla loro stessa proposta, alla sola condizione di essere collocati in un'autonoma classe, per consentire agli altri creditori (come si legge nella Relazione) «la possibilità di contestare la convenienza del concordato ex articolo 180, quarto comma».

Quanto al procedimento di voto, l'art. 175 l.fall. prevede che in sede di adunanza tutte le proposte – previamente illustrate dal commissario, con possibilità per il debitore di contestare la ritenuta inammissibilità o non fattibilità delle eventuali proposte concorrenti – siano sottoposte al voto dei creditori, seguendo l'ordine temporale del loro deposito.

A sua volta, il novellato art. 177 l.fall. prevede che, quando sono poste al voto più proposte, si considera approvata quella che ha conseguito la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto (o meglio, per quanto si legge nel prosieguo dell’articolo, “le maggioranze” previste dalla legge), con preferenza – in caso di parità – per quella del debitore ovvero, in caso di parità fra più proposte dei creditori, per quella presentata per prima; ove poi nessuna proposta abbia raggiunto (appunto) entrambe le maggioranze previste (ossia la maggioranza assoluta nel maggior numero di classi, la formazione delle quali è espressamente soggetta al sindacato giudiziale, ai sensi dell’art. 163, comma 7, l.fall.), il giudice delegato rimette al voto la sola proposta che ha conseguito la maggioranza relativa dei crediti ammessi al voto, senza però fissare una nuova udienza, ma solo assegnando un termine di venti giorni per l’espressione del voto per telegramma, lettera, telefax o posta elettronica, ai sensi dell’art. 178, quarto comma, l.fall.; l’ultimo comma dell’art. 177 l.fall. specifica, infine, che sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze il coniuge del (solo) debitore, «i suoi parenti ed affini fino al quarto grado, la società che controlla la società debitrice, le società da questa controllate e quelle sottoposte a comune controllo, nonché i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno prima della proposta di concordato».

Per concludere, la ratio del nuovo istituto risiede, come espressamente indicato nella Relazione: 1) nel «consentire ai creditori, o ad altri imprenditori che acquistino crediti verso l'impresa in crisi» – «qualora ritengano di poter gestire meglio l'attività e siano disponibili a immettere nuovi capitali» – di presentare delle diverse proposte di concordato all’intero ceto creditorio; 2) nel «neutralizzare il rischio che l'imprenditore presenti proposte che non rappresentino l'effettivo valore dell'azienda», appropriandosi dell’eventuale surplus generato dalla ristrutturazione; 3) nello stimolare il debitore, che sia interessato a non perdere il controllo della propria impresa in crisi e voglia evitare la “minaccia” di una proposta alternativa di terzi, a «presentare un'offerta ai creditori che effettivamente preveda per essi la migliore soddisfazione possibile», ovvero a modificare in senso migliorativo la propria proposta originaria, cui sia sopravvenuta una proposta concorrente; 4) in ultima analisi, nel «massimizzare la recovery dei creditori concordatari», mettendo a loro disposizione «una possibilità ulteriore rispetto a quella di accettare o rifiutare in blocco la proposta del debitore».

E’ dunque evidente che il legislatore dell’estate 2015 ha puntato sulla competizione e sul mercato, introducendo – con le proposte concorrenti ex art. 163 l.fall. – una concorrenzialità “a monte”, attraverso la formulazione di una strategia alternativa rispetto a quella proposta dall’imprenditore in crisi, nonché – con le offerte concorrenti ex art. 163-bis l.fall. – una concorrenzialità “a valle”, destinata invece a giocarsi nella fase di attuazione della strategia già delineata dallo stesso imprenditore.

   

V.) Alcune criticità del nuovo istituto

V.1) il sospetto di illegittimità costituzionale

Il primo dubbio sollevato da molti interpreti attiene alla legittimità costituzionale delle proposte concorrenti dei creditori, soprattutto tenuto conto che, ai sensi dell’art. 163, comma 5, l.fall., «la proposta  può prevedere l’intervento di terzi e, se il debitore ha la forma di società per azioni o a responsabilità limitata, può prevedere un aumento di capitale della società con esclusione o limitazione del diritto d'opzione»; con la conseguenza che, sottoscrivendo senza limiti l’aumento di capitale, il terzo potrebbe assumere la qualifica di socio di maggioranza della società debitrice e divenire arbitro della gestione imprenditoriale, in deroga – sotto il profilo  societario – all’art. 2441, comma 5, cod. civ., nonché – nella prospettiva concordataria – all’art. 167, primo comma, l.fall. (che prevede solo uno “spossessamento attenuato” del debitore), così ponendo in essere una sorta di espropriazione dell’impresa, in contrasto con il principio di cui all’art. 2910 cod. civ., che assegna esclusivamente ai creditori la legittimazione a promuovere l’espropriazione forzata, e dunque con emersione di una pretesa discontinuità rispetto al parametro costituzionale della parità di trattamento (art. 3 Cost.).

Sotto altro profilo, e stavolta con riguardo anche ai creditori, l’istituto contrasterebbe con il parametro costituzionale espresso dall’art. 42 della Carta fondamentale, ai sensi del quale «la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale».

Ai suddetti dubbi si è replicato che, per un verso, la partecipazione del terzo resta comunque veicolata dall’iniziativa del creditore e che, per altro verso, il principio della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 cod. civ. fa sì che il patrimonio dell’imprenditore in stato di crisi (o peggio ancora di insolvenza) non può più essere considerato di sua esclusiva proprietà, in quanto  destinato alla soddisfazione del ceto creditorio.

Peraltro, l’effetto esdebitatorio che l’imprenditore consegue (anche) attraverso la proposta concorrente potrebbe assumere la valenza di “indennizzo”, mentre la migliore soddisfazione del ceto creditorio – che si presume realizzato con il raggiungimento della maggioranza più elevata, ai sensi dell’art. 177 l.fall. (al netto di possibili rilievi in tema di conflitto di interessi) – incarnerebbe l’interesse generale.

Deve poi considerarsi che, a rigore, la proposta concorrente che preveda un aumento di capitale della società debitrice con esclusione o limitazione – in forza di apposita disposizione di legge – del diritto d'opzione dei vecchi soci (i quali evidentemente non si sono avvalsi della possibilità di ricapitalizzare l’impresa con nuovo capitale di rischio, ai sensi degli artt. 2446 e ss. cod. civ., né di finanziarla con i benefici prededuttivi introdotti dall’art. 182-quater, terzo comma, l.fall.), non comporta l’ablazione tout court della partecipazione societaria, bensì la (per quanto decisiva) sottrazione del controllo di maggioranza, che, per la verità, essi hanno dimostrato di non saper utilizzare al meglio; e soprattutto deve considerarsi che in termini economici, ed anche a prescindere dalla condizione di crisi, i creditori sociali possono essere visti come fornitori (loro malgrado) e quindi detentori del “capitale di rischio”, capaci di incidere indirettamente sulla gestione societaria, dal momento che il patrimonio sociale è ontologicamente destinato alla loro soddisfazione, e che la responsabilità diretta degli amministratori nei loro confronti, ex artt. 2394 e 2947 cod. civ., rappresenta un contrappeso alla responsabilità limitata dei soci, nonché un limite al moral hazard che, nell’interesse agli utili di questi ultimi, potrebbe indurre ad una gestione incrementativa piuttosto che conservativa.

Più in generale, occorre riflettere sul fatto che già in passato, e sin dalla riforma del 2005, era prevista la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso “qualsiasi forma”, ivi compresa «l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito» (art. 160, comma 1, lett.  a), l.fall.), nonchè «l’attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore», potendosi come tali costituirsi «anche i creditori o società da questi partecipate e da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato» (art. 160, comma 1, lett.  b), l.fall.); tuttavia, si trattava di operazioni pur sempre riconducibili alla volontà del debitore (con la precisazione che nelle società di capitali la domanda di concordato è deliberata non dai soci, ma dall’amministratore, ex art. 152, comma 2, lett. b) l.fall.), il quale invece ora le subisce, a fronte dell’iniziativa dei creditori e dei terzi intervenuti con essi eventualmente operanti.

Ma proprio l’inerzia e la ritrosia dimostrate dagli imprenditori italiani, per oltre dieci anni, ad avvalersi di quegli strumenti più innovativi – ideati per salvaguardare la continuità aziendale – hanno verosimilmente indotto il legislatore a stimolare ab externo gli interessi dei creditori, legittimandoli ad assumere quelle stesse iniziative, pur di evitare che la soluzione concordataria, offerta al debitore senza più vincoli di meritevolezza, ed addirittura con l’opportunità di una disapplicazione degli obblighi societari previsti in caso di riduzione o perdita del capitale sociale (art. 182-sexies l.fall.), fosse da questi utilizzata esclusivamente in chiave liquidatoria.

Va inoltre considerata la critica mossa alla mancata distinzione tra stato di crisi e di insolvenza – cui si sottrae invece la Proposta della Commissione Rordorf, laddove prevede la legittimazione del terzo a promuovere il procedimento di concordato preventivo «nei confronti del debitore che versi in stato di insolvenza, nel rispetto del principio del contraddittorio e con adozione di adeguati strumenti di tutela del debitore medesimo, nonché di misure dirette a prevenire condotte abusive» (art. 6, comma 1, lett. b) – nel presupposto che solo la seconda sia in ipotesi idonea ad integrare quelle esigenze di «utilità sociale» in nome delle quali può essere sacrificata la libertà dell’iniziativa economica privata, ai sensi dell’art. 41 Cost.; né il problema può essere agevolmente superato con l’affermazione per cui le soglie di soddisfacimento del 40% (per il concordato liquidatorio) e del 30% (per il concordato in continuità) attesterebbero ex sé una condizione di insolvenza, come si legge nella Relazione di accompagnamento («l’imprenditore in crisi confessa l’incapienza del proprio patrimonio che, in base ai principi generali in tema di responsabilità patrimoniale, deve ritenersi a questo punto integralmente sottoposto a un vincolo di soddisfazione dei creditori»).

Il tema merita quindi una più approfondita valutazione, con riguardo sia ai presupposti oggettivi delle proposte concorrenti, sia all’estensione soggettiva della relativa legittimazione.

 

V.2) il profilo soggettivo del competitor

Il primo dubbio che si pone, ai fini della legittimazione alle proposte concorrenti, è se – oltre alla soglia percentuale richiesta – anche la stessa qualità di creditore possa essere acquisita successivamente alla presentazione della domanda di cui all’art. 161, come recita l’art. 163, comma 4, l.fall.

Il dato testuale della norma sembrerebbe deporre in senso negativo, laddove attribuisce la legittimazione ad «uno o più creditori», rinviando alla fase successiva solo il raggiungimento della soglia del «dieci per cento dei crediti risultanti dalla situazione patrimoniale depositata ai sensi dell’articolo 161, secondo comma, lettera a)».

A  tali fini appare invece neutra la previsione per cui, «ai fini del computo della percentuale del dieci per cento, non si considerano i crediti della società che controlla la società debitrice, delle società da questa controllate e di quelle sottoposte a comune controllo»; invero, al di là della equivoca formulazione della norma, essa non riguarda solo l’ipotesi in cui si renda necessario l’acquisto di ulteriori crediti per raggiungere la soglia del 10%, ma sta più radicalmente a significare che quella tipologia di crediti non può tout court concorrere al raggiungimento della soglia di legittimazione, che – si badi – è pari ad “almeno” il dieci per cento, sicchè, anche ove già titolari di crediti di ammontare superiore, quei soggetti non potrebbero comunque formulare proposte concorrenti.

La Relazione accompagnatoria sembra invece consentire una soluzione positiva al quesito posto, laddove si auspica lo sviluppo di un mercato dei distressed debts, tenuto conto del fatto che «eventuali investitori interessati a compiere un’operazione di acquisto e risanamento di un’impresa in concordato, per poter presentare una proposta alternativa, dovrebbero infatti acquistare crediti nei confronti dell’impresa in concordato per un valore pari almeno al dieci per cento dell’indebitamento di quest’ultima».

Una simile prospettazione rende invero palese un interesse all’allargamento della platea dei possibili cessionari dei crediti concordatari – specie se operatori finanziari specializzati nella regolazione della crisi di impresa – i quali peraltro subentrano a tutti gli effetti nella posizione del creditore originario; in questa prospettiva, la soglia del dieci per cento rappresenterebbe esclusivamente una garanzia di serietà, volendosi così – attraverso l’imposizione di un impegno finanziario – scoraggiare la presentazione di proposte strumentali o superficiali, che finirebbe solo per intralciare il tempestivo e lineare svolgimento della procedura concordataria.

Né quel riferimento agli «investitori» può essere semplicisticamente ricondotto al possibile «intervento di terzi» previsto dall’art. 163, comma 5, l.fall., proprio per l’esplicita menzione dell’acquisto di crediti, che per il terzo non è invece necessario, assumendo egli il ruolo sostanziale di “assuntore” all’interno di una proposta pur sempre formulata da uno o più creditori, ove egli si limita ad intervenire nella fase esecutiva del concordato, dopo la sua omologazione.

 Peraltro, è parso contraddittorio (ed ipocrita) escludere la legittimazione dei creditori non originari, ma tali divenuti per effetto del successivo acquisto di altri crediti concordatari, ed ammettere al contempo che soggetti terzi possano partecipare di fatto all’attuazione di una proposta concorrente, anche mediante la sottoscrizione di un aumento di capitale della società debitrice, con esclusione del diritto di opzione dei soci originari, così divenendo essi stessi protagonisti della regolazione della crisi, con sostanziale estromissione del debitore.

 

V.3) il conflitto di interessi nel voto

La previsione dell’art. 163, sesto comma, l.fall., per cui i creditori proponenti hanno diritto di voto sulla proposta concorrente da essi presentata – anche se solo a condizione di venire «collocati in una autonoma classe» – prospetta una evidente antinomia.

Invero, mentre non solo per il debitore (che effettivamente non avrebbe ragione di votare su un trattamento concordatario che non lo riguarda), ma anche per il coniuge, i suoi parenti ed affini fino al quarto grado, la società che controlla la società debitrice, le società da questa controllate e quelle sottoposte a comune controllo, nonché per i «cessionari o aggiudicatari» dei crediti di tali soggetti da meno di un anno prima della proposta di concordato, vige il principio della esclusione dal voto e dal computo delle maggioranze, ai sensi del novellato art. 177, ultimo comma, l.fall. (che ha importato la regola prevista dal concordato fallimentare nell’art. 127, quinto e sesto comma, l.fall.), per il creditore proponente vige il principio contrario; così come non è prevista alcuna specifica esclusione dal voto per tutte le categorie di soggetti sopra indicati a lui collegati (ferma restando la loro eventuale esclusione dal voto per altre ragioni, come la titolarità di crediti prelatizi totalmente o parzialmente soddisfatti, ex art. 177, secondo e terzo comma, l.fall.).  A meno di ritenere che per questi soggetti la regola della esclusione dal voto ex art. 177, ultimo comma, l.fall. valga anche se la norma non fa ad essi riferimento, trattandosi di un principio generale; o quantomeno – ed in alternativa – di applicare ad essi, in via analogica, la regola della formazione di un’autonoma classe, come previsto per il creditore proponente.

Diversamente, la regola posta dall’art. 163, quarto comma, l.fall. – per cui «ai fini del computo della percentuale del dieci per cento, non si considerano i crediti della società che controlla la società debitrice, delle società da questa controllate e di quelle sottoposte a comune controllo» – è destinata ad operare sul distinto piano della legittimazione al deposito di proposte concorrenti.

Sebbene l’ammissione al voto del creditore proponente (meno, in realtà, quella degli altri soggetti a lui collegati, e relativi cessionari) si inscriva nel riferito obbiettivo della riforma di alimentare il mercato dei distressed debts, inducendo lo stesso proponente ad acquistare altri crediti concordatari per raggiungere la soglia del dieci per cento, o magari anche superarla, al fine di assicurarsi l’approvazione della propria proposta, tuttavia è evidente il conflitto di interessi che così si ingenera; conflitto solo parzialmente neutralizzato dall’obbligatoria collocazione in un’autonoma classe, utile esclusivamente ad attivare il criterio aggiuntivo della maggioranza (anche) per classi, nonchè ad agevolare la legittimazione all’opposizione all’omologazione ex art. 180, comma 4, l.fall.

L’applicazione della regola dell’esclusione sia dal voto che dalla base per il computo delle maggioranze (ribadita anche dall’ultimo comma dell’art. 182-quater, l.fall.) rappresenterebbe invece una neutralizzazione integrale, sebbene poco rispondente alla lettera ed alla ratio delle nuove norme volute dal legislatore.

 

V.4) la dissociazione tra legittimazione attiva e responsabilità

L’aspetto più interessante dell’introduzione nel concordato preventivo delle “proposte concorrenti” è costituto dalla dissociazione soggettiva, resa ora possibile, tra l’iniziativa per la regolazione della crisi e la responsabilità per gli atti ad essa contrari o pregiudizievoli, quali la rinuncia, l’inadempimento nonché il compimento di atti di frode, ovvero di atti semplicemente emulativi od ostruzionistici.

Si tratta di un tema appena dischiuso dall’ultima riforma, ma meritevole di un approfondimento che non ha evidentemente trovato spazio nell’intervento estivo.

Invero, solo nella fase esecutiva di una proposta concorrente approvata dai creditori ed omologata dal tribunale, per fronteggiare gli eventuali atti “ostili” posti in essere dal debitore il legislatore ha allestito, in favore dei creditori proponenti e dell’eventuale terzo intervenuto, l’ampia tutela endoconcordataria di cui al novellato art. 185 l.fall., che prevede una serie di rimedi per l’ipotesi in cui il debitore contravvenga all’obbligo espresso di «compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla proposta di concordato» già omologata.

Per la fase precedente invece, ferma restando l’auspicabile anticipazione – nei limiti di compatibilità, ed ovviamente mutatis mutandis – di misure analoghe a quelle suddette, può forse ipotizzarsi la praticabilità della tutela in sede ordinaria, anche d’urgenza (art. 700 cod. proc. civ.).

Più problematica è la misura estrema della revoca ex art. 173 l.fall., per quanto espressamente (e forse impropriamente) richiamata nell’art. 185, sesto comma, l.fall. – ma lo stesso vale per l’annullamento ex artt. 186 e 138 l.fall. – poiché la sua applicazione, oltre a determinare le tipiche conseguenze negative a carico del debitore (possibile dichiarazione di fallimento), ridonderebbe anche in danno del creditore proponente, il quale verrebbe a subire l’arresto di una procedura sulla quale, rendendosi parte attiva, ha investito (anche) in termini finanziari. Tuttavia, la riparazione del danno cagionatogli dal debitore sembra doversi collocare in sede fallimentare od ordinaria, a seconda che si apra o meno il fallimento; salvo ipotizzare una (del tutto improbabile) dissociazione tra la sanzione e la regolazione della crisi, rendendo cioè possibile la prosecuzione dell’iter concordatario – sempreché in concreto praticabile – laddove non vi siano i presupposti della dichiarazione di fallimento (primo fra tutti l’insolvenza); ma un effetto così dirompente è inimmaginabile, in difetto di un esplicito riscontro normativo.

Analoghe problematiche investono l’ipotesi di rinuncia del debitore alla domanda di concordato, dal momento che l’impianto attuale attribuisce alla proposta concorrente natura non già autonoma – come quella della domanda di concordato del debitore –  bensì alternativa ed incidentale rispetto a quest’ultima.

In tal caso, nell’ampio spettro delle soluzioni predicabili (e predicate) – a) inammissibilità tout court di una rinuncia, una volta presentate proposte concorrenti; b) ammissibilità della rinuncia, con effetto caducatorio della proposta concorrente: b.1)  entro il termine per la modifica della proposta ex art. 172, secondo comma, l.fall. (15 giorni prima dell’adunanza); b.2) entro l’approvazione del concordato; b.3) entro l’omologazione del concordato (cfr. Cass. n. 8575/2015); c) insensibilità della rinuncia del debitore sulla proposta concorrente, che segue il suo iter – l’ultima potrebbe apparire preferibile, valorizzando il fatto che la legge pone la domanda del debitore come condizione di proponibilità, ma non anche di procedibilità, della proposta concorrente.

Laddove invece l’inadempimento della proposta concorrente sia riconducibile allo stesso proponente, per evitare che la conseguente (eventuale) risoluzione del concordato comporti la perdita per il debitore – senza sua colpa – dell’effetto esdebitatorio, esponendolo altresì al pericolo di una dichiarazione di fallimento, si è ritenuta praticabile una applicazione estensiva della regola prevista dall’art. 186, quarto comma, l.fall. per la diversa ipotesi del concordato con assuntore e con liberazione immediata, restando così esposto solo il creditore proponente alle azioni dei restanti creditori concordatari insoddisfatti.

Pare comunque necessaria una più esplicita e puntuale normazione sulle conseguenze, più o meno patologiche, che portano all’arresto dell’iter concordatario per fatto e colpa di un soggetto diverso dal proponente, onde evitare (o attenuare) il pregiudizio che questi ne riceve, senza portarne la responsabilità. In mancanza, resta alto il rischio di un abuso del potere di rinuncia alla domanda di concordato da parte del debitore, ed in casi più marginali anche del compimento strumentale di atti che ne possano comportere la revoca, al solo scopo di far caducare la proposta concorrente a lui “sgradita”.

 

V.5) l’ammissibilità di una proposta concorrente “con riserva”

Il vaglio di ammissibilità delle proposte concorrenti presuppone che la proposta concordataria del debitore sia stata definitivamente presentata, completa di piano ed attestazione di cui all’art. 161, commi 2 e 3 l.fall., sia perché l’art. 163, comma 4, l.fall. fa espresso riferimento alla «situazione patrimoniale depositata ai sensi dell’articolo 161, secondo comma, lettera a)» (sebbene sia stato ritenuto più significativo, a tal fine, l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti, di cui alla successiva lettera b), sia – e soprattutto – perchè solo su quelle basi il professionista può attestare, come richiesto dal successivo quinto comma dell’art. 163 l.fall., «che la proposta di concordato del debitore assicura il pagamento di almeno il quaranta per cento dell'ammontare dei crediti chirografari o, nel caso di concordato con continuità aziendale di cui all’art. 186-bis, di almeno il trenta per cento dell'ammontare dei crediti chirografari».

Ciò determina indubbiamente una asimmetria di poteri tra debitore e creditori, sia perché apparentemente solo il primo può scegliere – come per lo più accade – di presentare una domanda di concordato con riserva ex art. 161, comma 6, l.fall., sia perché nella fase che conseguentemente si apre, e che può coprire anche un arco temporale di sei mesi, il debitore può incidere assai significativamente sulla gestione aziendale, determinandone le sorti e condizionando la stessa futura configurazione della proposta concordataria, senza che i creditori interessati a proporre proposte alternative possano in quella fase interloquire.

In particolare, possono maturare pesanti prededuzioni – in forza degli atti di ordinaria amministrazione legittimamente compiuti e di quelli urgenti di straordinaria amministrazione debitamente autorizzati ex art. 161 comma 7 l.fall., così come dei finanziamenti interinali o urgenti autorizzati ex art. 182-quinquies commi 1 e 3 l.fall. –, possono essere pagati i crediti anteriori per prestazioni ritenute strategiche (art. 182-quinquies comma 5 l.fall.) e possono anche essere autorizzati la sospensione o lo scioglimento dei contratti pendenti (art. 169-bis l.fall.).

Resta dunque da verificare se non sia da ammettere anche una forma di “proposta prenotativa concorrente”, cui assegnare (almeno) la funzione di attivare il contraddittorio con il creditore (futuro) legittimato, in tutte le fattispecie in cui viene richiesta l’autorizzazione giudiziale al compimento di determinati atti; ovvero, più radicalmente, una “proposta concorrente con riserva” a tutti gli effetti, che indubbiamente ridurrebbe l’evidente asimmetria informativa esistente tra debitore e creditori ai fini della formulazione della proposta di concordato, essendo solo il primo (e verosimilmente geloso) depositario delle più dettagliate e riservate informazioni sulla propria azienda.

De iure condito, la formulazione delle norme non sembra però legittimare una simile interpretazione estensiva, dal momento che il quinto comma dell’art. 163 l.fall. fa espresso riferimento al deposito della relazione di cui all’art. 161, terzo comma, l.fall., la quale è deputata ad attestare non solo la veridicità dei dati aziendali (il che legittimerebbe in ipotesi un ricorso ex art. 161, sesto comma, l.fall. parzialmente corredato dalla documentazione prevista e non completamente “in bianco”), ma anche la fattibilità del piano, il quale, ai sensi della lett. e) del comma precedente, deve contenere la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, nonché, a seguito dell’ultimo intervento normativo, anche «l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore»; il che è a dire che la domanda deve essere necessariamente quella definitiva e completa.

D’altro canto, si potrebbe ipotizzare che non necessariamente ciò che non sia esplicitato non è possibile, e quindi che il riferimento dell’art. 161, sesto comma, l.fall. al solo “imprenditore” non precluda un’analoga facoltà in capo al creditore (sempre che vi sia la situazione patrimoniale necessaria ad individuarne la soglia legittimante del dieci per cento), allo stesso modo in cui il riferimento al debitore contenuto nell’art. 163-bis l.fall. non sembrerebbe ostativo a riconoscere – in tesi – la necessità della procedura competitiva per la ricerca di offerte concorrenti (parimenti finalizzate alla massimizzazione della recovery dei creditori concordatari, come da tutti sottolineato), anche laddove a presentare un piano contenente un’offerta di acquisto dell’azienda o di un ramo di essa o di specifici beni, da parte di un soggetto già individuato (c.d. piano preconfezionato o prepackaged), sia stato il creditore che ha presentato una proposta concorrente.

Volendo fare un parallelo con le previsioni del più famoso modello d’oltreoceano cui si sono ispirate pressoché tutte le legislazioni europee – il noto Chapter 11 del Bankruptcy Code – può rilevarsi che negli U.S.A. i creditori sono legittimati a presentare un piano di ristrutturazione solo allo spirare di un termine, oscillante tra quattro e diciotto mesi, in cui vige l’esclusiva legittimazione del debitore (termine paragonabile a quello fissato dal tribunale nel concordato con riserva, oscillante tra due e sei mesi); pertanto, più che di proposte concorrenti o competitive, dovrebbe parlarsi lì di proposte alternative o meglio suppletive, in quanto dirette a colmare, superandola, l’inerzia del debitore.

Al contrario – e singolarmente – nel nostro ordinamento l’inerzia del debitore assume un ruolo ostativo, precludendo la stessa proponibilità delle proposte concorrenti del creditore, le quali possono infatti solo inserirsi in un percorso concordatario già aperto dal debitore medesimo.

In ultima analisi, si tratta di elucubrazioni che risentono della incompletezza delle nuove norme, le quali, stante la portata fortemente innovativa che le connota, avrebbero sul punto meritato una più approfondita gestazione.

   

VI.) Conclusioni

Nonostante la piena condivisione del principio di competitività cui si ispira, il nuovo regime delle proposte concorrenti presenta le smagliature che si è cercato sopra di tratteggiare, le quali rischiano di decretarne l’insuccesso.

In primo luogo, l’intento di movimentare il mercato dei crediti concordatari – cui sarebbero peraltro interessati per lo più i crediti chirografari, in quanto muniti del diritto di voto – non è di facile realizzazione, specie per la posizione di inferiorità, informativa e gestoria, in cui inevitabilmente il terzo versa rispetto al debitore, che potrebbe indurlo a preferire di rendersi semplice cessionario dell’azienda in crisi, senza accollo dei debiti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 182, quinto comma, e 105, quarto comma, l.fall.

In secondo luogo, l’obbiettivo di anticipare l’emersione della crisi per evitare la competizione appare alquanto velleitario, sia perché nelle attuali condizioni economiche non è facile per i debitori assicurare soglie di soddisfazione pari ad almeno il trenta o il quaranta per cento, sia perché è proprio un’azienda concordataria in buone condizioni a stimolare le proposte concorrenti, sia perché il debitore corre il rischio, nel presentare una proposta di concordato in continuità aziendale, di vedersi superare da una proposta concorrente liquidatoria che, dovendo necessariamente assicurare un pagamento pari o superiore al venti per cento, può risultare più allettante per i creditori, i quali potrebbero quindi preferirla – non essendo posta alcuna priorità del concordato in continuità su quello liquidatorio, né alcun vincolo di omogeneità delle proposte concorrenti rispetto a quella originaria del debitore – sia, infine, perché la consapevolezza che, solo proponendo una domanda di concordato si legittima il creditore a formulare una proposta concorrente, potrebbe dissuadere il debitore dall’attivarsi, ed indurlo a procrastinare la gestione dell’azienda in crisi, sino a farla scivolare in un vero e proprio stato di insolvenza (come già spesso accade, se si considera che da un’analisi effettuata alcuni anni fa sulle imprese dichiarate fallite dal Tribunale di Milano, era risultato che in base all’indice “Z-Score di Altman” ben l’ottantasette per cento di esse erano insolventi da tre anni prima della dichiarazione di fallimento).

In terzo luogo, il perseguimento della massimizzazione della recovery attraverso la competitività delle offerte si attaglia piuttosto ai concordati con continuità aziendale – che sono però i meno frequenti – che non a quelli liquidatori, nei quali la prospettiva di una migliore soddisfazione dei creditori poggia pur sempre su valori di stima, appositamente attestati e soggetti al controllo del tribunale, per il tramite del commissario giudiziale.

Infine, l’apertura alla proposta concorrente rischia di deresponsabilizzare il debitore, se non addirittura indurlo a condotte emulative od ostruzionistiche, la cui previsione potrebbe dissuadere ex ante il creditore dal farsi promotore di una proposta alternativa.

D’altro canto, va pur detto che le proposte concorrenti non paiono né necessariamente “ostili” – in quanto possono rappresentare una auspicabile “terza via” tra una proposta di concordato malfatta ed un infausto esito fallimentare – né necessariamente “sgradite” al debitore, che anzi, a fronte di una situazione di grave crisi (se non di vera e propria insolvenza) potrebbe formulare una proposta di concordato poco allettante proprio per stimolare altrui proposte alternative, e così liberarsi degli impegni e delle responsabilità concordatarie, conservando però il beneficio esdebitatorio, sia pure veicolato dall’adempimento del terzo proponente.

Per concludere, molte delle perplessità sollevate dalla riforma estiva trovano punti di superamento all’interno della diversa e più radicale proposta di riforma organica elaborata dalla Commissione Rordorf, la quale come anticipato prevede, all’art. 6, primo comma: «a) l’ammissibilità di proposte esclusivamente liquidatorie solo in caso di apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori; b) la legittimazione del terzo a promuovere il procedimento nei confronti del debitore che versi in stato di insolvenza, nel rispetto del principio del contraddittorio e con adozione di adeguati strumenti di tutela del debitore medesimo, nonchè di misure dirette a prevenire condotte abusive».

In quella prospettiva, non è legittimato (solo) il creditore titolare di una determinata percentuale di crediti, né questi deve limitarsi a promuovere proposte alternative nell’ambito della procedura promossa dal debitore (potendo invece egli stesso promuoverla), né sono infine previste soglie percentuali di soddisfazione preclusive della legittimazione del terzo.

Occorre però che il debitore versi in stato d’insolvenza – e non di semplice crisi – per rendere più giustificabile la eventuale “sottrazione” dell’azienda al proprio originario titolare.

L’obbiettivo di anticipare la soglia di emersione della crisi viene invece affidato, con maggiore incisività, alle procedure non giudiziali di allerta e composizione assistita della crisi.

Il favor dell’ordinamento viene poi riversato solo sulle proposte che prevedano il superamento della crisi – o anche dell’insolvenza reversibile – mediante la prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività aziendale, tanto che il concordato preventivo liquidatorio resta ammissibile solo ove offra un quid pluris, rispetto al compendio dei beni del debitore insolvente, che sia idoneo a rendere il concordato più vantaggioso per i creditori, e però in misura non irrisoria.

Ciò al fine ultimo di scongiurare che il concordato preventivo finisca per realizzare – come purtroppo è stato sinora nella maggior parte dei casi – le medesime finalità del fallimento (da ridenominare “liquidazione giudiziale”), con gli stessi – lunghissimi – tempi di esecuzione e, per di più, con i maggiori costi dovuti all’incremento delle prededuzioni ed alla presenza di plurime figure professionali, accanto al commissario ed al liquidatore giudiziale; il tutto, senza il vantagio della certezza sulla effettiva consistenza dei crediti, grazie all’accertamento del passivo.



* Testo integrale della Relazione tenuta nella corrispondente Sessione del XXII Convegno nazionale di studi organizzato dall'Associazione Albese “Studi di diritto commerciale”, avente ad oggetto “Il recupero e la contendibilità delle imprese in crisi”, Alba (CN), 21 novembre 2015, i cui Atti sono in corso di pubblicazione nella rivista on-line “Il nuovo diritto delle Società”. Tra gli scritti consultati ai fini dell’intervento: S. Ambrosini, La disciplina della domanda di concordato preventivo nella “miniriforma” del 2015, Crisi d’Impresa e Fallimento, ilCaso.it, 20 agosto 2015; G. D’Attorre, Le proposte di concordato preventivo concorrenti, Fall,, 2015, 1163-1180; F. Lamanna, Le nuove proposte concorrenti: è configurabile un concordato con continuità aziendale del creditore competitor? A quali limiti è soggetta la sua proposta?, il Fallimentarista.it; D. Galletti, Il concordato con assicurazione non è un concordato per garanzia dell’attestatore, il Fallimentarista.it; M. Fabiani, Riflessioni sistematiche sulle addizioni legislative in tema di crisi di impresa, ilCaso.it; G.B. Nardecchia, Le modifiche alla proposta di concordato, Crisi d’Impresa e Fallimento, ilCaso.it, 19 ottobre 2015; A. Rimato, Proposte concorrenti e mercati delle proposte nel nuovo concordato preventivo, FallimentieSocietà.it, 2015; A. Rossi, La gestione dell’impresa nella crisi “atipica”, FallimentieSocietà.it, 2015; G. Savioli, Concorrenza nel mercato e per il mercato delle crisi d’impresa. Le innovazioni del D.L. 83/2015 per la procedura di concordato preventivo, ilCaso.it,, 30 ottobre 2015; L.Varotti, Appunti veloci sulla riforma 2015 della legge fallimentare - terza parte, Crisi d’Impresa e Fallimento, ilCaso.it, 9 settembre 2015; M. Vitiello, Concordato con continuità e liquidatorio dopo la riforma: elementi critici e proposte de iure condendo, il Fallimentarista.it; V. Zanichelli, Il ritorno della ragione o la ragione di un ritorno?, Crisi d’Impresa e Fallimento, ilCaso.it, 4 novembre 2015. Successivamente, sul tema delle proposte concorrenti, v. G. Bozza, Le proposte e le offerte concorrenti, FallimentieSocietà.it, 2016; M. Ratti, Ammissione alla procedura e proposte concorrenti, in AA.VV. Commento operativo al d.l. n. 83/2015 conv. in l. n. 132/2015, Torino, 2015, 133-154.


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